Corso di aggiornamento per sacerdoti diocesani.
Monopoli, 10, 11, 12 Novembre 1958
La nostra testimonianza
Bisogna partire dal principio che portare qualcuno alla fede significa farlo entrare in un ordine di realtà completamente di verso da quello in cui egli vive ed opera: nell’ordine soprannaturale. Non si tratta cioè d’insegnare un certo numero di verità, che d’altra parte sono generalmente superiori alle forze naturali della ragione. Questo è senza dubbio un arricchimento indispensabile, perché i misteri proiettano una luce unica su tutte le realtà essenziali della vita.
Ma vi è di più: queste verità soprannaturali toccano degli atteggiamenti di vita, li determinano, li impegnano. Si tratta dunque anzitutto di mostrare che chi possiede la verità è fortemente interessato ad essa, ne è – per così dire – imbevuto e dominato in tutta la sua persona.
Già s’intravede quali conseguenze ha per noi il fatto di essere in mezzo al popolo cristiano come predicatori della fede. La nostra posizione non è precisamente quella di chi sa e ha il compito di istruire degli ignoranti: il sacerdote è anzitutto colui che crede di fronte ad altri credenti, dei quali deve illuminare e rianimare la fede. Per lontani che essi siano dalla fede, quello che egli predica non è loro del tutto estraneo o sconosciuto: il Battesimo e l’azione interiore dello Spirito non possono che orientarli verso la fede, in forza del dinamismo soprannaturale loro proprio. Il nostro compito è di rispondere alle esigenze di questo dinamismo, che ha bisogno di una testimonianza più esplicita per consolidare la fede più stabilmente e più in profondità. Il sacerdote deve offrire questa testimonianza. Ma chi è un testimone?
La testimonianza della parola.
La parola “testimone” ha un senso ben definito nella Scrittura e un altro senso più esteso, che non è assente dalla Scrittura, ma e stato messo in risalto specialmente al tempo delle persecuzioni, quando ai cristiani era chiesta la testimonianza della vita,nel martirio.
Vediamo prima che cos’è la testimonianza nella Sacra. Scrittura. Quando Gesù nell’imminenza dell’Ascensione al cielo, dice ai suoi discepoli “Voi sarete miei testimoni”, non chiede soltanto l’attestazione di testimoni oculari, nel senso giuridico della parola. Lo stesso rilievo vale per il discorso tenuto da Pietro prima della scelta di Mattia a membro del Collegio apostolico, in occasione della sua prima predicazione al popolo, il giorno della Pentecoste.
Gli Apostoli hanno ben compreso che il Maestro non si limita a costatare ciò che essi hanno visto e inteso e quindi Sono in grado di testimoniare: Egli impone loro una missione ed essi si considerano investiti da un mandato. La loro testimonianza si presenta dunque come una missione ricevuta dal Divino Maestro, che vuole continuare, in loro e per mezzo di loro, la missione che gli è stata affidata dal Padre.
Ora il Cristo è stato inviato dal Padre per annunciare la Buona Novella, per far conoscere, con la sua predicazione il Messaggio di gioia del Regno di Dio. Compiere questa missione e così rendere testimonianza al Padre è il nutrimento stesso di Cristo (Jo, IV, 43); così Egli glorifica il Padre (Jo, XVII, 4.8). Ciò che Egli insegna è unicamente quello che il Padre Gli chiede di rivelare agli uomini (Jo, XII, 49,50). La testimonianza dì Cristo è consistita dunque nel far parte agli uomini della verità che Egli ha contemplato nel seno del Padre
E’ questa la testimonianza che deve essere continuata dai discepoli: come Gesù rivela loro ciò che ha visto e inteso dal Padre, così essi devono a loro volta manifestare ciò che hanno visto e inteso da Gesù. “Come tu mi hai inviato nel mondo, così anch’io li ho mandati nel mondo” (Jo, XVII, 17) dice Gesù nella Preghiera sacerdotale; e lo ripete agli Apostoli dopo la Risurrezione (Jo, XX,21). E per dare alla loro testimonianza una garanzia divina, li riveste della sua stessa autorità: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc. X, 16).
Questa è l’origine della catechesi apostolica e della predicazione del Vangelo, che è continuata lungo i secoli nella Chiesa. Quando noi oggi predichiamo e insegniamo, siamo voci di questa lontana tradizione e non facciamo che ripetere quello che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli e che aveva appreso dal Padre. Con ciò noi rendiamo testimonianza: una testimonianza esterna, che si accorda con la testimonianza interiore, che lo Spirito Santo rende nelle anime dei battezzati per prepararle a riceverne l’insegnamento a penetrarlo, a esserne convinte.
La testimonianza della vita.
Ma quello che ora ci interessa sottolineare non è la semplice trasmissione della parola evangelica, bensì il significato pieno della testimonianza.
La verità portata da Cristo è una vita, o, secondo l’espressione di S. Giovanni: il Verbo è anzitutto Vita e, poiché Vita, è luce degli uomini. (Jo. I, 4). La forza della predicazione di Gesù emerge più dalla sua persona e della sua condotta che dalle sue parole. Egli si rivela e chiama gli uomini alla fede, mostrando loro quello che è e quello che fa, sorgente di tutto ciò che dice. E la testimonianza che rende al Padre, ripete la sua potenza dal dono che egli fa di tutto se stesso, dal sacrificio supremo della sua vita.
Se il Cristo ha trasmesso la verità ricevuta dal Padre sotto forma di una testimonianza di vita, i suoi discepoli la dovranno comunicare nella stessa maniera. Essi propagano la fede per mezzo della loro dedizione totale al Maestro: dedizione che investe tutta la loro vita e si spinge, se necessario, fino al martirio. Solo questa testimonianza completa è decisiva.
Sappiamo bene quale ostacolo costituisca per chi non crede la condotta poco convinta o rilassata dei credenti. E sappiamo anche, dalle relazioni che ce ne hanno dato i convertiti, come questo ostacolo ritardi in tanti casi l’adesione alla fede. E del resto non capita tutti i giorni di sentire giudicare la fede sulla condotta di quelli che ne fanno professione ma non ne danno affatto buona testimonianza?
È’ una reazione spontanea e rivela chiaramente quello che i lontani si attendono dai credenti in genere ma in modo specialissimo da noi. Senza averne sempre una chiara consapevolezza, essi chiedono non dei discorsi o delle dimostrazioni e nemmeno delle belle funzioni: chiedono la testimonianza delle nostre convinzioni e della nostra vita. E noi siamo tenuti a darla. Come avvenne nella persona di Gesù, la verità deve trasparire spontaneamente dalla nostra vita. Prima di essere maestri, organizzatori, funzionari,..prima di essere qualsiasi altra cosa, noi dobbiamo essere uomini di fede.
Quello che ci è chiesto di comunicare lo dobbiamo possedere nel più intimo del cuore, deve formare l’essenza della nostra vocazione di credenti, quello onde tutti i nostri pensieri e sentimenti sono dominati. Abbiamo il compito formidabile ma fondamentale di comunicare la fede per mezzo di ciò che siamo, assai più che per mezzo di ciò che sappiamo e predichiamo.
La collaborazione alla testimonianza dello Spirito.
Sempre partendo dalla natura della fede, notiamo che rimane un’altra esigenza da soddisfare: il sacerdote deve essere un collaboratore della grazia. Esaminando questo aspetto, apparirà più chiaro il senso della sua testimonianza.
Si è detto che lo scopo della nostra azione deve essere di portare i lontani a una fede personale, vivente, essenziale. Ma la fede è essenzialmente opera della grazia; d’altra parte quelli a cui ci rivolgiamo sono pur sempre dei battezzati, nei quali è presente la grazia della fede. Così ogni azione diretta a incrementare la fede non può essere che una collaborazione alla grazia. E’ questo un atteggiamento essenziale.
Noi, in definitiva, non possiamo far appello alla ragione, perché la fede non è la conclusione di un siIlogismo, nè al sentimento che da sé, è impotente sia a dare che a reggere la fede; nè alla nostra autorità che oggi è messa in discussione e comunque è del tutto insufficiente a giustificare un’adesione di fede. La sola autorità alla quale possiamo riferirci è quella del Cristo che è venuto a rivelare Dio e che conferma questa rivelazione con una garanzia divina.
Ora è fondandoci sull’autorità di Cristo che noi collaboriamo alla testimonianza interiore dello Spirito, il quale cerca di unire le anime alla persona di Gesù e di far loro trovare nella persona di Gesù il fondamento della loro persona e della loro vita.
Già in virtù della grazia del Battesimo, lo Spirito Santo opera invisibilmente nelle coscienze. “Egli rende testimonianza al nostro spirito, che siamo figli di Dio”. (Rom. VIII, 16). Per mezzo dello Spirito, il Padre esercita la sua attrazione, senza la quale nessuno può arrivare alla fede in Cristo (Jo. VI, 44). E’ per queste disposizioni, per questa corrispondenza stabilita nell’anima dallo Spirito, che questa può vibrare ad ogni predicazione autentica del Cristo.
In altre parole, noi troviamo un eco nelle anime quando le avviciniamo come testimoni del Cristo, che si appellano a Lui. Non dobbiamo essere noi a parlare, ma Dio in noi, secondo la parola di S. Paolo: “La ragione per cui rendiamo grazie al Signore è che, ricevendo da noi la parola di Dio, voi l’avete accolta, non come parola umana ma per quello che essa è veramente, parola di Dio, che opera ugualmente in voi che credete” (I Tess. Il, 13).
Noi siamo costituiti testimoni della Parola di Dio, del Vangelo “che è forza di Dio per tutti quelli che credono” (Rom. I, 16). D’altra parte è solo questa forza divina della Parola che può fare di noi dei testimoni e il primo dei nostri doveri è di lasciarci penetrare da questa forza. Le qualità naturali senza dubbio ci sono preziose, ma non hanno che un’importanza secondaria: solo la forza della testimonianza ha un peso decisivo.
Lo stesso San Paolo ne ha fatto l’esperienza, quando ad Atene tutti i suoi doni di eloquenza e di adattamento all’uditorio non poterono risparmiargli un rude smacco, mentre poco dopo a Corinto, città di raffinati e d’immorali, la semplice predicazione del Cristo crocifisso otteneva risultati meravigliosi. Per essere veramente testimoni del Cristo bisogna insomma ancorarsi a un atteggiamento di fede ed essere convinti che c’é nel Vangelo “una forza divina per la salvezza” e che la Parola di Dio “spiega la sua potenza in coloro che credono”.
Tuttavia – ed è ancora ciò che ci preme sottolineare – appellarsi all’autorità di Cristo non significa semplicemente citare la Scrittura o riferire le parole di Cristo. Noi tendiamo a far rivivere la dottrina e la vita di Cristo nelle anime: questo suppone che non solo conosciamo ma abbiamo penetrato profondamente e assimilato i dati della Rivelazione e che iI nostro pensiero e la nostra nuova vita siano tutti imbevuti della nostra fede. Quando gli altri, quando i giovani in particolare, vedranno trasparire la fede da tutta la nostra vita, non ci sarà più bisogno di molti discorsi ne di sforzi di altro genere: loro stessi, quasi istintivamente, saranno indotti a prendere il nostro atteggiamento di fede e si troveranno aperti ad accogliere il Cristo che noi predichiamo.
Il Curato d’Ars, da questo punto di vista, è un modello che ci è sempre utile richiamare. Benché trovasse difficoltà a compIetare gli studi teologici, il suo lavoro pastorale ottenne dei risultati sorprendenti. Era la sua santità che agiva e parlava. Si è detto di lui che pregava con tutta la sua persona e che la sua semplice presenza era già un’apparizione della verità. E quando parlava del Cristo e della Vergine, i suoi uditori avevano l’impressione che egli vedesse quello di cui parlava con tutta la pienezza del cuore.
La testimonianza della comunità.
Rimane da osservare che la nostra testimonianza personale, anche se piena ed autentica, da sola non è sufficiente. Il Cristianesimo è essenzialmente comunitario e la Chiesa è una comunità di uomini uniti dalla medesima fede. Un caso individuale è per definizione individuale, e non appartiene alla Chiesa se non è inserito in una comunità cristiana. Chi è lontano dalla fede, non si crederà tenuto a prendere in considerazione simili rarità, o comunque troverà sempre facile relegarle nel numero delle eccezioni che… che confermano la regola.
E’ tutta la comunità (parrocchia, gruppo di A. C, famiglia) che deve dare testimonianza. E, d’altra parte, è ancora a una comunità che dovrà essere affratellato l’uomo che riscopre la fede.
Si aggiunga che oggi sono le stesse condizioni di vita a esigere una testimonianza comunitaria. In un mondo di masse organizzate, gli atti individuali più ammirevoli perdono la loro portata; sembra ormai certo che la comunità non si salva se non per mezzo della comunità.
Infine c’è un’esigenza personale: abbiamo bisogno di essere inseriti in una comunità cristiana per superarci spiritualmente, per saggiare la sincerità del nostro impegno con Dio, o almeno per resistere alla pressione tremenda dell’ambiente e della mentalità profani, mentre l’isolamento ci lascerebbe senza appoggio e senza difesa.
Qual è concretamente la testimonianza migliore che una comunità può dare? Ci sembra:
– quella dell’amore che unisce le sue membra;
– la sua apertura verso gli altri e la sua capacità di accogliere in sé;
– il suo spirito e la sua iniziativa apostolica.
Una testimonianza del genere è un fatto di somma importanza e di valore incomparabile tanto per chi fa parte della comunità come per chi ne vive al di fuori. Bisogna dunque tendere a suscitarne in tutti i gruppi e le comunità umane.
Conclusione
In conclusione, che cosa significa per noi essere dei testimoni?
Anzitutto, essere convinti che il nostro compito non è primariamente umano ma divino: Siamo strumenti della grazia ed è la Parola Dio che, attraverso di noi, attrae e convince. Dobbiamo quindi riporre tutta la nostra fiducia non nelle nostre qualità e risorse naturali, ma nell’azione sovrana della grazia.
Per essere docili strumenti di questa grazia, bisogna: -seconda esigenza – che noi stessi siamo tutti penetrati delle verità della fede e che le viviamo in profondità. La nostra testimonianza è decisiva quando tutta la nostra persona è come un linguaggio vivo che racconta il Vangelo. La qualità della nostra predicazione come quella della nostra azione, dipendono dalla sincerità della nostra testimonianza, cioè sono misurate dalla nostra santità.
Infine – terza esigenza – bisogna contare sull’opera della grazia nelle anime dei battezzati; le persone a cui ci rivolgiamo per lontane che siano, o che ci possano sembrare, sono anime lavorate e stimolate dallo Spirito. Ciò esige da noi un senso di più grande rispetto ma ci consente anche una maggiore audacia: le verità che annunciamo trovano in quelle anime la rispondenza di un bisogno segreto che lo Spirito mette in loro.
Tuttavia solo l’annuncio autentico del messaggio di Cristo può risvegliare questo bisogno. Noi, dunque, disponiamo i lontani alla fede solo quando ci presentiamo loro, in senso pieno, come testimoni di Cristo.
Carlo Ferrari Vescovo
Stampa: Bollettino Diocesano Dicembre 1958 pag.11-17
ST 143 Testimonianza 1958