Giovedì 30 gennaio 1969 incontro con i sacerdoti
Mi pare che per dare delle indicazioni alla nostra conversazione dobbiamo cercare di tirare fuori – così come ci viene- ciò che riguarda la nostra vita personale spirituale e ciò che riguarda il nostro ministero. Potremmo porre in molti modi le stesse domande.
Concepiamo veramente la nostra vita spirituale come membri del popolo di Dio, come membra del corpo di cristo, come pietre che si edificano nell’unità della carità in tempio dello Spirito Santo?
La nostra vita spirituale si svolge in relazione personale con il Padre, con il Figlio, con lo Spirito Santo secondo il movimento stesso che esiste tra le Divine Persone, che si unificano nella carità e nell’amore infinito?
Troviamo questo punto di realizzazione di noi stessi nei nostri rapporti personali, particolarmente nel modo di concepire, di accostare, di frequentare, di celebrare il mistero eucaristico?
Non dico che dobbiate dare una risposta a queste domande. Queste domande e questo modo di impostare le cose possono essere fortemente discusse.
Mi pare che, se oggi c’è il pericolo di non intendersi, questo pericolo non consiste tanto sulle cose da fare o sul come si devono fare, ma nel camminare ad un livello che può essere definito teologico, dottrinale, astratto, perché è male concepito ed è come pretendere di camminare nel concreto ritenendo per concreto soltanto ciò che è fenomenologico, sociologico, immediato, urgente.
La via buona, mi pare, è quella della concretezza delle situazioni umane e della concretezza altrettanto concreta della salvezza e quindi del contenuto della Rivelazione. Fa sintesi perché fa unità di vita, tenendo presente che la vita, in questo caso, non sale dal basso ma viene dall’alto, che la salvezza discende da Dio.
Tenendo presente che in questa situazione storica della chiesa e della salvezza, è Dio che viene incontro agli uomini e non è l’uomo che cerca Dio. Può darsi che l’uomo senta il bisogno di Dio, ma questo bisogno è già una grazia che viene da Dio, è già qualche cosa che scenda dall’alto.
Tenendo presente che in questo contesto: – e qui non so quando ci metteremo d’accordo- non è l’uomo che interpella Dio ma è Dio che interpella l’uomo e l’uomo deve dare la sua risposta.
Non sono gli avvenimenti che interpellano Dio, è Dio che attraverso gli avvenimenti ci interpella e noi dobbiamo dare la nostra risposta.
E’ qui dove dobbiamo cercare di essere tutti di comune accordo.
E’ qui – ve lo dico con franchezza per lealtà – dove troverete il Vescovo che ha la testa dura, che ha dei chiodi, che ha dei pallini e che non cede, perché gli pare che, cedere su questi punti è lo stesso che venire meno alla propria missione.
Questo dobbiamo metterlo a fondamento della nostra intesa e, come abbiamo già detto, deve essere il fondamento della nostra vita spirituale e del nostro ministero.
Perché il dialogo non si svolga sola a due, lasciate che entri il terzo.Scusate la mia invadenza.
Risposta
Una delle affermazioni più gravi che, secondo me, è all’origine, poi, di tutte le sue incertezze, è quella di avere definito la mia meditazione “altissima teologia”. Le nostre certezze, le abbiamo collocare qualche volta su alcune conseguenze più o meno logiche, più o meno deducibili da questi principi. Noi parliamo di principi oggettivi.
Indubbiamente dobbiamo parlare di principi oggettivi, ma ricordiamo che il fondamento di questi principi oggettivi sono le Divine Persone, che hanno voluto stabilire determinati rapporti con le persone che siamo noi. Questi sono i principi oggettivi ed universali.
Noi, per esempio, abbiamo dato una certa definizione della natura tanto in Dio come nell’uomo e negli esseri che esistono, ma abbiamo anche concluso bene e logicamente che la natura non esiste.
La natura, quando si tratta di uomini, esiste in quanto è persona, in quanto diventa soggetto, in quanto diventa l’individuo “che è lui solo”.
Abbiamo anche parlato di incomunicabilità, che non significa incapacità di comunicare gli uni con gli altri, ma che è l’incapacità di essere “un altro” e, questo tale che non può essere un altro, che è in rapporto con un altro è il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo.
Risposta Riferendomi alla sua paura per il relativismo morale dico che è alla ricerca di questi rapporti, è alla chiarezza di questi rapporti personali che noi dobbiamo arrivare, prima di tutto attraverso a tutta la Parola di Dio che è espressa, si, in una certa codificazione – diciamo così – ma che è viva, che è attuale, che è rivolta a me personalmente, che io devo intendere, che deve essere chiara per me, attraverso quegli strumenti che Dio stesso si è premurato di darmi per garantire l’autenticità della sua parola.
Sono molti questi mezzi.
Se, da parte di Dio, il mezzo è il magistero della Chiesa,
questo magistero della chiesa dipende dalla Parola di Dio;
questo magistero della chiesa è al servizio della Parola di Dio,
questo magistero della chiesa deve coincidere con altissima fedeltà con la Parola di Dio.
Quando si tratta di ricevere questa Parola di Dio, prima di tutto bisogna riceverla totalmente. Di fatto si poteva diventare preti anche se il professore di teologia ci bocciava in un determinato trattato, oppure ci dava un cinque e mezzo che serviva ancora per essere promossi, ma che voleva dire che non possedevamo ciò che è indispensabile per la nostra vita, per realizzare il nostro essere cristiano e sacerdotale.
Dove va a finire l’oggettivo, il sicuro quando manca qualche capitolo della rivelazione? Non qualche tesi di un trattato di teologia! Per questo io mi difendo e difendo l’altissima teologia.
Non arriveremo mai alle certezze, alle sicurezze, che non sono sempre definite.
Anche le stesse definizioni dogmatiche, noi le abbiamo considerate in un certo modo. Sono definizioni.
E’ certo che quel punto di verità è proprio così, ma non è tutta la verità; è un aspetto della verità che il più delle volte, normalmente, non è espresso, va al di là: è nel mistero.
Un certo nostro modo di concepire le cose è nato proprio dal distacco della teologia dalla vita, e viceversa. Non è detto che la teologia sia sempre stata presentata in questo modo ma è stato un fenomeno molto diffuso e, ciò che è stato fatto per ragioni di metodo o per ragioni speculative e scientifiche ha influito proprio nella esistenza.
Il cristianesimo non è una teoria o una pratica.
Il cristianesimo è essenzialmente vita.
Che questa vita si possa definire anche speculativamente è indubitato.
Che da questa vita si possano trarre delle norme anche giuridiche è pure indubitato, ma il cristianesimo rimane vita.
Ora, nella vita non si distingue la teoria dalla pratica. La vita è sempre unità, la vita è sempre totalità di una esistenza. Questo è stato parecchio dimenticato.
Quanto alle certezze, ci sono le certezze oscure. Quelle del cristianesimo sono certezze oscure. Vediamo “in enigmate”, non c’è evidenza. Anche qui la certezza non è al termine di un ragionamento perfettamente corrispondente alla legge della logica: “non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis sed in ostensione spiritus et veritatis”.
La certezza è una grazia, e la grazia è già un elemento di vita, è qualche cosa che ci viene comunicato nel mistero della nostra vita spirituale: nel mistero del nostro incontro con Dio.
Il concepire, per esempio, la predicazione architettando un discorso che corrisponda perfettamente alla logica umana, per cui diventa persuasivo perché va secondo la logica, non è predicare il Vangelo, non è convincere secondo la fede. Predicare, secondo il Vangelo, è annunciare, illustrare, chiarire l’annuncio.
L’obbedienza al messaggio, la chiarificazione del messaggio, la meditazione del messaggio è opera congiunta dello Spirito Santo che ha l’iniziativa e compie la parte principale e dell’adesione della volontà illuminata dall’intelligenza, ma sorretta dalla grazia e che si muove tutta nella grazia.
Credo che dobbiamo distinguere certezza da ricchezza. Oggi i canali della trasmissione della salvezza, secondo me, sono diventati enormemente più ricchi. Che il nostro ministero della parola si sia accostato alle fonti della Rivelazione, in particolare alla Bibbia, alla liturgia, vuole dire avere reso il ministero della Parola enormemente più ricco, anche se non ha la precisazione della definizione a cui eravamo abituati. La definizione -non parlo di definizione dogmatica!- era un modo di proporre la nozione che dava maggiore certezza e sembrava più chiara, ma non era la forza dello Spirito.
L’altro canale della trasmissione della grazia, la liturgia, è stato enormemente arricchito.
Anche a questo proposito dobbiamo vedere: se abbiamo capito, per esempio la Costituzione” Sacrosanctum Concilium” e se abbiamo capito bene tutte le disposizioni per la esecuzione della costituzione, e se ci siamo messi sulla strada buona per arrivare alla sostanza e alla pienezza del significato della celebrazione liturgica, piuttosto che essere tentati di introdurre delle novità.
Introducendo delle novità nelle celebrazioni liturgiche potrei anche aumentare il numero di quelli che vengono in chiesa, ma, se non li introduco nella sostanza del contenuto della celebrazione, inganno me stesso e tradisco gli altri.
E’ un fatto che questo strumento della liturgia, questo strumento del cristianesimo genuino, oggi nella chiesa è più arricchito.
Il canale della trasmissione della grazia che è l’azione pastorale.
L’esercizio della giurisdizione, lo concepiamo più come se nascesse dall’esterno, ma sappiamo che deriva dall’interno della consacrazione episcopale e conseguentemente dall’interno della consacrazione sacramentale, quindi:
più che un “potere su”
è un “potere in”,
è “un potere con “.
In altre parole: è una capacità di grazia con cui io guido, conduco, sostengo, conforto i miei fratelli perché vadano avanti. Oggi c’è una coscienza più acuta delle esigenze del ministero pastorale. Il ministero pastorale è la concretizzazione dell’essere pastori che conducono le proprie pecorelle, che danno la vita per le proprie pecorelle. Abbiamo più ricchezze anche se può darsi che le cose siano meno definite.
Il 16 dicembre ero a Monopoli. Avevano tanto insistito ed ero andato. Naturalmente mi sono incontrato con i sacerdoti e mi hanno chiesto se è difficile fare il Vescovo a Mantova. Io ho risposto: se per fare il Vescovo intendete quello che ho fatto qui, quindici anni fa è un conto, se per fare il Vescovo intendete ciò che si esige oggi, è un altro conto. Allora era molto più facile perché pensavo io, dicevo io, facevo io, disponevo io. Non è che io sia pentito di avere fatto così, a quei tempi, perché mi pare di essere riuscito, a far sì che almeno in parte, anche altri si impegnassero e decidessero.
Oggi questo non lo posso più fare, non perché mi è impedito ma perché non lo devo più fare. Quello che penso io, lo devo pensare in comunione con i miei sacerdoti. Ora questa grazia del ritiro, che mi dà la possibilità di confessare davanti ai miei preti come penso e come sono fatto, è veramente provvidenziale ed è un atto pastorale di governo più eccellente che se redigessi un decreto per la Rivista.
Dicevo alle vostre giovani, domenica scorsa, che non dobbiamo fare come quelli che “cadono dal cielo” e si meravigliano.
Se la “Communio” intesa a tutti i livelli, in tutta la chiesa, ci fa tanta difficoltà e troviamo di esserne così poveri, pensiamo che è stato celebrato nella Chiesa un concilio proprio a questo scopo. Noi dobbiamo metterci in mente che il concilio Vaticano II è stato celebrato per ottenere che la chiesa sia quella unità nella carità voluta dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, analoga a quella di un Dio solo in tre Persone, che è il mistero trinitario e che si raggiunge soprattutto attraverso la celebrazione del mistero eucaristico.
Dunque, si tratta di una cosa di cui si sentiva un estremo bisogno nella chiesa, ma non dobbiamo pensare che, dopo cinque anni dalla celebrazione del concilio, questa debba già essere una realtà.
E’ quella cosa nuova, a cui siamo chiamati, è quell’impegno primario in cui ci dobbiamo immettere con tutte le nostre forze.
E’ questa l’esigenza dei tempi.
E’ questa la grazia che Gesù Cristo vuole dare alla sua Chiesa, oggi.
Noi abbiamo studiato l’unità della Chiesa come una delle note della Chiesa.
L’unità della Chiesa è la Chiesa stessa: è il piano stesso di Dio, è la volontà stessa di Dio, che sta -dico un paradosso- prima dei comandamenti stessi, cioè, i dieci comandamenti devono servire a formare questa unità.
Tutto ha ragione di mezzo, il fine è l’unità.
OM 198 Sacerdoti 69 – Giovedì 30 gennaio 1969