Disse mons. Guano diventando vescovo di Livorno nel 1962, ai suoi fedeli: “Il vescovo non ha tutte le qualità possibili e immaginabili, lo sapete: il vescovo ha i suoi difetti; è un uomo che deve cercare di lottare contro le tentazioni, che ha le sue debolezze, che ha i suoi momenti di incertezza, che ha forse le sue malattie; è un uomo che forse, qualche volta, stenta a trovare la strada. Comunque quest’uomo vi porta Cristo che è l’amore, che è la pace”. Cita questa “confessione”, insieme ad altre, il suo vicario generale nel profilo a più voci pubblicato recentemente (Emilio Guano: Uomo della Parola – Studium 1977) dopo essersi chiesto: “Aveva difetti? Ci sembrava talvolta poco attento ai problemi della diocesi perché preso da troppi interessi culturali e pastorali generici; quasi ‘astratto’ dalla realtà dimenticava cose e appunti; rimandava eccessivamente le decisioni, appariva ‘pignolo’ in alcuni casi, altre volte lo giudicammo troppo fermo in alcune posizioni prese”.
Questo ed altro si potrebbe dire, forse, del nostro vescovo ora che un lieto anniversario ci dà l’occasione di uno sguardo retrospettivo sui dieci, dei venticinque anni di episcopato vissuti tra noi. Il divenire in atto e la mancanza di una prospettiva temporale rendono difficile definire quale strada stia tracciando alla nostra diocesi il suo ministero. Forse sarebbe più facile dire quello che ha fatto o non ha fatto. Ma non è quello che importa e non è sempre quello che dà frutti che restano.
Spero che negli anni a venire coglieremo i frutti di quel suo trattarci a qualsiasi costo a qualsiasi rischio, da cristiani maturi; da gente, cioè, capace, o che deve diventare capace, a suo rischio, di assumersi le proprie responsabilità nella chiesa, nell’agire da cristiani nel mondo; da gente a cui non si impone l’esecuzione materiale di orientamenti, ma a cui vengono proposti indirizzi da realizzare con libera accettazione, riflessione personale, fedeltà consapevole nei compiti a ciascuno affidati. L’ha fatto dal suo primo arrivo a Mantova in modo totale e, a dire il vero, sconcertante, soprattutto per chi è solito mugugnare nelle maglie strette del dirigismo accentrato ma poi non sa navigare nel mare delle responsabilità e delle iniziative proprie; per chi trova più comodo ricevere ordini che giustificano il vittimismo e la contestazione o la disubbidienza irresponsabile piuttosto che il dialogo franco e coraggioso, fatto di proposte e di suggerimenti concreti, di operosità costruttiva, nello spirito del rapporto paterno filiale e fraterno.
Vi ha tenacemente insistito a rischio di farsi dire vescovo disimpegnato, a rischio di sentirsi accusare di non dare orientamenti, a rischio di veder disattese, vanificate o isterilite scelte pastorali precorritrici di quello che è diventato l’orientamento di tutta la chiesa italiana, come quella della famiglia soggetto di pastorale, di una pastorale incentrata sulla catechesi mistagogica.
Non è una strada facile breve e gratificante; non é la strada dell’efficienza e del successo, del successo che si quantifica e si visibilizza. Non è neppure la risultante causale di una serie di situazioni e condizioni incontrollate. Mi è sempre apparsa una scelta precisa e consapevole.
Ricordo ancora l’accento con cui alla settimana del 1970, quella della “Chiesa come comunione”,definiva la longanimità: “è la pazienza di attendere che gli altri maturino; è fare spazio ai difetti degli altri; è dare tempo perché i difetti degli altri facciano il loro corso; il corso è legato alla grazia di Dio e alla volontà di chi se li porta e non alla nostra volontà; è essere convinti che anche gli altri sopportano i nostri difetti”. Sembrava in quel momento la risposta agli scontenti del momento; a coloro che stentavano a tenere il passo dietro all’aggiornamento conciliare, timorosi delle novità, infastiditi dei cambiamenti, e coloro che scalpitavano per la fretta di celebrare il Concilio ecumenico Vaticano III°. Forse li ricordiamo tutti certi momenti di passione e di fazione all’insegna del progressismo o del conservatorismo, tutti ugualmente in nome della fedeltà del Vangelo.
Quel saper aspettare non è strategia di comodo ma la tonalità singolare in cui si esprime un modo di essere Padre. Mi sembra che sotto ci sia la comprensione che certuni per sentirsi maturi in a casa hanno bisogno di sperperare il patrimonio e finire a mangiare ghiande nel campo altrui. Ma non l’ho mai sentito lamentarsi di chi se ne va sbattendo più o meno la porta: I’ho visto rattristarsi per chi rimane, con l’animo piccolo e gretto, incapace di comprendere e di fare suoi i sentimenti del Padre.
Può darsi che certe volte abbiamo desiderato che fosse un vescovo diverso. Io, per esempio, da laica arrabbiata non so che cosa darei per sentirgli dire “i miei laici” con quel tono perentorio ed affettuoso con cui dice “i miei preti”. Mi sembrerebbe che capiremmo tutti meglio che non c’è chiesa senza vescovo, non c’è chiesa senza preti, non c’è chiesa senza laici. Ma alla sua scuola rimetto nel fodero la mia impazienza. Lo Spirito ha soffiato forte sul Concilio, ma alita leggero su ciascun uomo. In molti non lo sentiamo. In troppi crediamo di sentirlo. Tant’è: ci va piano, Lui, con la nostra debolezza.
prof. Ida Bozzini
Stampa: La Cittadella, 12 Giugno 77