Conversazione ai vescovi lombardi 1-6- luglio 1988
Noi Vescovi del Concilio
Presentazione della stampa
Queste pagine sono la trascrizione dal registratore delle conversazioni tenute ai Vescovi della Conferenza Lombarda, durante gli esercizi spirituali dall’1 al 6 luglio 1988 a Corteno Golgi. Sono riportate le parole, ma mancano le vibrazioni dell’incontro personale, le sottolineature vocali e il clima di grazia che si respirava nell’aria e quasi si toccava con mano: a pochi chilometri dall’Aprica e di fronte all’imponenza dell’Adamello, nella casa accogliente e confortevole delle Madri Canossiane di Brescia. I doni di Dio peraltro sono senza pentimento e la fedeltà della tenerezza del suo amore dura per sempre.
Dovevano essere delle omelie, invece sono usciti dei colloqui liberi, inseriti nella concelebrazione liturgica. I testi delle Letture sono tratti, per la prima, dagli Atti, dalla prima di Pietro e dalla prima di Giovanni; i brani per il Vangelo sono dai capitoli 15-16-17 dello stesso Giovanni.
In questa avventura di grazia si è ripetuto il fenomeno per cui è l’uditorio a suggerirti le affermazioni piú significative, che in un altro contesto non sarebbero emerse: questo si è verificato per la cordiale disponibilità, per la ricchezza interiore unica di questa eccezionale assemblea.
Confermo con forza davanti ai miei confratelli un mio pensiero particolare: se ai nostri giorni si è verificato in modo clamoroso il fenomeno dell’ateismo, lo si deve in larga misura alla povertà della nostra proposta pastorale negli scorsi decenni e, piú in radice, alla teologia moralistica dei manuali su cui si sono formati tanti dei nostri sacerdoti.
Il Cristianesimo che salva il mondo è la totalità del mistero di Dio e delle sue meraviglie, imponenti e stupende, tanto nel mondo della creazione come in quello della salvezza.
La “morale” dei nostri manuali – passatemi l’espressione un po’ colorita – la ritengo una invenzione dei preti: è piú facile fare affermazioni sulla liceità o meno di un determinato comportamento, che annunziare la ricchezza delle meraviglie del Dio cristiano e quindi il lieto annuncio, la buona novella di Dio che ci salva.
Gesú dice infatti: ” Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento… se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 17-20).
E S. Paolo: “Cosí la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede” (Gl 3, 24); “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesú, mediante il vangelo” (1 Cor 4,15); “Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Ef 2, 8 ss) .
La situazione della vita della chiesa, in questo momento, è che abbia migliaia di “pedagoghi”, ma pochi “padri” che generino alla vita cristiana mediante il Vangelo.
L’impegno con cui i nostri vescovi hanno atteso agli Esercizi Spirituali è stato veramente esemplare: un silenzio rigoroso, spontaneo e fedele; ore prolungate di preghiera; ascolto disponibile della Parola e tanta serenità.
Mons. CARLO FERRARI
…perché siamo amati
Il compito di amarci gli uni gli altri, come Gesú ci ha amato è estremamente impegnativo e al di sopra delle nostre forze.
Secondo il contenuto di tutta la Divina Rivelazione noi siamo in grado di amare perché siamo amati: “Non siamo stati noi ad amare Dio ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10); “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente! Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo cosí come egli è” (1 Gv 3,1-2); “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito perché chi crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16; cf Rm 8,32; Mt 27,37); “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gl 2, 20).
Dunque noi siamo delle persone amate: amate da Dio! E quale Dio! Il Padre di nostro Signore Gesú Cristo è il Dio di Davide: “Sia benedetto, Dio di Israele, nostro Padre, ora e sempre. Tua, Signore, è la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore e la maestà, perché tutto, nei cieli e sulla terra è tuo” (I Cor 29, 10-11). t da lui che ci deriva la capacità di amare secondo il nuovo comandamento, perché il suo amore (quello del Padre per il Figlio, quello del Figlio per il Padre, nel unico Spirito) è stato riversato nei nostri cuori dallo Spirito che ci è stato dato (cf Rm 5, 5). La sicurezza di essere delle persone amate, che ci viene dallo Spirito e non dalla carne, è il fondamento del nostro equilibrio, della stabilità del nostro umore, della serenità cordiale dei nostri rapporti. Questa sicurezza ci fa persone riuscite: che amano e sono amabili.
Quindi dobbiamo lasciarci investire dallo Spirito, il quale rende testimonianza ai nostri cuori che siamo figli di I)io (cf Rm 8, 16). i! sempre lo stesso Spirito che ci introduce nella conoscenza di tutta la realtà di Dio e delle sue meraviglie; ce ne dà il gusto, ci apre allo stupore e ci riempie di gioia: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso; quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16, 12-13); “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà [vi dirà in un orecchio…] tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 15, 28).
Per avere la certezza, la sicurezza e la gioia di essere figli di Dio e comprenderne tutta la portata, è indispensabile mettersi in un atteggiamento ricettivo. Veramente dobbiamo convertirci: avere il coraggio di “stare fermi”, disponibili e fiduciosi sotto l’azione dello Spirito. Non siamo noi a cercare Dio, ma è Dio che cerca noi con la potenza incoercibile del suo amore, della sua misericordia, del suo perdono, della sua dolce tenerezza e compie per noi opere stupende nel mondo della creazione e in quello della grazia.
A chi dobbiamo aprirci nella nostra preghiera? Naturalmente, al Dio della divina Rivelazione, il quale non è anonimo: è il Padre e il Figlio e lo Spirito santo, tre Persone infinitamente unite e infinitamente distinte. Il Padre è l’origine e il termine, il Figlio è l’accoglienza e il dono di sé, lo Spirito è la pienezza e il compimento. Ogni Persona ha la sua “fisionomia” inconfondibile.
I rapporti della nostra persona con le Divine Persone non sono dettati dalla ” legge “, sono invece la grazia che ci viene da Dio: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e le mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11, 19-20).
Ci sono tempi e tempi. Lo Spirito che non si sa da dove viene e dove va, dal di dentro orienta la nostra contemplazione (cf Gv 3, 8).
Abituati a vivere nelle gabbie di cemento armato e a camminare sull’asfalto, di rado ci capita di respirare aria pura, di ascoltare il silenzio, di godere il sorriso di Dio in un prato fiorito, di stupirci della imponenza delle vette, di lasciarci sommergere negli spazi sconfinati del cosmo che sta al di là di un cielo stellato, di ammirare la vastità imponente del mare, di godere della dolcezza dell’amicizia, della dolce innocenza degli occhi di un bimbo e del fascino della creatura umana per la sua fame di sete e di vita.
Poi ci sono le meraviglie della grazia: chi si lascia incantare e si ferma ad accogliere la vita sempre piú abbondante che Cristo è venuto a portarci? (cf. Gv. 10, 10). Chi si lascia penetrare dalla concreta esperienza che tutti siamo ricolmi della sua pienezza? (Gv 1, 16). Chi ha coscienza viva e operante che accogliendo (;Gesú Cristo si acquista il potere di diventare figli di Dio? (Gv, 1, 18). Chi ha percezione dell’evento sempre attuale per cui quando uno ascolta la Parola di Cristo, Egli e il Padre vengono a prendere dimora presso di lui? (Gv 14, 28). E che lo Spirito ci viene dato per diffondere in noi la capacità di amare? (Rm 5, 5)
A questo punto appare spontanea e doverosa la dimensione laudativa della preghiera: “E questo a lode e gloria della sua grazia” (Ef 1, 6), “Perché noi fossimo a lode della sua gloria” (Ef 1, 12). Nei Salmi c’è il richiamo continuo alla lode, alla quale noi non siamo abituati e in questo senso non educhiamo i membri del popolo di Dio. Tutta la liturgia, sia delle “Ore” come quella eucaristica, è una continua espressione della lode della grazia e della gloria di Dio.
Soltanto una visione chiara di fede e un atteggiamento contemplativo, mentre ci fanno gustare i doni di Dio, per contrasto ci portano a scoprire i problemi dell’umanità e le loro soluzioni; sempre perché il cuore di Dio è piú grande di tutti i nostri peccati e la grazia sovrabbonda dove abbonda il peccato. Questa è la realtà di fondo; questa è la lieta novella.
Per tali buone ragioni, i vescovi soprattutto devono essere contemplativi. La contemplazione è lo sguardo della fede aperto a Dio e alle sue opere, illuminato dallo Spirito: può essere il dono di ogni battezzato ma per il vescovo, oltre che dono, è il primo impegno.
La preghiera cosí concepita sta al primo posto nella vita di un vescovo e ha un significato anche pedagogico, perché i sacerdoti e i fedeli acquistino la convinzione che il primo compito del vescovo non è quello di rendere piú solenni le celebrazioni ed essere presente in tutte le circostanze perché siano piú decorose, ma è quello di pregare e di evangelizzare la Parola contemplata.
Una tradizione che si perde nei secoli definisce il vescovo come il “perfezionatore” della vita cristiana e di quella religiosa. Il Vescovo, lo Spirito, la Parola sono una trilogia inscindibile!
Amiamoci perchè siamo amati
Carissimi, parlo a voi come uno che ha conseguito misericordia dal Signore (cf. 1 Cor 7, 25): è una esperienza toccante, in certi momenti commovente. Mi rivolgo a voi, tralasciando gli appellativi che legittimamente vi competono, perché prima di tutto vi voglio bene e vi considero miei amici. Questo non è solo frutto del mio modo di pensare, ma è una esigenza che nasce tanto dal Concilio come dal Vangelo.
Il Concilio al capitolo 3° della Costituzione sulla Chiesa ha una affermazione sorprendente a cui non si fa sufficiente riferimento: “Uno viene costituito membro del corpo episcopale in virtú della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio e con i membri” (LG 21). Le condizioni per cui uno è vescovo sono due: la prima è la consacrazione sacramentale e la seconda, a pari titolo, è la comunione col capo e con i membri del corpo episcopale. A questa seconda condizione non si dà la dovuta importanza, quasi non se ne ha coscienza: ognuno fa il vescovo per proprio conto, con la propria personalità, i propri punti di vista, le proprie iniziative, ma ignorando i suoi legami costitutivi con il capo e i membri del corpo a cui appartiene.
Eppure questa è una esigenza esplicita del Vangelo. Gesú sceglie i Dodici e li costituisce suoi apostoli, prega il Padre per loro e li chiama amici. La costituzione dei Dodici si può considerare un traguardo della vita pubblica di Gesú: perché vadano nel mondo a continuare la sua missione. “Gesú se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i discepoli e ne scelse dodici ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6, 12-13; Mc 3,13 ss; Mt 10,1 ss).
La costituzione dei ” Dodici ” è entrata cosí profondamente nella coscienza dei discepoli che, dopo che Giuda se n’è andato, decidono di sostituirlo: “Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo Giuda… bisogna dunque, tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesú ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato fra noi assunto al cielo, che divenga insieme a noi testimone della sua risurrezione” (At 1,16-22).
Gesú dice: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo piú servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma io vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. E aggiunge: “Voi non avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate f rutto e il vostro f rutto rimanga: perché tutto quello che chiederete al Padre nel nome mio, ve lo conceda. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato. Nessuno ha un amore piú grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,12-14-17).
Come si vede, l’amore vicendevole non è soltanto affettivo, ma secondo il comando del Signore, deve essere effettivo come il suo, che ha dato la sua vita per noi con la morte in croce. Quindi, secondo il Vangelo, non ha ragione di essere la distinzione tra l’amore affettivo ed effettivo dei membri del collegio episcopale.
Noi vescovi dobbiamo qualificarci per la misura dell’amore vicendevole: questo non è solo doveroso ma è costitutivo, anche se non è ancora entrato nella mentalità corrente. Scusate se vi propongo un esempio personale: nel mio seminario eravamo un gruppo di amici al punto da formare una cosa sola. Quando ci chiamavano in diocesi per predicare, era indifferente che ci andasse l’uno o l’altro. Insieme fissavamo i cosí detti “punti” e poi si partiva. Diventati vescovi, non abbiamo piú trovato mezz’ora per stare insieme, non tanto per scambiarci i “punti”, ma per comunicarci le nostre esperienze, le nostre difficoltà, la nostra croce e la nostra gioia.
Mi permetto di dire: gettiamo un seme, amiamoci tra di noi, non per essere di esempio o migliori tra i nostri confratelli italiani, ma perché questo seme dia i suoi frutti; è nella natura del seme dare frutti. Confidiamo!
La nostra costituzione in un unico corpo legato dall’amore vicendevole ha una estensione e una intrinseca analogia col corpo presbiterale. Una visione giuridica ha operato non solo una distinzione, ma una separazione tra noi e i presbiteri: noi di serie “A” e loro di serie “B”, fino a determinare una situazione di sofferenza e di frustrazione.
Da un punto di vista teologale le cose stanno ben diversamente: i vescovi e i presbiteri derivano da un unico e medesimo Spirito, il quale è la stessa e identica Persona; il “piú” e il “meno” sono nostre categorie, qui invece siamo nella profondità inesprimibile di un mistero. Certa è la funzione dei carismi: tutti destinati alla edificazione di una unica chiesa (cf 1 Cor 12, 4 ss).
Nel Concilio, a questo proposito, troviamo due affermazioni: la prima nella Costituzione sulla Liturgia (SC 74), la seconda nella Lumen Gentium (LG 355), le quali sostanzialmente affermano che il presbitero, nella comunità locale, rende presente e fa le veci del vescovo. Quando il presbitero parla è come se parlasse il vescovo, anzi, come se parlasse il Cristo Gesú: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato” (Lc 10, 16); quando il presbitero presiede l’eucaristia, in comunione con il vescovo, le parole sul pane e sul vino le pronuncia, secondo una secolare espressione della teologia, “in persona Christi”; la formula dell’assoluzione è la stessa sia che la pronunci il vescovo come quando la pronuncia il presbitero.
Perciò tutti siamo coinvolti in un unico mistero che ha come effetto ed esigenza l’amore vicendevole, il quale è effuso nei nostri cuori dallo Spirito che ci è stato dato (cf Rm 5, 5), sempre per 1 imposizione delle mani: è questa la grazia che dobbiamo risuscitare (cf 2 Tm 1, ó).
Noi Vescovi dobbiamo ammettere con chiarezza che da molte parti emerge l’esigenza, per ogni età, di trovare un sacerdote disponibile, santo non di una santità generica, in intima comunione con le divine Persone, contento di essere sacerdote e attento ai discorsi della gente: è gente che ha bisogno di parlare e non tanto di risolvere problemi morali, ma chiede di essere introdotta nella “conoscenza” del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, i soli veri protagonisti della salvezza.
Nella Chiesa si parla troppo facilmente di potere, ma questo va inteso secondo una lettura umile e attenta del Nuovo Testamento, il quale pone nella giusta luce e nel retto significato il potere nella Chiesa.
Tutto viene da Dio: “Chi può rimettere i peccati se non Dio?” (Mc 2, 7); tutto il potere è dato a Cristo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18); tutto il potere è conferito agli Undici: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Perciò il potere della Chiesa è quello annesso al ministero e appartiene a tutti i successori degli apostoli; mentre il successore di Pietro ha le sue prerogative uniche, il ministero è di tutto il corpo episcopale. Il sommo Pontefice è il fondamento su cui è fondata la Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18): la pietra però è Cristo (cf Ef 2, 20). Se non si ha una sufficiente avvertenza, una accentuazione unilaterale degli elementi visibili della Chiesa potrebbe far passare quasi sotto silenzio il Cristo, fondatore della Chiesa e unico salvatore di tutti e di tutto.
Il comandamento del Signore di amarci vicendevolmente riguarda tanto il corpo dei Dodici come il corpo episcopale a cui presiede il Papa. Quindi il rapporto che deve intercorrere tra i vescovi e il sommo Pontefice è prima di tutto quello dell’amore: come i vescovi si devono amare tra di loro, così devono amare Pietro. Il compito dato da Gesù a Pietro di confermare i suoi fratelli è particolarmente quello di aiutarli a volersi bene (cf Lc 22, 32). Una mentalità “occidentale” ha riferito questa raccomandazione di Gesù unicamente alla verità da garantire e lascia in ombra il comandamento del Signore. Ma la verità è Cristo in persona, il quale non ha bisogno di essere salvato. E’ lui che salva (cf Gv 14, 6).
Pietro e gli apostoli hanno ricevuto insieme il comando del Signore di amarsi come lui ci ha amato. Questo comandamento di essere una cosa sola nell’amore perché il mondo creda, passa interamente ai loro successori. Il successore di Pietro deve amare i propri fratelli nell’episcopato. Il Papa deve amare i vescovi; ma questi devono pensare a lui come al piú solitario tra i fratelli e amarlo adeguatamente.
E’ giusto che il sommo Pontefice abbia dei collaboratori per la sollecitudine di tutta la chiesa; ma è certo che la Curia Romana è una istituzione ecclesiale mentre i vescovi sono di istituzione divina.
Una indicazione illuminante è costituita dai Sinodi straordinari. Andrebbero però tenuti e progettati secondo la lettera e lo spirito del Nuovo Testamento, secondo le indicazioni dei Concili. E’ un auspicio.
Pastorale degli adulti
Siamo pieni di gioia perché abbiamo scoperto l’amore tenero e fedele del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: la loro unità è il supremo modello e la sorgente del nostro amore vicendevole (cf UR 20, 21). Siamo costituiti per portare avanti l’opera della salvezza progettata dal Padre, eseguita dal Figlio, portata a compimento dallo Spirito e siamo credibili nella misura in cui siamo una cosa sola.
In questo incontro non terrò propriamente una omelia, ma colgo l’occasione singolare e propizia per comunicarvi uno dei pensieri che da anni mi assilla e che ho cercato di portare avanti: la catechesi degli adulti.
Se guardiamo le nostre comunità, in particolare quelle parrocchiali, ci accorgiamo che sono comunità infantili. Non so in quale percentuale, ma la maggior parte del nostro impegno, delle nostre energie e la migliore collaborazione dei laici piú preparati e volenterosi la impieghiamo per i bambini e gli adolescenti. Eppure sono gli adulti i soli maturi, capaci di responsabilità e impegno veramente serio, che garantiscono la continuità di una vita cristiana solida.
Ci sono molte occasioni per una catechesi agli adulti, ma il passaggio obbligato, per la maggior parte, è il matrimonio.
La tradizionale preparazione alle prime comunioni e alla cresima mantiene il suo significato e la sua importanza, quando è sostenuta dagli adulti nelle famiglie.
Mi permetto di ricordare la nostra “ignoranza” del valore salvifico di questo sacramento, il cui studio, fino a ieri, nei corsi teologici, o veniva tralasciato per mancanza di tempo o era ridotto alla teologia dei manuali.
Io ringrazio il Signore che ha disposto questa occasione nella quale un gruppo significativo di vescovi può rivolgersi a un teologo qualificato per chiedergli la stesura di un catechismo su questa realtà sacramentale che nel pensiero di Dio si pone sul cammino della salvezza.
A indispensabile sgombrare il terreno da vari preconcetti: il matrimonio non è l’atto giuridico con cui si ratifica l’unione di due cristiani. Il matrimonio invece è l’atto sacramentale che porta avanti la salvezza nel momento piú impegnativo per la vita degli adulti. Non è vero che la famiglia è una piccola chiesa: essa è una piccola comunità, costituita da un sacramento, nella quale è presente tutto il mistero della Chiesa (cf LG 348). Come in ogni realtà di salvezza, qui sono coinvolte le divine Persone per essere modello e sorgente: questa è la ricchezza insondabile di questo sacramento, carico di amore, di impegno e di gioia.
Nella preparazione di questo strumento non dovrà mancare l’apporto di un bravo biblista, il quale ponga chiaramente in luce la dimensione sponsale delle divine Persone. Fino ai nostri giorni un presunto pudore e parecchia ignoranza non ci hanno permesso di mettere in evidenza temi cosí ricchi e fondamentali contenuti nelle pagine della Sacra Scrittura.
Il Padre è sposo del suo popolo, il quale è considerato come sposa e fidanzata: è uno sposo geloso, esigente, che se non è corrisposto giunge all’ira, allo sdegno e al rifiuto;; ma che alla fine chiama la sposa in un luogo solitario, le parla al cuore e la reintegra nella sua dignità. Il Figlio è lo sposo e i;n che lo sposo è presente e si ode la sua voce non si può “digiunare”. Cristo è lo sposo della Chiesa e la dottrina di Paolo è esplicita in riferimento ai mariti e alle mogli. Credo che una buona esegesi possa liberare questo testo della Rivelazione dai luoghi comuni che ne hanno impoverito la portata. Questo sacramento non è grande soltanto per Cristo e per la Chiesa, ma è grande in se stesso. Ricordiamo le nozze di Cana: sono presenti la madre di Gesú, Lui e i suoi discepoli; a Gesú compie il primo miracolo e i discepoli credettero in Lui (cf Gv 2,1-11). Lo Spirito Santo è sposo, basti pensare al mistero della Incarnazione, dove per l’accoglienza di Maria Egli opera il piú grande portento. Maria è una sposa singolare, ma è madre: madre del Figlio di Dio e di tutti i suoi discepoli.
Nel sacramento tutto è modello e sorgente: una tendenza moralistica ha indotto gli uomini di chiesa a insistere sulla esemplarità e quindi sui doveri, lasciando in ombra la grazia, la forza della potenza di Dio che salva la persona umana in tutte le situazioni e in particolare in quelle piú impegnative che sono ordinate alla salvezza di molti.
Pensiamo ai figli, ai parenti, alle generazioni che saranno il domani del mondo e della Chiesa.
L’impegno di una preparazione adeguata e quindi estesa nel tempo è indispensabile per questo sacramento. Certo, non è nelle consuetudini e chi si prepara al matrimonio in un primo tempo sarà sconcertato, si ribellerà; ma se noi, tutti insieme, saremo risoluti ed esigenti, ad un certo punto accetteranno, poi si troveranno dinanzi ad una scoperta, ricca, piena di grazia e di gioia; ci ringrazieranno e, questi, saranno i nostri migliori amici.
Il fidanzato e la fidanzata sono per ciascuno dei due le creature piú belle del mondo. Pensiamo alla bellezza, agli ornamenti della sposa del re e allo sposo che esce dalla stanza nuziale come un prode. Questi innamorati debbono prendere coscienza che tra di loro è presente un Innamorato piú grande che sostiene il peso del loro amore. Chi l’ha mai detto? E chi lo crede?
Gli atti coniugali debbono essere il termine e il culmine di tante affettuosità che non debbono essere soltanto del tempo della preparazione al matrimonio; da esse il matrimonio deve essere alimentato e reso nuovo tutti i giorni. Queste affettuosità, mentre da una parte sono espressione dell’amore reciproco, di loro natura sono soprattutto manifestazioni del mutuo rispetto: della donna per le sue esigenze e dell’uomo per i suoi compiti. Un apporto considerevole sarà dato dal punto di vista e dalla esperienza di laici sposati veramente cristiani.
Gli atti coniugali si pongono sulla continuità della creazione di Dio, della salvezza del Figlio e della pienezza della gioia dello Spirito.
So di parlare ai Vescovi della Lombardia dove l’Oratorio ha una lunga e valida tradizione. Mi permetto di fare presente che il compito educativo delle nuove generazioni non è legato al sacramento dell’Ordine ma a quello del Matrimonio. Cedere la direzione dell’oratorio a genitori preparati è un superamento del clericalismo ed un legittimo riconoscimento del carisma educativo dei genitori nell’ottica di una giusta promozione dei laici.
Il Concilio
Abbiamo ripetuto: “Canterò per sempre la fedeltà del Signore”.
Siamo letteralmente immersi in questa fedeltà dell’amore di Dio. La nostra è veramente un’ avventura di grazia; l’amore di Dio non è un suo attributo, ma un evento che continua: è presente in questo istante e particolarmente in questi giorni noi abbiamo la grazia di essere coinvolti in questa avventura. Io con voi, ognuno con tutti, perché il nostro primo impegno è quello di volerci bene.
Mi è stato riferito da piú parti che, nell’ultimo incontro dei vescovi italiani, ad un certo punto è sceso come un velo di tristezza sulla assemblea. Tutti l’hanno avvertito: alcuni se ne sono andati, qualcuno è stato visto piangere. Alle volte le cose umane e anche quelle della Chiesa sembrano non avere soluzioni.
Ricordo l’evento piú significativo del nostro tempo. Poche decine di anni fa, chi mai avrebbe immaginato un Concilio? Papa Giovanni XXIII, che per alcuni doveva essere un pontefice di transizione, ma che aveva il senso della storia, ha ritenuto che quelli fossero i tempi piú felici della Chiesa; i piú tranquilli, i piú propizi per radunare tutti i vescovi del mondo: non per discutere questioni dottrinali, ma per indicare piú chiaramente le vie della salvezza. Al di là del parere e della resistenza di non pochi, ne è venuto fuori un documento meraviglioso, che nessuno avrebbe mai pensato.
Lo Spirito, che è sempre presente nella Chiesa e nel mondo, è lo stesso che guidava i Padri ad affermare cose stupende che qui, in parte, richiamo.
“La Chiesa è in Cristo come un sacramento o un segno e uno strumento dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1). Chi se lo sarebbe aspettato? Chi lo crede fino in fondo ai nostri giorni?
Io sono qui tra i pochi testimoni del Concilio: le sue affermazioni, grazie a Dio, le ho recepite da dentro e mi dicono che, per tutti i Padri, la voce dello Spirito è stata una sorpresa, una meraviglia, una grande gioia.
Quando poi è stata fatta l’affermazione che la Chiesa prima di tutto è un mistero, cioè il luogo preferito, il momento privilegiato della presenza e dell’azione dell’amore di Dio, abbiamo concluso con le parole di san Cipriano: “De unitate Patris et Spiritus Sancti plebs adunata”.
Dobbiamo guardare nella profondità di questa affermazione: nel mistero certamente ci sono delle realtà visibili, ma contano soprattutto quelle invisibili. Possiamo dire perciò con chiarezza e tranquillità che il Padre, nella Chiesa, è piú grande del Papa, che il Figlio è piú importante dei Vescovi, che lo Spirito è dato a tutti i membri del popolo di Dio.
Il Concilio, poi, non senza difficoltà, ha messo il Popolo di Dio prima della Gerarchia. La Gerarchia è al servizio di questo popolo. “Non siamo i padroni della vostra fede ma i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24).
“Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio” (LG 9).
Quello della dignità è un lungo discorso nella Chiesa, ma tanto il Papa come i Vescovi, se vogliono salvarsi, debbono possedere la stessa dignità dell’ultimo battezzato. La libertà poi è guardata con un certo sospetto: spesso se ne ha paura. È vero che è un mistero, ma lo è anche quello di Dio, ed è Lui che ha voluto correre il rischio che l’uomo gli potesse dire di no. La libertà di Dio è sovrana ed infinita, ma Egli stesso per primo rispetta la libertà dell’uomo.
Quante volte è registrato nella Scrittura l’invito: “Se vuoi”! Sono ancora molti coloro che non accettano la libertà come un valore assoluto. La libertà, come diceva il teologo, è la “cifra” di ognuno di noi e non si può cancellare senza distruggere la nostra persona. Quanti attentati si compiono ancora oggi nella Chiesa contro la libertà dei figli di Dio!
Della verità invece si è fatto un assoluto: ci siamo talmente allontanati dalla lettera e dallo spirito della divina Rivelazione per cui la verità è diventata quasi la quarta persona in Dio e… l’ottavo sacramento!
Vero è solo Dio, vere sono le divine Persone, veri sono i loro rapporti, vere sono le opere che compiono come le parole che dicono; dunque la verità esiste ma non in astratto. Pensiamo alle difficoltà che si incontrano per la promozione dei laici e della donna in particolare, secondo le esigenze del loro battesimo. È ancora lontano dallo scomparire un certo clericalismo che va totalmente contro il senso del Vangelo. Il clericalismo è una forma di potere che ha le sue radici ultime nella sistematizzazione astratta delle realtà della Salvezza.
Il Concilio ha compiuto un vero capovolgimento rispetto al modo di sentire piú diffuso in quegli anni: e questo in piena sintonia con il Nuovo Testamento. Gesú dice con chiarezza: “Chiamati a sé [i Dodici], disse: I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non cosí dovrà essere tra voi, ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo e colui che vorrà essere primo tra voi si farà vostro schiavo, appunto come il Figlio dell’Uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20, 25-28).
La storia e il costume hanno come imprigionato la libertà di comportamento indicata dal Signore. Pensiamo alle divise, ai paludamenti, al cerimoniale a cui siamo costretti.
Nella celebrazione eucaristica e soprattutto nei pontificali, mentre sono sfarzosi i paramenti e pieni di riverenza i gesti al centro dei quali è la persona del vescovo, per la eucaristia, che è il culmine della celebrazione, i segni sono i piú umili e poveri che si possono pensare. Quanto cammino si dovrà ancora percorrere perché ogni ” segno ” metta in evidenza il valore della realtà indicata!
Continuo con il Vangelo: Gesú “chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi.
Disse loro: non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né danaro, né due tuniche per ciascuno… Allora essi partirono e girarono di villaggio in villaggio, annunciando dovunque la buona novella e operando guarigioni” (Lc 9,1-ó).
Gesú manda i Dodici e proibisce di portare con sé il danaro: un corrente modo di pensare vede il Vescovo come un buon amministratore che custodisce il patrimonio economico della diocesi e possibilmente lo accresce. Gesú insiste: “Nessun servo può servire a due padroni… non potete servire a Dio e a Mammona” (Lc 16,13).
Anche quando si mantiene il cuore distaccato dalle ricchezze, un certo impegno accaparrante di ordine amministrativo è già un servizio a Mammona. È un pericolo dal quale il Vescovo deve difendersi. La prosperità e il danaro attenuano notevolmente la sensibilità per le cose del regno di Dio. Il Salmista ha espressioni molto dure: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sl 49, 21).
Noi Vescovi siamo stati eletti e costituiti non per salvare il danaro, ma per salvare le anime.
La sensibilità dei Dodici che li spinse a liberarsi del compito del servizio delle mense, che pure aveva la sua importanza, per dedicarsi alla preghiera e all’annuncio della Parola, si è molto attenuata.
Il distacco dai beni terreni è una nota caratteristica della prima comunità cristiana: “Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli” (At 3, 34). È impressionante ciò che accadde ad Anania e a Zaira (cf At 5,1-11).
L’idolo del mondo odierno è il danaro. Questo anzitutto va denunziato in quanto si sostituisce all’unico Dio. Il danaro, che oggi ha la sua espressione piú potente e aberrante nelle “multinazionali”, è alla sorgente dei mali piú gravi che affliggono l’umanità; questi centri di potere hanno le responsabilità piú gravi in ordine allo sfruttamento del suolo, alla droga, alla violenza e alla pornografia, poiché determinano le situazioni di ingiustizia e di povertà piú disumane presenti in molte parti del mondo, e condizionano l’opinione pubblica con la proprietà delle “testate” piú importanti. Mi pare che la Chiesa non abbia ancora denunciato con sufficiente decisione questa idolatria
Aggiungo un mio pensiero personale: l’Istituto per il sostentamento del Clero non mi sembra una trovata evangelica: i sacerdoti garantiti da una sicurezza economica, scadranno nella stima della nostra gente, la quale non lascia mai mancare il necessario e alle volte anche il superfluo ai suoi preti, e questi pagheranno la loro sicurezza con una diminuzione di stima che sarà di danno alla testimonianza evangelica.
Il Concilio Vaticano II ha accolto, fatte sue e portate avanti le affermazioni del Vaticano I circa il Primato del successore di Pietro con tutte le sue prerogative ma ha molto sviluppato il discorso sui Vescovi, successori degli Apostoli nei quali è presente, in forza della consacrazione sacramentale e della comunione collegiale, la persona e la missione di Cristo, nella forza dello Spirito (cf. LG 18 e n.).
Come gli Apostoli formavano un corpo solo, cosí i Vescovi col Presidente della carità sono un corpo solo. Coloro che si appellano alla esenzione canonica si tagliano fuori dalla ricchezza della grazia insita nei Vescovi. Tutti i membri del popolo di Dio, per godere del compito salvifico della Chiesa, hanno bisogno tanto del Papa come dei Vescovi.
Il Concilio è un punto di arrivo che ha impresso una svolta nella coscienza e nella vita della Chiesa, ma tutto risente della forza di inerzia e ci vuole tempo perché si compia questa svolta. Per altro verso è un punto di partenza per arrivare alle ” sorgenti”, le quali sono fresche, nuove e profonde: per questo il cammino è naturalmente lungo.
A Dio che parla si risponde
Cari Confratelli, cari Seminaristi che richiamate con la vostra presenza gli alunni di tutti i nostri seminari, care Sorelle che veramente vi siete dedicate, come Marta, per rendere confortevoli questi giorni: tutti insieme canteremo per sempre la lode del Signore.
Abbiamo ascoltato la preghiera ” sacerdotale” di Gesú rivolta al Padre, con tanta fiducia e tanta sicurezza. Abbiamo sentito ripetere: amatevi, vogliatevi bene perché Dio, per primo, ci ha amati e ha dato suo Figlio per noi; amatevi perché io ho amato. Gesú dice apertamente di essere una cosa sola con il Padre: il Padre in Lui, Lui nel Padre, il Padre e il Figlio in noi. Questo è il percorso dell’amore infinito di Dio. Dobbiamo sempre richiamare alla memoria e coltivare la certezza che siamo delle persone amate.
Dio non è egoista e non ha bisogno del nostro amore. Egli infatti non dice: “amatemi”, ma ripete insistentemente ” amatevi ” come io vi ho amati; amatevi gli uni gli altri perché il mondo creda (cf Gv 17 ss). Il segno, la prova convincente che Dio c’è, che Dio è con noi, che Dio ha mandato suo Figlio è il nostro amore vicendevole.
Non comprenderemo mai fino in fondo quale grazia è avvenuta in questi giorni: i Vescovi sono stati insieme come veri amici, con tanta cordialità, con tanto affetto e con tanta benevolenza vicendevole. Questo è il segno per cui il mondo potrà credere.
Era mia intenzione parlare diffusamente della Costituzione “Dei Verbum”. t quella che ci ha fatto scoprire un senso nuovo di tutta la divina Rivelazione e, se volete, di tutti gli altri documenti del Concilio: è il passaggio sconvolgente da una lettura intellettualistica della divina Rivelazione a quella decisamente storica.
Leggiamo insieme la parte fondamentale di questa Costituzione: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto; la profonda verità, poi, su Dio e la salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme mediatore e pienezza di tutta la rivelazione” (DV 2).
L’aspetto caratteristico di queste affermazioni è che le parole, cioè Dio che parla, sono un evento e gli eventi sono parole. In questo modo è dichiarato con evidenza che quella della salvezza non è tanto una dottrina ma una storia, che ha Dio come protagonista, e le sue meraviglie sono il linguaggio con cui vuole mettersi in comunicazione con il suo interlocutore: la persona umana. E’ una storia bellissima che apre alla fiducia e all’abbandono; è una storia essenziale, ricchissima in poche battute:
1 ) con questa divina Rivelazione Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici;
2 ) si intrattiene con essi;
3 ) per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé.
A Dio che parla si deve la risposta. “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui. Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolge a Dio, apre gli occhi della mente, e dà a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre piú profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni” (DV 5).
La Costituzione conclude con una affermazione di estremo valore: “In tal modo, con la lettura e lo studio dei libri-la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata-e il tesoro della Rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre piú il cuore degli uomini. Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, cosí è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall’accresciuta venerazione della parola di Dio che “permane in eterno” (DV 26).