Temi di studio nel Corso di aggiornamento per sacerdoti diocesani.
Monopoli, 10, 11, 12 Novembre1958
Un altro aspetto di questa fede che, preti o laici, siamo chiamati a testimoniare, e al tempo stesso un’altra evidente ragione di testimoniarla, li troviamo nel carattere vitale della fede.
Ci interessa metterlo in evidenza per la ricchezza straordinaria di applicazioni e di sviluppi, che se ne possono ricavare.
Questo carattere vitale lo si trova sia nella fede oggettivamente considerata, come dono e vocazione di Dio all’uomo, sia nell’atto della fede come risposta e impegno di tutta la persona del credente.
Vediamolo anzitutto nella fede come realtà oggettiva, posta nell’uomo dalla grazia.
La riflessione teologica e il magistero della Chiesa hanno messo in chiaro e poi più volte ribadito che non è la manifestazione storica della Parola di Dio, né sono i segni che l’ hanno provata a motivare immediatamente l’atto di fede.
L’ultimo passo dell’uomo è in ogni caso sorretto dall’intervento di Dio, il quale pone in lui un principio, una potenza, in grazia dei quali egli potrà conoscerLo efficacemente ed entrare in comunione con Lui.
Nel linguaggio teologico, questo dono e questa presenza ricevono il nome di grazia.
La Sacra Scrittura invece li chiama “attrazione del Padre” (Jo, VI, 44-46-65) “illuminazione del cuore” (2 Cor, IV, 6), fede viva (in opposizione alla fede morta) e li vede operare nel “cuore”: è il “cuore” (inteso nel senso biblico, come centro consapevole di tutta la persona) che viene illuminato e attratto, è il “cuore” che crede.
Con ciò il linguaggio della Scrittura salva, più che non faccia teologia (la quale peraltro ha le sue esigenze), l’unità dell’atto di fede, che infatti è un atto di tutto l’uomo: e non soltanto perché ne impegna tutte le potenze, ma perché si forma in quella profondità dell’essere umano dove la distinzione delle facoltà è superata.
È alla sorgente comune delle facoltà spirituali che l’atto di fede diventa possibile per l’opera dello Spirito Santo; è il dinamismo primordiale onde le facoltà traggono forza per agire, che viene investito e potenziato dalla grazia. Ecco fino a qual punto fede, grazia e vita umana sono intimamente congiunte e interferiscono tra loro.
La fede insomma è vita, sia perché sorga da una comunicazione di Vita divina, sia perché investe tutta la vita umana e la stabilisce in una relazione vitale con Dio.
Quello che ora interessa mettere in evidenza è lo sviluppo sul piano pratico di questa premessa: se la fede è vita, ne nasce per essa l’esigenza di adeguarsi alla prima e fondamentale tra le leggi dei viventi, la legge dello sviluppo.
La fede infatti è inizialmente il dono di una vita in germe. Nel Vangelo le similitudini e le parole del Regno, se viste nella loro pienezza di significato certamente includono e quindi affermano con espressività suggestiva questa potenzialità ed esigenza di sviluppo che è nella fede. Il Regno di Dio è simile ad un granello di senape, che è il più piccolo di tutti i semi ma è destinato a svilupparsi fino a diventare il più maestoso tra gli alberi.
Il Regno di Dio è simile a un pugno di fermento, il quale in sé è piccola cosa, ma immerso nella farina si dilaterà fino a lievitarne tutta la massa. Così la fede, per la quale il Regno di Dio si realizza nella sua fase terrena, è destinata a crescere e svilupparsi sempre più nelle anime dei credenti, fino a investirne e permearne, in ogni fibra più riposta, tutta intera la vita.
La catechesi apostolica è tutta, si può dire, su questa linea. Da S. Pietro che rivolgendosi ai neo-battezzati li chiama affettuosamente infanti or ora nati, a S. Paolo che esorta quelli che da poco hanno ricevuto la fede a crescere in essa di progresso in progresso.
Ma il testo per noi più significativo è quello famoso della lettera agli Efesini, che fa diretto riferimento al nostro tema: “Bisogna – scrive Paolo- che noi non siamo più come bambini incerti e trasportati da ogni vento di dottrina, ma che, confessando la verità, noi cresciamo col nostro capo, Cristo”. Così giungeremo all’unità della fede. allo stato di uomo adulto, alla misura della statura perfetta del Cristo. Per S. Paolo la crescita della fede si può dunque paragonare a quella di un organismo: ci fa passare, attraverso successivi sviluppi, dall’infanzia all’età adulta.
Apparirà più avanti la ricchezza di contenuto dell’espressione; osserviamo intanto che, nonostante una così alta provenienza, essa non ha ottenuto negli scritti degli ultimi secoli quella considerazione e quella esplicitazione che le erano proporzionate mentre i riferimenti sparsi e piuttosto superficiali che si possono trovare nei testi di ascetica ne hanno spesso svigorito la forza.
Ciò che è peggio, non ne ha tenuto conto la vita cristiana, come l’esperienza di tutti i giorni ci rammenta. Uomini e donne che si proclamano cattolici e sono ligi a certe pratiche religiose, conducono una vita che non ha più alcun rapporto con la loro fede, ridotta a poche parole e a pochi gesti stereotipati. Spesso sono persone dotate non solo di invidiabile salute fisica, ma anche di grande perspicacia o di carattere; nella vita famigliare e professionale danno prova di capacità, di assennatezza, di spirito d’iniziativa, ma nell’ordine religioso hanno conservato dei comportamenti puerili. Tutto in loro è cresciuto, fuorché la fede; la loro personalità è adulta, la loro religione infantile.
Il paradosso è tanto comune e ha preso proporzioni così vaste che è possibile vi ci siamo in qualche modo assuefatti. In questo caso, è più che mai l’ora di riaprire gli occhi perché si tratta di un paradosso scandaloso: è lo scandalo più grave che la cristianità dà a se stessa e a chi ne vive al di fuori: pietra d’inciampo tante volte insormontabile sulla strada di chi si avvicina e di chi ritorna.
Se oggi si ricomincia a parlare di “fede adulta” è anzitutto per denunciare questa situazione intollerabile e per cercare di portarvi rimedio: giacché non si può ammettere che l’adesione religiosa si riduca a simili infantilismi, rimasti estranei allo slancio della libertà.
Gli infantilismi della fede
È utile che ci fermiamo ad analizzare le forme e i caratteri di questi infantilismi: anzitutto per mettere meglio in luce il valore cristiano dimenticato, isolandolo da tutte le incrostazioni, e poi per vedere se comportamenti puerili per caso non si nascondano anche là dove non siamo abituati a riconoscerli.
Per capire che cos’è una fede adulta, bisogna dunque che abbiamo un’idea degli infantilismi che le si oppongono.
Questi sono molti e diversi, poiché legati in varia misura alla varietà dei temperamenti e dei modi di educazione e al gioco stesso della libertà: probabilmente vi sono tanti infantilismi quanti sono gli infanti nella fede. Più che fare un elenco di casi o di categorie, converrà quindi fissare alcuni caratteri costanti, che entrano in misura ora più, ora meno evidente nelle diverse forme di infantilismo. Essi sono:
a) la netta separazione tra fede e vita
b) l’ignoranza religiosa
c) la fissità delle rappresentazioni ed espressioni religiose
d) l’individualismo spirituale
e) l’insensibilità per i compiti apostolici.
a)
Prima e più comune caratteristica è senza dubbio la netta separazione tra la fede e la vita. La divisione in compartimenti chiusi tra profano e religioso, vita di fede e vita quotidiana è un fatto ben noto. Da una parte alcune idee che fanno una loro strada, dall’altra, parte la vita pratica che fa la sua strada. La vita resta così sottratta al reale influsso dei principi religiosi, o completamente o almeno per quanto riguarda l’aspetto sostanziale, che è l’adesione della persona. Ne deriva un cristianesimo convenzionale e farisaico, che riserva per Dio quello che non accetterebbe nessuno.
È il fenomeno che in altra sede chiamano “laicismo”. Esso ha mille forme e non è sempre facile smascherarle. Si va dalle posizioni di principio dei laicisti militanti alle tante forme di slealtà e di compromesso di tutti quelli che vivono nel timore di compromettersi con Dio e con gli uomini, nel timore cioè che il cristianesimo li prenda, smuova veramente qualcosa dentro di loro e gli altri se ne accorgano….
Alla base di questo cristianesimo sleale, sta spesso anche un’idea sbagliata della religione, alla quale si è arrivati un po’ per mancanza o insufficienza di cultura, un po’ per la ben nota tendenza a giustificare la propria condotta razionalizzando l’errore. Poiché non si ha la buona volontà di abbracciare il cristianesimo in tutto quello che è e che si esige, e d’altra parte manca il coraggio o la lealtà di respingerlo apertamente, si preferisce adattare il cristianesimo a se stessi, alle proprie misure, e con ciò naturalmente lo si mutila, lo si riduce, lo si immeschinisce.
Siamo ai vari “cristianesimi ridotti” cioè falsi, ma più o meno travestiti da cristianesimo vero. Si riconosce alla religione il diritto di regolare certi atti, imporre alcune pratiche, proibire certe trasgressioni e, purché ci si adegui a tutto questo, ci si ritiene a posto. Che poi si pratichi l’ingiustizia nei riguardi del prossimo o si offenda la carità o si riduca il culto del Dio vivo a pochi formalismi privi di vita, e con questo si dia scandalo ai vicini e ai lontani, non è questo – si pensa – che può turbare la pace della coscienza, perché questo non cade sotto la religione.
Si arriva al paradosso piuttosto sconfortante che molti cosiddetti osservanti e praticanti sono assai meno cristiani di altri che forse praticano meno e fanno anche dei peccati, ma hanno conservato un’idea molto più esatta della religione
b)
Queste considerazioni ci portano a fissare un’altro carattere, e quanto comune dell’infantilismo. Potremmo chiamarlo “fideismo”, perché è l’atteggiamento di chi non ha bisogno di sapere per credere.
La fede, con tutto ciò che essa include, è accettata in blocco, ad occhi chiusi, in forza di un vago sentimentalismo o di una tradizione passivamente subita. Manca qualsiasi interesse a chiarire o definire posizioni di ragione, le quali d’altronde verrebbero a distruggere una simile fede, priva com’è di fondamento e di contenuto razionali.
Forse c’è stato un tempo, o una mentalità, dai quali tanta debolezza è stata giudicata una forza, contro cui nulla potevano dubbi e obbiezioni; e si è parlato con entusiasmo della “fede del carbonaio e della vecchietta”.
È il caso di osservare che entusiasmi del genere hanno fatto il loro tempo? In un mondo dove il moltiplicarsi delle scuole e dei mezzi di trasmissione del pensiero ha travasato la cultura nelle forme più semplici e l’ha resa accessibile anche alle categorie più umili e sprovvedute, la fede del carbonaio non soddisfa più. Essa anzi è un peccato per chi carbonaio non è, perché nasconde, a dir poco, una posizione spirituale di inerzia o di sfiducia. Non è moralmente ammissibile che persone le quali conoscono benissimo un mestiere, la loro specializzazione professionale e insieme hanno una discreta cultura generale, solo in materia di religione possano accontentarsi del generico e dell’approssimativo.
E si deve dire che una fede infantile per mancanza o povertà di idee, è tanto più grave quanto più chi se ne accontenta ha raggiunto la statura dell’uomo adulto nel campo profano.
c)
Una fede così concepita e così praticata si riduce a qualcosa di “prefabbricato”, la cui caratteristica più evidente è la fissità propria delle cose inanimate.
Al posto della fede c’è un catalogo di formule, di comandi, di proibizioni immutabili, con esclusione di tutto ciò che significa valutazione personale, relazione vitale, possibilità di cambiamento nelle situazioni. Ci si limita a ripetere quello che si è sempre detto, a fare come si è sempre fatto, a giudicare come si è sempre sentito giudicare, nel giro di un circolo chiuso e definito fin dall’infanzia. Dio, ad es., Gesù Cristo, la Vergine sono pensati o, meglio, immaginati per tutta una vita come li si era immaginati bambini, sentiti allo stesso modo, pregati con le medesime parole. I doveri morali sono sempre e solo quelli di allora: non dire bugie, non dire parolacce, non mangiar carne… ascoltare la Messa, ubbidire ai genitori… Non si pensa che, in corrispondenza allo sviluppo vitale, la cerchia dei doveri morali possa essersi allargata e che i nuovi doveri possano essere ora i più gravi: al contrario si ritiene che tutto quanto è intervenuto di nuovo sia estraneo all’ambito della religione, perché la religione è tutta là, in quel famoso catalogo che non cambia e che non può cambiare.
Il peggio è che simili rappresentazioni religiose infantili si traducono poi in abitudini e in pratiche non meno erronee e non meno intoccabili. Qui si potrebbe aprire il capitolo purtroppo assai vasto delle deformazioni introdotte nelle pratiche religiose e di culto. Ricordiamo appena che si va dalle varie forme di devozione ai Santi (o alle statue dei santi e della Madonna) alle processioni, alle osservanze, ai voti che queste devozioni comportano, alle varie pie pratiche, e nessuno si scandalizzi se includiamo anche quelle del primo Venerdì e.del primo Sabato del Mese.
E’ chiaro che non si parla della devozione in sé, ma del modo di intenderla e di praticarla. In proposito, basti un’osservazione e una domanda. La religione è il pratico riconoscimento di un Essere trascendente, dal quale si dipende in tutto e per tutto, alla cui volontà, pertanto, bisogna uniformare tutta la propria vita.
L’esatto contrasto della religione si trova nella magia, che è invece il tentativo di vincolare il divino e di piegarlo alla propria volontà, mediante pratiche o formule, e indipendentemente da ogni riforma della vita morale. Ci chiediamo: in tanti fedelissimi ai primi Venerdì e primi Sabati, di comune conoscenza, cos’è che opera veramente, lo spirito religioso o la presunzione della magia?Ciò che aggrava la situazione e rende difficile migliorarla e l’attaccamento meticoloso e puntiglioso a queste pratiche: altro segno a cui si riconosce assente la duttilità della vita.
d)
Una caratteristica nella quale si è invece poco abituati a vedere un comportamento infantile è l’individualismo religioso. Intendiamo con questa espressione un atteggiamento che ignora le esigenze della carità e della vita comune. Tutte le preoccupazioni religiose sono fatte coincidere con quella della salvezza della propria anima. Non interessa che anche gli altri abbiano un ‘anima da salvare: non si accetta, almeno praticamente, di avere delle responsabilità al riguardo. Si prega “Padre nostro” ma è come se gli altri non esistessero. In chiesa si accetta anche facilmente di “essere tutti fratelli”, ma fuori quanta facile ironia tra cristiani sulla parola fratelli!
Tutto ciò consegue direttamente a quello che si diceva sopra avendo ridotto la religione a una serie di atti dal contenuto determinato, per forza di cose si rifiuta la carità di Dio e del prossimo, la natura della carità di progredire sempre, di superare se stessa, di darsi senza misura.
e)
Dopo di questo, è quasi superfluo aggiungere che un tale modo di intendere il cristianesimo è contrassegnato dall’assenza di qualsiasi desiderio di apostolato. Non c’è apostolato senza ansia di carità; senza preoccupazione per gli altri, senza sacrificio personale. L’infantilismo invece non capisce come l’apostolato possa essere in senso proprio un dovere dal momento che non rientra in quei famosi elenchi di atti definiti. Può esserci un peccato contro la castità, questo lo capisce benissimo, ma ce ne può essere uno contro l’apostolato?
D’altronde queste persone non hanno le parole né la forza di persuasione per comunicare una fede che attiri. Esse sanno solo scandalizzarsi o imporre. Lo vediamo quando fanno qualche sforzo per portare i vicini alle loro stesse osservanze: “devi farlo anche tu” è in genere l’argomento più forte. Il risultato è più spesso la ribellione che la fede. Quanto a quelli che fanno l’apostolato, esse sembrano contente quando possono accusarli di “cambiare la religione”.
Cause degli infantilismi di fede.
Di dove hanno origine simili deformazioni che mantengono la fede allo stadio infantile in tanti uomini e donne, per altri aspetti completamente sviluppati e affermati?
Prima risposta e forse la più generale: dalla loro trascuratezza e indifferenza. Hanno trovato il tempo per interessarsi e dedicarsi a una quantità di cose né indispensabili né urgenti, non hanno mai trovato quello di prepararsi ad affrontare la vita e i suoi enormi problemi con qualcosa di più che non fosse il catechismo imparato da bambini (e chissà in quale modo!).
Accanto a questa spiegazione, una più grave: il peccato. Non più solo resistenza passiva, ma positiva opposizione. Questa gente non ha accesso alla fede vitale, perché si è rifiutata alla grazia. La fede infantile è una vita coartata, paralizzata alla sua prima età.
Sarebbe temerario tuttavia voler troppo generalizzare una spiegazione così temibile, anche perché solo Dio conosce il segreto dei cuori.
L’ultima spiegazione che citiamo, ci riguarda direttamente: è la nostra presentazione della fede. Ci ha detto S. Paolo che la fede è frutto della predicazione ascoltata, non solo quindi della parola interiore dettata dallo Spirito. Perché non chiedersi se la causa di tanti infantilismi non è più nella debolezza della nostra testimonianza che nella infedeltà di chi l’ ha ricevuta?
A parte la questione di chi abbia la maggiore responsabilità, è certo che una presentazione più adeguata della fede avrebbe sortito altri risultati. Se il mondo religioso di tanti battezzati è composto soltanto di cose (precetti, formule, riti) si è perché mai nessuno ha fatto loro comprendere e sentire che al centro di esso sta invece una Persona: una persona amante, che attraverso la fede chiama ciascun uomo a stabilire con Lei rapporti vitali, anzi a entrare con Lei in una comunione d’amore. Dio, che è il Signore dei viventi, è rimasto per loro un’idea.
Gli elementi esatti del cattolicesimo, anziché svelare, hanno occultato la presenza vivente di Gesù Cristo. Perciò essi non si sono mai sentiti chiamare per nome, come gli Apostoli e i Profeti, non hanno ricevuto da Dio la loro parte di lavoro, non hanno mai preso con Lui un vero impegno, perché non ci si impegna con delle cose. E gran parte della loro vita, la parte più vera, è rimasta estranea all’influsso dell’azione e della presenza di Dio.
La pedagogia della fede.
Come risolvere gli infantilismi della fede?
Come farli evolvere verso una fede adulta?
Rispondendo, crediamo utile riferirci all’ultimo aspetto considerato, sia perché ci interessa più da vicino, sia perché una migliore pedagogia della fede ci sembra racchiudere la risposta fondamentale.
Con ciò, inoltre si renderà chiaro che cos’è la fede viva dal punto di vista soggettivo, cioè negli atti del credente.
Come si è visto, la causa più comune dei comportamenti religiosi puerili è nello sviluppo della libertà al di fuori di ogni influsso della fede. D’altra parte, se la fede è debole, vacillante, ridotta a manifestazioni meschine, ciò è dovuto, in n grande numero di casi, al fatto che noi non l’abbiamo chiamata ad agire. Senza dubbio qualcosa le abbiamo chiesto, ma le sole realizzazioni da noi proposte non offrivano alla libertà un campo di esercizio abbastanza vasto o non glie l’offrivano a sufficienza; perciò la libertà ha cercato altrove il suo sfogo, e, in ogni caso, lo ha cercato nell’azione.
Se le cose stanno in questi termini, dovrebbe allora bastare proporre a ciascuno delle attività che lo inseriscano in modo preciso nella realtà esterna, perché la causa principale della paralisi della fede sia superata. Il grande rimedio ai mali che abbiamo lamentato sembra essere dunque l’azione.
Le esperienze accumulate in questi ultimi anni dai vari movimenti di Azione Cattolica, appaiono conclusive: il lavoro in cui tanti cristiani, uomini e giovani, sono stati impegnati ha dato uno stile diverso a tutta la loro vita religiosa e ha permesso loro di scoprire la ricchezza della Rivelazione.
È chiaro tuttavia che l’azione non può essere un rimedio per se stessa, ma solo quando sia vista e attuata come risposta necessaria alla chiamata di Dio. Se questa relazione non è tenuta presente, l’azione può portare anche molto lontano dalla Chiesa e dalla fede. Ma se si ha cura di mostrare come essa è legata all’annuncio sempre più pieno del mistero della Salvezza, allora veramente il grande ritrovato che introduce l’uomo con tutta la sua libertà nel Cristianesimo e gli permette di scoprirne il valore.
In termini più completi, diremo dunque che la nostra presentazione della fede deve rivolgersi a tutto l’uomo e impegnarlo a rispondere con tutte le capacità del suo sviluppo vitale al dono e alla chiamata di Dio. È ciò che nella relazione precedente abbiamo chiamato: presentazione personalistica della fede.
Le tre età della fede.
Per non citare che le tappe salienti, avverrà dunque nella fede viva che il bambino entra in questo rapporto di unione e di collaborazione con Dio come bambino, l’adolescente come adolescente, l’adulto come adulto.
E’ ben vero che un rapporto in cui la libertà dell’uomo è fattore determinante, può di per sé realizzarsi nello spazio di trenta ore non meno che in quello di trent’anni e che un uomo in età adulta può in breve tempo percorrere tutto il cammino dall’infanzia, anzi dalla conversione, alla maturità della fede. Ma normalmente Dio non intende realizzare il suo disegno trascurando le leggi della natura, che poi sono espressioni della sua volontà.
Ora il disegno di Dio, qual è?
Egli non può aver dato invano all’uomo trent’anni per prendere possesso di sé e fissare le sue scelte. Anche Gesù, di cui è detto che cresceva in età, in sapienza e grazia, ha voluto conoscere le età dell’uomo.
Il disegno di Dio è che la fede, realtà vivente, si sviluppi nell’uomo con la personalità. Il suo desiderio è che ciascuno, se così si può dire, sia maturo nella fede secondo la sua età.
Nell’uomo Dio pone un germe che è vivo e destinato a svilupparsi, pena, nel caso contrario, la morte; insieme dà all’uomo la capacità di assecondare e alimentare questo sviluppo.
Quale sarà l’atteggiamento dell’uomo, anzi come dovremo educarlo a comportarsi nei riguardi di questa Vita che è in lui?
Ecco la pedagogia della fede.
Le osservazioni che seguono fissano anzitutto i dati psicologici caratteristici di un’età, quindi mostrano come su di essi possa innestarsi vitalmente la fede.
La vita del bambino si svolge tra due poli, il sostegno che gli assicurano i grandi, il giuoco che fa da sé.
Libertà come gioco.
Egli ha ugualmente bisogno di sentirsi protetto dagli oscuri pericoli che ancora non conosce e di spiegare in questo ambiente la sua spontaneità. Genitori ed educatori dovranno consentirgli l’una e l’altra cosa. Spetta a loro anzitutto consolidare l’universo del bambino, non solo garantendolo dai pericoli esterni e materiali, ma specialmente insegnandogli, con chiarezza e con sicurezza, ciò che deve fare e non fare, quello che è buono e quello che è nocivo, tracciando insomma per lui delle prospettive sicure e stabilendogli intorno una rete di certezze.
Se questo viene a mancare, il bambino si sente smarrito, è preso da paura, non può più giocare. E’ come dire che non è più lui, poiché gli è vènuta a mancare la libertà. Non è vero affatto che il giuoco sia un aspetto futile dell’attività del bambino: egli lo prende sul serio, perché lì soltanto può esprimersi pienamente, fare la parte che desidera, mettersi in relazione con chi vuole e perciò tende a giocare, qualsiasi cosa egli faccia.
La pedagogia e la didattica moderne hanno valorizzato questa osservazione con i vari metodi attivi, che oggi vediamo sempre più accreditati e diffusi.
Così anche una pedagogia cristiana che voglia comunicare una fede viva dovrà includere queste due componenti: il sostegno esterno e il giuoco.
L’educatore religioso deve offrire un ordine al quale il bambino possa appoggiarsi: quindi, affermazioni precise sulla verità di fede, sui comandamenti morali, sulla vita sacramentale.
L’importante tuttavia non è di dare delle nozioni, ma che da esse il bambino sia aiutato a riconoscere la grandezza e la santità di Dio. Perciò la presentazione della fede e in particolare dei misteri di Dio non sarà mai troppo circondata da grandezza e da rispetto: è nell’ammirazione intima degli adulti, nella loro sottomissione e fiducia, nella loro abituale serenità, che il bambino imparerà a vedere l’esistenza e l’opera di Dio e se ne sentirà sostenuto.
Ma il bambino ha pure bisogno di “giocare”, nel senso più nobile della parola, le verità di fede che riceve, ha bisogno cioè di animarle con la sua spontaneità. E’ necessario quindi che sia avviato a una preghiera personale anche se fatta collettivamente, che possa prolungare con canti, gesti o con attività personali, le celebrazioni liturgiche e l’insegnamento catechistico: bisogna insomma che impari a darsi un suo modo di pensare a Dio, di stare davanti a Lui, di unirsi al sacrificio di Gesù. Se lo slancio del bambino non può trovare appagamento in queste forme di espressione, si stabilisce un primo conflitto tra la vita personale e la fede. Le crisi spirituali delle età posteriori saranno allora quasi inevitabili.
La libertà come affermazione
Per questo – e siamo alla seconda tappa – l’adolescenza è così spesso l’età della crisi. L’adolescente scopre in sé stesso per la prima volta la capacità di fare qualcosa d’importante da sé: la sua vita gli appartiene ed egli può orientarla come meglio crede. Perciò si stacca dal gioco, del quale avverte l’inefficacia, si ribella alle imposizioni che gli impediscono di fare liberamente le sue scelte, tende a sfuggire, come può, da un ambiente di vita che non si è costruito lui, nel quale semplicemente si è trovato. E’ la nascita dello spirito d’indipendenza.
Se il cristianesimo gli è stato presentato unicamente come un elemento dell’ordine a cui si appoggiava la sua vita, egli cercherà di respingerlo contemporaneamente a quest’ordine. La religione farà parte per lui della cornice dalla quale cerca di staccarsi; per conquistare la propria indipendenza, si sentirà in dovere di applicare la sua critica ora ai dogmi, ora ai doveri morali, ora alla pratica dei sacramenti, oppure rifiuterà tutto in blocco senza nemmeno fermarsi a discutere.
Qui è urgente che gli educatori intervengano per portare l’adolescente a dirigere verso Dio la sua nascente capacità di azione personale. L’adolescente ha bisogno di sapere che relazione esiste tra Dio e quella vita che egli scopre di possedere tra le sue mani. Perciò Dio deve essergli presentato non tanto come Colui che esiste, ma come Uno che ha avuto per lui questa enorme fiducia di affidargli una vita, il massimo tra i valori, e di dare a lui solo la possibilità di disporne.
Dio ancora deve essergli presentato come Colui al quale egli deve tendere per diventare completo, per poter realizzare sé stesso. E ciò non in astratto, ma mostrando al giovane quali sono gli impegni che deve prendere per dare la sua risposta a Colui che lo ama e che lo chiama.
Se questa forte presentazione del messaggio cristiano non è data, viene il momento in cui l’adolescente non sa più che cosa fare della sua vita, si consiglia al primo o alla prima che capita ed è facile prevedere come la sprecherà. Il moderno esistenzialismo ha coscienziato profondamente questo stato d’animo e ha tentato di teorizzarlo, per concludere con la tragica definizione della libertà:
“un dono del quale non sappiamo che farcene” (Sartre).
L’adolescente aspetta dunque che gli sia indicata una strada sulla quale egli possa avviarsi e impegnarsi, è in attesa che alla sua libertà siano offerti dei compiti da realizzare.
Bisogna che di questo cammino gli siano mostrati i passi felici ma anche quelli difficili e pericolosi. lì giovane ama il rischio e non rifiuta il sacrificio: se è convinto che Dio lo chiama, sa compiere anche ciò che gli costa, perché capisce che il miglior modo di esprimere fiducia a una persona è di affidarle un’opera impegnativa da realizzare.
Su questo punto c’è forse molto da rivedere nella nostra pedagogia. L’educatore deve essere sempre presente, deve influenzare in qualche modo ogni atto, perché è la sua guida che rende vera l’azione del giovane, ma guai se interviene a danno della libertà.
L’educatore è ben altro che un regista, tuttavia il paragone si può fare: il regista migliore è quello che sullo schermo non si “vede”, cioè non si nota, perché l’apporto suo e dell’attore nell’interpretazione di questi è così ben amalgamato che riesce impossibile distinguerli. Se il regista si vede, gli attori – dice la gente: “sembrano marionette”.
La libertà come impegno e responsabilità
L’entrata nell’età adulta segna una nuova tappa. La libertà da questo momento si afferma affrontando delle responsabilità. E poiché l’adulto è normalmente gravato di un carico di famiglia e ha degli impegni professionali a cui non può venir meno, la sua vita, le sue energie sono ‘tutte dedicate al lavoro. È nel lavoro che egli si afferma, è qui che sviluppa la sua libertà.
Che cos’ hanno in comune le sue adesioni religiose con il suo lavoro, con la sua vita di relazione? Apparentemente, nulla. Non sono esse che migliorano la sua capacità professionale, né risolvono i suoi problemi famigliari, né modificano i suoi rapporti con gli altri.
Ora, se questo è vero, la religione resterà sempre qualcosa di estraneo alla sua vita. Potranno esservi, in circostanze eccezionali, momenti di religiosità anche sentita, nei quali ricompare, come si dice, “la fede dell’infanzia”. Ma siamo ben lontani dallo spirito d’infanzia domandato dal Vangelo. Simili ritorni – non lasciamoci ingannare e soprattutto non accontentiamocene – sono fuori dall’esercizio della libertà, sono fuori della vita. Somigliano, se l’immagine non è troppo irriguardosa, al gesto dello struzzo che tuffa il capo nella buca per non vedere la sua morte.
L’adulto dunque si trova a dover fronteggiare molteplici e ineluttabili necessità, che nascono dalla sua nuova posizione nella vita. Per radicare in lui una fede, bisognerà mostrargli il senso religioso di queste necessità; in termini più precisi, bisognerà mostrargli il rapporto tra tutto ciò che occupa la sua vita e la costruzione del Regno di Dio.
Il suo lavoro anzitutto: egli lo deve riscoprire nella luce di Dio Creatore. Non un Dio che creò una volta, all’inizio del mondo e forse s’è dimenticato della sua opera, ma un Dio che attualmente crea, che tiene ora nelle sue mani tutte le cose che sono, che istante per istante ce le affida perché le trasformiamo, perché perfezioniamo la creazione collaborando con Lui. A Dio, il lavoro dell’uomo interessa: gli sta a cuore non meno della sua corrispondenza alla grazia.
Quanto alla vita di relazione, la stessa luce di Dio creatore porta l’uomo a vedere riflessa in ogni essere spirituale l’immagine di Dio. Ecco che allora il rispetto della giustizia, l’onestà, la fedeltà coniugale, la dedizione paterna non sono più solo fatti determinati da necessità materiali o da usi sociali: sono altrettante forme del rispetto e dell’amore di Dio.
Altro ostacolo che aspetta al varco l’adulto: la scoperta del male. L’adolescente non lo scorgeva che a momenti, l’adulto lo vede continuamente: lo trova in se stesso, nella durezza e nella grettezza dei suoi sentimenti, lo trova negli altri, nella sofferenza, nella miseria degli altri, lo trova nella vita sociale segnata dall’ingiustizia e dalla corruzione. Tutto ciò diventa per lui una tentazione contro la fede, se non può coglierne il significato religioso.
Che sa la religione di questo oceano di male e di dolore?
Che sa della lotta che bisogna impegnare per sopravvivere?
Qual è la sua soluzione, se ne ha una da offrire?
A queste domande terribili si può rispondere solo con il mistero di Cristo e della sua morte redentrice.
Il cristianesimo, lungi dall’ignorare la sofferenza e la lotta, la porta nel suo centro. Nessuno più di Cristo ha conosciuto il male che è alla radice del dolore, poiché Lui lo ha obbligato a spiegargli contro tutta la sua potenza distruttrice e poi lo ha vinto con l’amore: un amore che ha esigito la morte.
Il Sacrificio di Cristo spiega tutto il cristianesimo: Redenzione, Messa, comunità dei redenti non avrebbero senso altrimenti il Sacrificio di Cristo spiega la sofferenza del cristiano, in lotta contro il male, perché gli rivela che egli è chiamato dal dolore a collaborare con Dio alla salvezza dègli uomini. Bisogna che ciascun membro compia in sé quello che manca alla passione del Cristo mistico che si estende a tutti i credenti.
Il dolore non è castigo, è vocazione e redenzione.
E non basta: più assai che l’adolescente, l’adulto soffre di solitudine e ha bisogno di affetto. La fatica fisica, le lotte quotidiane, le sconfitte, le delusioni, l’indifferenza degli altri gli inaridiscono il cuore, lo gettano nella sfiducia. Nel medesimo tempo, egli constata che ogni intimità umana ha dei limiti e nessuna è capace di soddisfarlo.
Noi preti parliamo assai poco della solitudine dell’uomo, sembra una romanticheria, e i discorsi sullo Spirito Santo preferiamo riservarli, agli eletti. Perché nascondere che c’è un Amico un Ospite, un Consolatore? Quale rivelazione è per l’uomo scoprire che certe formule pie nascondono l’incredibile ma certa realtà dell’amicizia di Dio!
Sapendosi amato da Dio, egli può allora, superando rancori e delusioni, riconciliarsi con quelli che lo circondano e stimare se stesso. Egli può anche scoprire che la sola presenza di Dio nel segreto di ciascuno crea tra gli uomini un legame indistruttibile, ben più che non siano i legami in cui gli uomini portano solo se stessi. Essere in noi e tra noi, sempre più come Dio ci vuole è il solo modo di vincere la solitudine.
Ogni adulto trova infine la morte davanti a sé. Prima di essere una eventualità minacciosa, essa si annuncia nello scorrere del tempo, nel sentimento di tutto ciò che ogni giorno muore nell’uomo.
E’ capace la fede di redimere questa impressione fondamentale, o può solo offrire parole di rassegnazione?
L’insegnamento cristiano non deve temere di affrontare in pieno il problema della morte, perché possiede il Cristo che è Vita e Risurrezione. Se la morte può far paura, essa è anche un bene prezioso: la fedeltà “usque in finem”, la dimostrazione piena dell’amore che “si rimette nelle mani del Padre”, le sono condizionati.
La fede dell’adulto deve essere portata a questo supremo compimento che gli fa accettare con Cristo l’immolazione totale: quella stessa che .accumula sul mondo un peso eterno di gloria. (2 Cor. 4, 17)
Il sostegno di una comunità.
Questa è la fede adulta; c’è un abisso tra gli infantilismi descritti sopra e quest’adesione piena a Dio nell’amore, che unifica e trascina tutte le forze della persona.
Sono tanti i cristiani che possono approdarvi?
Dipende: la crescita nella fede comunemente ha bisogno di essere sostenuta da una comunità. La dottrina, i sacramenti, la guida spirituale dei sacerdoti non bastano; occorre una testimonianza. E se si tratta di laici, occorre la testimonianza dei laici. Soltanto il laico può mostrare le forme che la testimonianza cristiana deve prendere nel mondo attuale. L’insegnamento e la guida spirituale del sacerdote hanno il compito di portare i laici a scoprire in ogni circostanza della vita ciò che significa il messaggio di Cristo, qual’è la sua rivelazione, qual’è la sua promessa, quale la sua esigenza d’azione.
Ma solo quando hanno visto le conseguenze delle grandi verità cristiane nella vita di quelli che li circondano, essi scoprono che queste verità non possono rimanere per loro delle formule vuote o delle fiacche abitudini.
Chi possono essere questi laici che testimoniano il Cristo?
Dove potranno sorgere queste esemplari comunità?
E’ facile sapere che se non vengono dalle nostre associazioni, se non sì formano intorno alle nostre parrocchie, tanto meno spunteranno altrove.
In ogni caso, come fu alle origini della Chiesa, come è sempre nel disegno di Cristo, il movimento della testimonianza incomincia da noi.
Carlo Ferrari Vescovo
Bollettino Diocesano Dicembre 1958 pag 25-40
ST 143 Fede vitale 1958