A Parma con i diaconi di Mantova che si preparano all’Ordine Sacro
Tutti i rapporti nella Chiesa si definiscono dal concetto che si ha di Chiesa. Non perdiamoci a considerare i rapporti del presbitero con il vescovo, prima del concilio, quando della Chiesa c’era una certa concezione perché c’era una certa teologia. La teologia che vale per noi è quella del Concilio Vaticano II, è quella che si è sviluppata a partire dal Concilio. Non entro in questioni particolari. Accenno soltanto a ciò che è essenziale.
Prima di tutto, la Chiesa è concepita come mistero in quanto luogo della presenza e dell’azione delle Divine Persone tese alla salvezza del mondo, protese verso gli uomini. Questo è l’elemento invisibile della Chiesa, ma la Chiesa è anche una realtà visibile fatta di uomini, costituita quindi dal popolo che é stato definito con l’immagine biblica più completa di “Popolo di Dio”, nella quale entrano tutti coloro che accettano il vangelo e aderiscono a Dio per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito.
Questi due poli della Chiesa, il mistero di Dio e il Popolo di Dio, sono caratterizzati dalla nota della comunione: la comunione delle Divine Persone del Padre del Figlio dello Spirito Santo di un solo Dio e la comunione a cui sono ammessi e chiamati gli uomini. Gli uomini sono ammessi a partecipare alla comunione della vita di Dio!
Perciò, più esplicitamente, viene fuori questa nota della unità nella molteplicità.
Il Padre é il Padre.
il Figlio é il Figlio.
lo Spirito Santo é lo Spirito Santo.
Sono infinitamente distinti ma partecipano ad una unica vita, – in termini più o meno filosofici- ad una unica esistenza, ad una unica potenza, ad una unica sapienza, ad un unico amore.
La caratteristica dell’unità nella molteplicità segna e definisce anche il Popolo di Dio. Il Popolo di Dio nella molteplicità delle persone é chiamato ad essere un solo popolo che partecipa ad una unica vita organica i cui membri sono uniti in un solo corpo di cui Cristo è il Capo e sono pietre vive di un unico tempio che si edifica nello Spirito. Perciò la fonte della vita e dell’essere della Chiesa ha come sorgente l’unità delle Divine Persone in un solo Dio. E l’unità delle divine Persone di un solo Dio diventa anche il modello dell’unità di questo popolo e più esplicitamente di tutti i rapporti che ci sono nella Chiesa, e più esplicitamente ancora nella vita cristiana.
Adesso facciamo un passaggio – che si riferisce sempre al modo di concepire la Chiesa – l’economia di tutta l’azione di Dio nella storia della salvezza. La nota della economia della salvezza è la sacramentalità, cioè, Dio in tutti i tempi si è manifestato attraverso i segni. Questi segni rivelavano e nello stesso tempo nascondevano, nel senso che contenevano la presenza di Dio e della sua azione. Sacramento radicale di tutta la salvezza è il Verbo fatto carne. Dice Gesù Cristo: chi vede me, vede il Padre mio; il Padre mio opera, io opero. Questa economia della divina presenza segnata dal carattere sacramentale è una manifestazione della condiscendenza di Dio che ha voluto adattarsi alla nostra natura. Allora comunica ed esprime ciò che è interiore per mezzo delle cose esteriori.
C’è un altro aspetto della natura sacramentale della salvezza e degli strumenti della salvezza che delineano con sicurezza, definiscono ed hanno una garanzia per l’uomo che ha bisogno di vedere e di costatare quanto in determinati segni è legata la parola di Dio, quindi la promessa, l’impegno e la fedeltà di Dio. Nostro Signore Gesù Cristo non ha cambiato niente nella economia della storia della salvezza. L’ ha portata a compimento nella sua persona e si è preoccupato di garantirla per tutte le generazioni. Questo lo ha fatto sia per definire coloro che sarebbero stati i credenti in Lui, sia per definire la sua presenza e la sua azione.
Adesso cerchiamo di fare un altro passaggio per accostarci al nostro discorso. La Chiesa nel suo insieme, come Popolo di Dio e quindi in tutti i suoi membri diventa, per volontà di Dio espressa in nostro Signore Gesù Cristo e confermata nello Spirito, sacramento universale o strumento visibile della comunione con Dio e dell’unità degli uomini tra di loro. E’ in questa sacramentalità universale che si definiscono i sacramenti, i segni che costituiscono il cristiano, i segni che costituiscono i diversi servizi che Gesù Cristo ha voluto garantire in mezzo al Popolo di Dio, come continuità della sua azione in mezzo al suo Popolo e con il suo Popolo.
Ci interessa il sacramento per mezzo del quale Gesù Cristo ha voluto garantire la sua missione. Il sacramento dell’ordine non comporta semplicemente un gesto particolare che, come abbiamo detto stamattina, è abbastanza difficile da individuare con precisione. A me pare che questo risulti proprio dal rapporto che Gesù ha voluto stabilire coi dodici. Che poi ad un certo momento egli abbia imposto le mani sugli apostoli ad indicare lo Spirito che avrebbero ricevuto, direi che è una tappa definitiva nel lungo svolgimento dell’ordinazione degli apostoli che incomincia con la chiamata, e continua con la “messa a parte” dei dodici.
Questo “messa a parte” ha tanti significati nel linguaggio biblico, ma ha particolarmente il significato di “metterli a parte” di ciò che Egli è e di ciò che Egli fa. Mi pare che Gesù esprima questo con le parole: “Vi ho chiamati amici perché tutte le cose che ho udito dal Padre mio le ho manifestate a voi”. Per cui la Ordinazione sacra comprende tutti questi elementi: dalla chiamata alla “messa a parte”, al mandato, alla missione andate in tutto il mondo predicate il vangelo fate discepoli gli uomini, battezzateli a chi avrete rimessi i peccati saranno rimessi.
Ciò che Gesù ha fatto per i dodici l’ha fatto proprio per dare un fondamento alla sua Chiesa. Ha voluto costituire un fondamento per la sua Chiesa. Lui é il fondamento primordiale della Chiesa come é il sacramento primordiale della salvezza. Non c’e nessun altro fondamento se non quello posto da Dio che è Gesù Cristo. Gesù Cristo, tolto dai nostri sguardi perché sale alla destra del Padre, promette di essere nella sua Chiesa e con la sua Chiesa fino alla fine dei tempi, perciò stabilisce il fondamento della apostolicità di coloro che Egli elegge apostoli nella sua Chiesa, perché vadano in tutto il mondo a fare quello a cui abbiamo accennato
e che corrisponde alla missione di nostro Signore Gesù Cristo.
Un rilievo che si riferisce l’unità ,che abbiamo chiamato la nota caratteristica della Chiesa. L’unità va richiamata a questo proposito. La missione di nostro Signore Gesù Cristo, che é quella di costituire un popolo che ha come fondamento e come modello l’unità delle divine Persone, è trasmessa nella globalità dei diversi aspetti del ministero. Quindi il compito primario a cui si devono riferire tutti i compiti del ministero sacro è l’unità delle divine Persone.
L’unità della comunione dei credenti non sarebbe possibile, se non fosse prodotta dalla forza che proviene dalla sorgente, che è il mistero trinitario attraverso il mistero di nostro Signore Gesù Cristo che continua nel ministero della Chiesa. La comunione nella Chiesa, l’unità nella Chiesa, non è fatta dal convergere delle volontà degli uomini, ma dalla attrazione potente della grazia sovrabbondante dell’amore di Dio che unisce gli uomini. Per di più, questa comunione deve avere il suo termine di confronto, il segno della garanzia che é veramente la comunione voluta da Dio, secondo il piano Dio realizzato in nostro Signore Gesù Cristo, compiuto dall’azione – così caratteristica in questo senso- dello Spirito Santo. Il suo termine di confronto é proprio nel vescovo.
Credo abbiate notato che, sino a questo punto non ho fatto nessuna distinzione tra vescovi e presbiteri. Presbiteri ed Episcopi partecipano all’unico sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo. Qui il discorso dell’unità ritorna. Sorgente del nostro ministero sacerdotale è Gesù Cristo. Modello del nostro ministero sacerdotale è Gesù Cristo. La via che dobbiamo percorrere per realizzare il nostro ministero sacerdotale rimane Gesù Cristo. Quindi, al di sopra di tutti noi, deve campeggiare Gesù Cristo.
Il segno è voluto da Dio. Il segno è indispensabile perché così è stato riconosciuto da Dio per la nostra natura, però ciò che conta nel segno è il contenuto ed il contenuto è la presenza, è l’azione di nostro Signore Gesù Cristo che si riassume nel sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo, un sacerdozio profetico e regale.
C’è un altro aspetto che deve essere ritenuto indispensabile. La Chiesa come Popolo di Dio, che realizza la comunione che ha il suo fondamento e il suo modello in Dio, non è una realtà indefinita. E’ una realtà decisamente umana, che ha la dimensione decisamente umana anche se non sempre corrisponde nella realtà. Questo rilievo lo faccio per introdurre brevissimamente il discorso della Chiesa locale.
La Chiesa è cattolica, è universale, è una. La Chiesa però si attua, si realizza localmente nello spazio e nel tempo in una comunità ben definita, e definita sacramentalmente, dove l’esercizio del ministero del vescovo con i suoi presbiteri ha i limiti dello spazio, del luogo e del tempo perché viviamo nella storia. Nella Chiesa locale, la funzione principale del vescovo (è il senso del discorso che abbiamo fatto fino adesso) è quella che il cConcilio così definisce: essere segno e strumento dell’unità della Chiesa.
Adesso cerchiamo insieme con la grazia del Signore di dire delle cose vere. Abbiamo detto che la realtà della Chiesa locale dovrebbe avere la dimensione di una realtà umana, di una realtà a misura di persona. Questo concilio lo esprime nel “Sacrosanctum Concilium” dove mette il Vescovo come colui che esercita il triplice ministero nella sua Chiesa e poiché non può essere presente in tutte le comunità è rappresentato dal Presbitero che ne fa le veci. Rispetto alla teologia del passato questa definizione del Concilio è molto più bella, molto più ricca e molto più qualificante del ministero presbiterale. Se il ministero presbiterale ha una distinzione rispetto al ministero del Vescovo, forse, la distinzione sta qui: il Presbitero rende presente il Vescovo e fa le veci del Vescovo nella comunità locale.
Le conseguenze sono molte e serie. Al limite si potrebbe anche concepire un vescovo senza presbiteri, ma questo non è nell’ordine della vita e della storia della Chiesa. Invece è nell’ordine della vita e della storia della Chiesa che intorno al Vescovo ci siano i presbiteri, i quali se da una parte segnano il prolungamento dell’esercizio del ministero del vescovo, dall’altra ne segnano anche i limiti. Il vescovo non può fare tutto da solo e non deve fare tutto da solo. Il presbitero non può fare senza il vescovo.
Non abbiamo qualificati i così detti ‘poteri’ del vescovo e del presbitero.
E’ certo che il vescovo è maestro autentico ed è testimone della fede. E’ strumento e segno di unità nella sua Chiesa e con la Chiesa universale. Analogamente il presbitero è segno e strumento di unità nella comunità locale e rispetto a tutte le comunità che si raccolgono intorno al vescovo. Scendendo ad una riflessione, sia pure a volo d’uccello: ai diversi aspetti del ministero per mezzo dei quali si fa l’unità e la comunione del Popolo di Dio, la novità del concilio è quella che fa derivare il mandato della evangelizzazione dall’Ordine sacro e non da un mandato giuridico esteriore. Il mandato dell’evangelizzazione è intrinseco dell’Ordine sacro, trova il suo fondamento di significato e di grazia e quindi di efficacia nell’Ordine sacro.
Non dimentichiamo il discorso di questa mattina. Noi per fare cose vere dobbiamo essere veri. Vale per tutto e vale tanto per il ministero della evangelizzazione. Allora il ministero della evangelizzazione del presbitero, che una volta era legato alla giurisdizione – per cui uno non poteva predicare dove non era mandato, oggi queste cose sono cadute perché sono giuridiche – ha un certo fondamento nella deputazione del presbitero ad una comunità, nella quale rendere presente e fare le veci del vescovo, ma nella volontà implicita del vescovo c’è che il presbitero sia ordinato per la diocesi e per i bisogni della diocesi, perciò si suppone che il presbitero vada anche di sua iniziativa dove c’è un bisogno per la diocesi, e faccia questo rappresentando il vescovo, facendo le veci del Vescovo.
Ne nasce un problema delicato e secondo me importante. Se ha valore il compito principale del vescovo che é quello della evangelizzazione, il vescovo non deve soltanto autenticare ufficialmente e garantire il valore della fede che viene predicato nella sua Chiesa, ma non deve essere testimone come suo fatto personale. Intanto il ministero del vescovo della evangelizzazione non deve essere un fatto suo personale attraverso cui svolge il suo compito primario. Il ministero della evangelizzazione é compito primario della sua Chiesa, che é condotto avanti e reso possibile ed esteso a tutte le comunità per mezzo dei presbiteri. I presbiteri a loro volta debbono essere o saranno o sono maestri autentici di una evangelizzazione autentica, nella misura in cui sono in comunione con la evangelizzazione del vescovo.
C’è un costume nella Chiesa a riguardo della evangelizzazione, della predicazione, della catechesi, della omiletica per cui ogni prete va avanti secondo il suo genio ed ha i suoi punti di riferimento in tutti gli strumenti di evangelizzazione che sono in commercio, ma tiene ben poco conto della evangelizzazione del vescovo. Cerchiamo di rifarci al concetto di evangelizzazione a cui abbiamo accennato questa mattina.
L’evangelizzazione corrisponde alla vita della Chiesa. E’ un fatto vitale che evidentemente corrisponde alla memoria di nostro Signore Gesù Cristo, si rifà a nostro Signore Gesù Cristo e lo annunzia. Deve essere la vita di questa Chiesa che impegna il vescovo ad essere vero, presente, operante in questo settore insieme ai suoi presbiteri, ma impegna anche i presbiteri ad essere vivi, presenti, veri, operanti, insieme con il vescovo. Questo non significa spersonalizzare. Il vescovo non è spersonalizzato nella sua Chiesa perché è in comunione con tutta la Chiesa. Il fatto di essere in comunione con tutta la Chiesa e in particolare con il Sommo Pontefice non lo spersonalizza.
Avrà un indirizzo che nasce dalla conoscenza, dal rapporto di vita che esiste tra lui e il suo popolo e i suoi presbiteri e per mezzo dei suoi presbiteri. Così anche i presbiteri non vengono spersonalizzati, anzi, proprio con la ricchezza della loro personalità arricchiscono il rapporto del vescovo con la sua Chiesa: con un rapporto analogo ma storico, cioè di quel momento, e oso dire e credo di dire una cosa giusta, di quel vescovo che hanno in quel momento.
Ora, è nella mentalità dei sacerdoti che valgono le disposizioni del vescovo in ordine alla pastorale per l’età dei cresimandi, i padrini, eccetera, ma il fatto fondamentale che dà alla nostra azione il carattere della apostolicità, ed è l’esercizio della evangelizzazione da parte del vescovo, non è tenuto normativo. Un vescovo che predica, ma che non dà ‘norme’ è un vescovo disimpegnato! Mi pare che questo sia un fatto indicativo.
Storicamente le città episcopali – il centro diocesi – erano suddivise in diverse parrocchie ma almeno per le celebrazioni principali, tutti i presbiteri convenivano intorno al vescovo per la concelebrazione. Anche in tempi recenti – ricordo la mia diocesi di origine – nelle solennità in cui il vescovo teneva il pontificale in cattedrale, in quell’ora, non c’erano Messe nelle altre chiese cittadine ed i parroci erano tenuti ad essere presenti e sorbirsi l’omelia del vescovo. Rimaneva ancora un atto molto esteriore che adesso è stato di molto arricchito.
E’ stato molto bello – non so chi di voi era presente – il giorno di S. Anselmo quando abbiamo celebrato per il nostro patrono. Erano presenti i membri del capitolo che dovrebbero essere veramente i presbiteri della città episcopale, ma che attraverso i tempi hanno assunto mansioni del tutto particolari sancite dal diritto canonico. Ma era presente anche la quasi totalità dei parroci cittadini! Non so che conto hanno fatto della omelia del vescovo! E’ chiaro che un discorso del genere potrebbe apparire come una pretesa di diventare maestro di predicazione. No. Io svolgo il mio ministero principale in quel momento, che ha il suo culmine nella celebrazione eucaristica. La stessa celebrazione eucaristica prende senso dalla celebrazione della Parola di cui l’omelia fa parte. Non è qualche cosa di aggiunto e il vescovo, per esprimersi in termini correnti, dovrebbe fare opinione nella sua diocesi per la predicazione. Proprio per la predicazione ordinaria, non per la lettera pastorale!
I sacerdoti anziani dicono: il vescovo non scrive mai una pastorale… una volta c’era la pastorale della Quaresima e adesso non viene più fuori… il vescovo in quei tempi teneva l’omelia di Pasqua e non predicava tutte le domeniche… e in tutte le occasioni anche se non è domenica, come fa adesso. Non lo faccio soltanto io. Lo fanno tutti. I vescovi oggi si muovono, vanno, predicano. Non so se tutti i vescovi lo fanno per rispondere ad un mandato connesso con il loro ministero. Fatto sta ed è che questo avviene, quindi, ripeto, il vescovo dovrebbe fare opinione in ordine alla predicazione.
L’altro punto – lo accenniamo soltanto- é il ministero della grazia, particolarmente
la celebrazione della Eucaristia. Va bene che si dica il nome del vescovo nella celebrazione della Eucaristia, ma ci dovrebbe essere la coscienza di trasmettere nei membri del Popolo di Dio che l’Eucaristia si fa intorno al vescovo, cioè intorno al perno della unità, intorno al segno della unità, intorno allo strumento della unità che dovrebbe essere esplicitato, forse, in altre maniere diverse da quelle di oggi.
Diciamo due parole sull’altro aspetto del ministero del vescovo, il così detto governo della diocesi, che potrebbe sembrare quello specifico.
Non si sente la presenza di una mano forte? Non si vede la presenza di indicazioni chiare? E allora ciascheduno fa come vuole? Ma così noi cadiamo nel giuridismo! Così attribuiamo più importanza ad una realtà che ha soltanto una espressione esteriore, piuttosto che al fondamento interiore di quella realtà! Allora bastano le grida di un qualsiasi principetto o di un qualsiasi detentore del potere, di qualunque natura, per governare!
Ma se governare è evangelicamente il servizio della carità per aumentare la carità, se governare è il servizio per realizzare l’unità, allora le cose stanno in un altro modo, allora il governare più che dal potere nasce dall’essere conformi a nostro Signore Gesù Cristo, che é stato, ad immagine del Padre, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge. E’ tutto un altro modo di concepire e di vivere! Allora il presbitero, che si mette sulla linea del ministero del vescovo, deve mettersi in questo impegno di animatore della carità, della concordia, dell’unità e della pace intorno a quel perno che é il vescovo.
Indubbiamente tutto questo fa problema. Noi troviamo comunità già costituite come sono le parrocchie e che purtroppo non sempre sono comunità. Troviamo i “gruppi” che possono avere molte caratteristiche della comunità. Nelle prime c’è un ossequio tradizionale, formale, esteriore che può essere anche cordiale, ma non di fede rispetto al vescovo. Nelle seconde ci può essere addirittura la contestazione oppure il livellamento per un falso concetto di Popolo di Dio, dove tutti i membri sono uguali. Indubbiamente sono tutti uguali per dignità, per destino, per carità vicendevole, ma non per i ruoli perché ognuno ha il proprio ruolo.
La realizzazione di un concetto giusto di questa realtà finale, di questa realtà di compimento della vita della Chiesa, che é l’unità nella carità, che è la comunione intorno a nostro Signore Gesù Cristo, è molto affidata alla comunione dei presbiteri e all’azione dei presbiteri nel senso della comunione.
OM 524 Parma 76_2