Le persone che sono entrate con rilievo nella nostra adolescenza e poi ne sono uscite, rimangono nella nostra memoria, sospese con quel tratto delineato dall’emotività adolescenziale. Comprensibile l’imbarazzo, pure nel piacere, di ricordare una persona cara, di dover parlare in un periodo successivo col materiale conservato in una età che non ci permette un giudizio più profondo e complessivo. Soprattutto quando quella persona è stata vista e scelta a modello ideale di ciò che volevamo diventare.
Mons. Ferrari è stato un personaggio irripetibile della mia vita come colui che incarna per primo un ruolo e un particolare tipo di rapporto. Il non aver conosciuto prima di lui altri vescovi (quando venne a Monopoli ero bambino) me lo ha fatto diventare “il vescovo” per antonomasia, tanto che ancor oggi, per parlare degli altri aggiungo il cognome, mentre di lui non lo uso mai.
Dalle prime volte che lo vidi colpì la mia fantasia per il suo modo di parlare, di presentarsi non alieno da qualche tono che mi parve brusco, per la sua ieraticità nei pontificali, il suo fare semplice e dinamico che non ne diminuiva l’autorevolezza e lo stesso cliché di vescovo sportivo che guidava personalmente l’automobile. Per questo da bambino desideravo diventare come lui e ne studiavo il modo di rapportarsi agli altri e quello che mi sembrava il suo naturale primeggiare.
Ricordo ancora le accese dispute campanilistiche con i compagni di classe nel seminario minore interdiocesano. Con accanimento si disputava a passeggio sui pregi e le glorie di Monopoli e di Altamura. La mia cittadina aveva qualche migliaio di abitanti in meno, non poteva fregiarsi del titolo di “Leonessa di Puglia” e della meravigliosa facciata romanica della sua cattedrale; mi rifacevo però, con le industrie, il porto, la grandezza della cattedrale barocca, I’altezza del campanile (che mi premurai di misurare) ecc. Ma tutto sommato, l’interlocutore non si dichiarava vinto dalle mie argomentazioni. Il colpo di grazia era il vescovo… Tanto che non provocando contestazioni, cominciai per cavalleria a non abusarne.
La permanenza a Monopoli del vescovo è ricordata con piacere dai monopolitani e dallo stesso mons. Ferrari. Egli mi raccontava, non molto tempo fa, di quel 1952. Alla comunicazione della nomina, il nome greco di Monopoli gli fece pensare di essere stato destinato ad una sede titolare e di dover essere in realtà un ausiliare. Riuscì a vincere la curiosità di fronte alla “provocazione” dell’allora segretario del vescovo di Tortona il quale, accortosi di una nuova nomina, tentava i sacerdoti convocati dal vescovo con un annuario pontificio in mano, sicuro che il neo-eletto l’avrebbe richiesto per informarsi sulla propria destinazione. Posso immaginare le sue perplessità alla sera, vedendo sull’atlante Monopoliad oltre 800 Km. e la sua preoccupazione nel recarvisi per l’ingresso in diocesi ad agosto quando attraversò i luoghi che ancora recavano i segni dello sfacelo bellico.
“Quando arriviamo, parli lei perché io non avrò la forza di parlare” disse il vescovo al suo professore di teologia che l’accompagnava. Le vicinanze di Monopoli con la dolcezza del paesaggio collinare e marino lo rassicurarono con il presentimento che ci si sarebbe trovato bene. Il popolo l’accolse con simpatia. Il nuovo pastore predicava magnificamente e l’accento settentrionale lungi dal sottolineare la diversità di origine, lusingava i fedeli col fascino delle persone venute da fuori.
Altre sue caratteristiche esteriori contribuirono a renderlo popolare: soddisfaceva quel pizzico di barocco che riposa nel meridionale con la sua “imponenza” nelle cerimonie liturgiche, ma nello stesso tempo la sua semplicità di stile, senza insegne vescovili, a passeggio da solo nel paese vecchio con le tasche piene di caramelle ed anche la sua passione per le macchine veloci è stata vista sempre con compiacimento. In breve, si parlò in molte famiglie monopolitane, come di un parente. Ci si preoccupò per la sua salute quando lo si vide un anno, dimagrito e senza quel suo colorito purpureo.
Il clero ebbe altri motivi per apprezzarlo. Tre mesi dopo il suo ingresso ci fu per tutti i sacerdoti una tre giorni sulla “Mediator Dei” da poco uscita. E il vescovo fece capire chiaramente che la vita liturgica sarebbe stato uno dei pilastri della sua pastorale diocesana, tanto che un paio di sacerdoti se ne lagnarono come di cosa riservata ai monasteri benedettini.
Qualche disagio gli provocò la religiosità un po’ folcloristica dei suoi diocesani quando sperperavano tanti soldi in bande musicali, fuochi pirotecnici e luminarie durante le feste patronali, mentre a suo giudizio tali somme potevano essere impiegate in opere assistenziali e pastorali.
Complice il suo amore per i bambini, seppe realizzare il carnevale dei ragazzi con carri mascherati che presto raggiunse una buona levatura artistica e risonanza regionale. Al di là di simpatie e di fascino personale, come pure di qualche resistenza e avversità, la piccola diocesi ha recepito, negli anni del Concilio e in quelli che lo precedettero, il discorso liturgico, biblico e catechetico che il vescovo ha inteso privilegiare. Al punto che molte diocesi del centro-sud ne seguivano il lavoro e richiedevano per esempio, il programma e gli svolgimenti della catechesi domenicale.
ll Concilio rappresentò per il vescovo un momento di impegno, di studio e certamente vi andò preparato, attento com’era alla lezione anticipatrice che veniva d’oltralpe con i vari De Lubac, Congar, Chenu. Tale preparazione fu confermata dalla serie di articoli sulla rivista delle edizioni Paoline “Via Verità e Vita” e da conferenze su documenti e temi conciliari.
In pieno clima di attuazione del Vaticano II°, con il vescovo che ormai era diventato uno di noi, la notizia del trasferimento a Mantova. La prima reazione dei monopolitani fu di perplessità: che il vescovo non fosse più circondato dallo stesso nostro calore…
di Orazio Petrosillo vaticanista di Monopoli
La Cittadella 12 Giugno 1977