Duomo 21 ottobre 1973 ordinazione presbiterale
Mons. Carlo Ferrari
Miei cari, per entrare nel significato profondo di ciò che sta per compiersi in questa celebrazione, dobbiamo anzitutto riflettere sulla Parola di Dio che abbiamo ascoltato. La mia povera persona, che esercita il ministero sacro nella comunità riunita dei presbiteri e di tutti i battezzati, non può dire se sia più importante il gesto di imporre le mani a questo nuovo Eletto o quello che ora compio con l’annuncio della Parola di Dio. Sono atti non separabili, che si richiamano e si completano a vicenda.
Una fortunata coincidenza vuole che i testi del libro sacro per questa domenica abbiano tutti una portata eminentemente sacerdotale: dalla prima lettura che riporta le parole del Servo di Jahvè, alla riflessione teologica sul compimento in Cristo di quella figura profetica che fa l’autore della lettera agli Ebrei nella seconda lettura, al brano evangelico dove incontriamo Gesù che dialoga con i discepoli e li ammaestra sulla missione che dovranno svolgere in suo nome a servizio del Regno di Dio.
Si tratta di coloro che personalmente e poi nella persona dei successori, eserciteranno nella Chiesa il ministero sacro, di coloro che Dio « mette a parte » con un atto di consacrazione e abilita con una grazia particolare a continuare nel mondo la missione del suo Unigenito fatto uomo: pacificare gli uomini con Dio e tra di loro, attraverso una liberazione dolorosa vissuta nel sacrificio, del dono totale di sè, per strappare gli uomini al mondo del peccato e trasferirli nel mondo della vita e del Regno di Dio.
Tutto questo si è compiuto in Cristo attraverso l’impegno misterioso della croce, che agli occhi del mondo è scandalo e follia. Il Servo di Jahvè, figura tra le più singolari dell’Antico Testamento, non è solo il sacerdote che offre vittime, oblazioni e olocausti; è l’uomo che « conosce il patire », che prende su di sè la sofferenza del mondo, le conseguenze della iniquità dei fratelli e offre se stesso a Dio in sacrificio di espiazione e di riscatto per la moltitudine. E Dio promette in cambio che, dopo il travaglio, vedrà la luce e vivrà, avrà una discendenza senza numero, sarà nella grazia e nella gloria.
E’ I’annuncio profetico del Cristo che inaugura la nuova legge, la nuova Economia di salvezza e compie, superandole, tutte le figure che avevano preparato la sua venuta: poichè non solo « annuncia la buona novella ai poveri e la liberazione dei prigionieri » ma distrugge alla radice il dominio della iniquità, del principe di questo mondo e del potere terreno che è una delle sue espressioni più prestigiose e più oppressive per l’uomo. Gesù non solo è annuncio ma espressione piena e realizzata della liberazione dell’uomo mediante la Croce: « beve il calice » doloroso e accetta di essere « battezzato » cioè tuffato nella morte, sacrificato, annientato, per fare fino in fondo la volontà del Padre. Si sostituisce a tutte le ostie, a tutti i sacrifici facendo dono di se stesso: « Eccomi, o Padre ».
A questo sacrificio liberatore Egli associa tutti i credenti, anzi tutto il mondo perché tutto in lui possa essere riscattato e salvato; ma alcune persone vuole gli siano associate in modo tutto particolare: sono i discepoli che Egli mette a parte e prepara perché diventino colonne della sua Chiesa, portatori e continuatori a titolo insostituibile della sua missione. E’ in ordine a questo che chiede loro se sono disposti a «bere il suo calice».
Ne deriva che il sacerdote non è un «privilegiato» nella Chiesa, non ha in essa un posto preminente di potere, di dominazione; è colui che è stato « messo a parte » per Cristo con un’azione sacramentale, associato in modo misterioso e di una intimità indicibile con l’azione sacrificale di Cristo perché non solo presieda l’assemblea liturgica o renda validi i segni sacramentali, ma perché con la sua vita si conformi al Cristo sempre presente in ogni celebrazione. Il suo unico privilegio è di « bere il calice » e di « essere battezzato » cioè immerso nella morte di Cristo, facendo della sua vita un dono per i fratelli, ordinato a una grazia e a un compito particolari nella Chiesa.
A questo si avvicina ora Don Pino. La condizione in cui sta per entrare è la più favorevole non a realizzare se stesso ma a immolare se stesso, a servizio del Regno di Dio e dei propri fratelli. Rinuncia a una famiglia propria per una più numerosa discendenza.
Sono pensieri elementari ma essenziali, quindi perennemente veri ma da tenere presenti in modo particolare ai giorni nostri. Ci si chiede qual è il preciso significato del nostro ministero, quale la nostra identità di sacerdoti. Non dobbiamo esitare a rispondere che di fronte al mondo noi non abbiamo carte per essere cercati, acclamati, avere un posto e un ruolo riconosciuti da tutti. La nostra sola carta è Cristo crocifisso segno di contraddizione, scandalo e follia per la saggezza di questo mondo.
Tutto questo ci crocifigge e insieme ci libera. Non abbiamo bisogno neppure di poter contare sulle nostre capacità e risorse naturali. Nulla è impossibile a Dio, nulla ci è impossibile per la grazia di Dio.
Gesù, nel Giardino degli Ulivi, nell’ora dell’angoscia più oscura, è stato confortato dal Padre e ne ha tratto la forza per pronunciare il suo « sì » alla volontà divina. Quel conforto è anche il nostro sostegno, la forza che ci fa andare tra i nostri fratelli e salire in croce per loro, la grazia che ci assicura una numerosa progenie.
21 ottobre 1973 celebrazione dell’Ordine presbiterale
ST 384 Ordini 73 –
stampa ” Da Dio a Dio un cammino di popolo e di persone” Mantova 1985 pagg. 287-289