Il Concilio Vaticano II è perentorio nell’affermare che: “… Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra ai loro, ma volle costituire ai loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse” (LG 9). Questa chiara volontà ai Dio corrisponde alla chiesa “plebs adunata” nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Cf LG 5).
Tutte le immagini bibliche, che il Concilio ha richiamato per descrivere il mistero e la realtà della Chiesa, accentuano aspetti particolari, tutte però convergono nella nota della unità nella carità.
Questo è il punto nodale del magistero del Concilio;concerne tanto la vita interiore della Chiesa quanto il suo aspetto istituzionale.
Questo di conseguenza è anche il punto su cui si gioca “l’aggiornamento” in vista del quale si è celebrato un evento così importante della storia della Chiesa, come è un Concilio.
Importa capire che la vita cristiana è la vita della Chiesa e che la Chiesa è la “plebs adunata” il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito.
Capire che il popolo di Dio non è costituito una volta per sempre dalla volontà del Padre, che il Corpo di Cristo non è un capitolo di teologia, che il Tempio dello Spirito Santo non è un preziosismo della vita mistica; ma che il popolo di Dio è la risultanza del convergere della dinamica dell’azione di Dio che chiama e della risposta dei membri di questo popolo i quali camminano verso l’unità; che il corpo di Cristo si compagina per l’azione del Capo e la libera adesione delle membra; che il Tempio dello Spirito si edifica nella zona più profonda della persona attraverso l’unica azione delle Divine persone, le quali diventano sorgente e modello dell’unità nell’amore.
Lo Spirito Santo amore infinito personale del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre: fa sì che l’unica salvezza destinata a tutti diventi un evento personale per ciascuno e svolge la sua “missione” di vivificare la Chiesa diffondendo nei cuori dei singoli la carità, la quale tende alla perfezione della unità.
Queste immagini, come già abbiamo rilevato, possono accentuare – ora l’aspetto interiore, soprannaturale della vita della Chiesa, – ora l’aspetto costitutivo della sua istituzione, – ma quando si tratta di ciò che è essenziale per la esistenza della Chiesa – l’unità nella carità deve sempre essere presente – sia per la sua vita interiore come per la sua costituzione esteriore, – che della prima è segno e strumento stabiliti da Gesù Cristo stesso, – il quale in questo senso ha dato compimento al disegno della volontà del Padre – e ne ha affidato la continuità al ministero della Chiesa – a cui è intrinsecamente legata la presenza e l’azione dello Spirito Santo.
Ora avvicinandoci al nostro discorso è indispensabile che tutti coloro che sono rivestiti del ministero sacro, Diaconi, Sacerdoti, Vescovi, abbiano chiara la finalità, la natura della loro azione: – non si tratta di santificare e salvare delle persone individualmente e senza alcun legame tra di loro, – ma di indicare e rendere possibile il cammino verso l’unità, – di far stare insieme i membri dell’unico popolo di Dio, – di inserire nell’unico Corpo di Cristo tutte e singole le membra, ciascuna secondo la propria funzione (cf per esempio: Rm l2,4), – di cementare nell’unico tempio di Dio nello Spirito le singole pietre viventi, secondo il disegno dell’unico Costruttore.
Come si vede l’azione mediatrice della Chiesa, – che ha il suo momento forte e insostituibile nel ministero sacro, – tra Dio che salva e gli uomini bisognosi di salvezza – ha una dimensione non individualista, “la salvezza delle anime”, – ma personale e comunitaria, quindi ecclesiale.
La fedeltà alla natura dell’uomo coincide con la fedeltà al piano di Dio. Educare l’uomo non in senso individualista ma personalistico comporta un’azione che tende a sviluppare in ciascuno ciò che è caratteristico della sua natura e specifico della sua personalità, cioè la sua potenzialità di rapporti col Padre, per mezzo del Figlio, sotto l’azione dello Spirito Santo; rapporti che si concretizzano e maturano rispetto a tutti i figli di Dio che sono i propri fratelli.
La dimensione ecclesiale, che costituisce il fine dell’azione del ministero sacro è così, il fine iscritto nella stessa natura dell’uomo che combacia con il Piano di Dio.
Il Concilio riprende in tutti i suoi documenti la dimensione ecclesiale e quindi comunitaria della vita cristiana: la Chiesa è l’universale comunione nella carità; lo Spirito Santo unifica la chiesa nella comunione; la piena unione con Cristo esige il vincolo della comunione ecclesiale. Questi sono alcuni riferimenti che dicono molto meno del contenuto da cui sono tratti.
E’ il grande tema della Chiesa-comunione come sgorga dal cuore di Cristo, di cui Giovanni raccoglie le effusioni più profonde (cf 15-17) e Paolo elabora specialmente nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. E’ ciò che ancora Giovanni annuncia con tanta solennità e gioia nella sua prima lettera: “Quel che abbiamo visto e udito, lo annunziamo anche a voi, affinché voi pure siate in comunione con noi. Ma la nostra comunione è col Padre e col suo Figlio, Gesù Cristo” (1,3).
Dunque la vita cristiana è questa unica comunione che ha la sorgente e il modello nella comunione tra le Divine Persone e raggiunge il frutto pieno della salvezza in quella che si matura tra i fratelli. Sappiamo anche come la comunione tra i fratelli, nelle parole di Gesù e nelle conseguenze che ne trae il discepolo prediletto, sia la misura della nostra comunione con Dio.
Unità nella carità
Nel presente discorso il tema della “communio” è richiamato per chiarire i rapporti Presbiteri-Vescovo e Presbiteri tra di loro. Ma non avrebbe senso se rimanesse isolato dal contesto della vita e della divina costituzione della Chiesa.
Solo perchè la vita cristiana è vita di Chiesa e solo perché la Chiesa è comunione ne deriva che i rapporti dei sacri ministri si inscrivano nel mistero della “communio”.
La parola “mistero” non mi è caduta dalla penna a caso: è la realtà con cui abbiamo a che fare.
La comunione dei sacri ministri è il luogo privilegiato e il momento forte in cui è presente e operante la “communio” divina a cui tutti gli uomini sono invitati ad ammessi (cf DV n2).
La comunione ecclesiastica è il segno e lo strumento della comunione ecclesiale.
Quanto ne sia strumento è molto esplicito e ribadito nel magistero del Concilio: il popolo di Dio è convocato per il ministero della parola; la celebrazione liturgica mirabilmente esprime ed efficacemente opera l’unità del popolo di Dio; l’azione dei sacri pastori è di condurre i membri del popolo di Dio verso l’unità.
Forse non è altrettanto chiaro in quale senso la nostra mutua carità sia “segno” della comunione nella Chiesa. Intanto bisogna attribuire alla parola segno non solo il significato di una certa esemplarità morale, ma il valore di manifestazione efficace di una realtà salvifica divina costitutiva dell’essere stesso del ministero nella Chiesa.
Il segno in questa accezione sta alla vita della Chiesa come l’umanità di Cristo nel mistero dell’Incarnazione.
Il fatto che Dio invisibile si sia manifestato, sia diventato uno di noi e abbia stabilità la sua dimora tra di noi e che gli uomini siano nella condizione di vederlo, udirlo, toccarlo (I Gv 1,1-3) è decisivo nella economia della salvezza.
Ora Cristo, che rimane con noi ed è presente ed operante nella sua Chiesa, deve poter essere udito visto, toccato nei “segni” della sua presenza attuale e salvifica.
Se il “sacramento” universale di questa presenza di Cristo nel mondo è la Chiesa, quello della sua presenza nella Chiesa è costituito, prima che dai sette sacramenti, dal sacramento (segno) della carità che unisce i sacri ministri.
Questo è il senso ultimo e profondo della “collegialità” dei Vescovi e della “unità” del Presbiterio.
Un Vescovo che non è in comunione con il Capo e con le membra del Corpo episcopale non è Vescovo.
Lo sarà tanto più quanto la sua comunione da affettiva diventa una realtà organica, che se richiede una forma giuridica non deve mai mancare di essere animata dalla carità (Cf nota praevia).
Una affermazione di questo genere può suscitare delle perplessità o potrebbe suonare esagerata.
Essa non fa che sottolineare uno degli aspetti più elementari della costituzione della Chiesa.
Lo stesso discorso vale per i Presbiteri in quanto sono i necessari collaboratori dei Vescovi. Forse questi potrà sembrare più facile se viene motivato dall’unico sacerdozio di Cristo. Ma pur essendo vero potrebbe rischiare di essere una motivazione funzionale e non esistenziale.
Sta di fatto che ciascun presbitero è membro di un corpo di cui è capo e centro visibile il Vescovo.
Però anche a questo proposito ciò che vale è la chiarezza.
Esiste nella tradizione della chiesa una frase felicissima “presidente della carità”.
Il Vescovo come il Papa, non presiede al suo Presbiterio alla maniera “dei re delle nazioni” (Lc 22,25): la sua potestà pur avendo un valore giuridico, è la forza dello Spirito con cui diventa il centro unificante della sua chiesa e a un titolo particolare del suo Presbiterio.
Se questa realtà deve essere viva nella coscienza del Vescovo per ispirare la sua spiritualità e la sua azione, deve essere altrettanto chiara nella coscienza di tutti i membri del popolo di Dio e in particolare dei Presbiteri.
Lo Spirito che opera nel Vescovo è dato a tutti i membri del popolo di Dio, con la varietà dei doni propria della sua sovrana e divina liberalità;
ai Presbiteri il dono dello Spirito è conferito per l’imposizione delle mani al fine preciso della edificazione della Chiesa.
Senza voler entrare in questioni tra la portata dei ministeri e dei carismi nella chiesa, ciò che va tenuto presente è il fatto che Cristo, a coloro ai quali affida il compito di evangelizzare, di santificare e di guidare dona in modo singolare il suo Spirito.
Ora è proprio la singolarità di questo dono, che comporta qualche cosa di costitutivo della personalità del Presbitero, che lo rende intrinsecamente e vitalmente orientato nel senso dell’azione dello Spirito che è quello di unire nella carità.
Quello della imposizione delle mani da parte del Vescovo e dei Presbiteri presenti al momento della ordinazione è un atto di “accoglimento” nell’unico Presbiterio della chiesa locale e di “missione” nell’unica responsabilità dei ministri dell’unico Salvatore della Chiesa.
Forse il discorso si è fatto lungo,ma non altrettanto chiaro. Più semplicemente: perché il Presbitero diocesano corrisponda alla sua natura, la quale è definita dalla natura del sacramento dell’Ordine, non basta l’unione col vescovo ma è necessaria allo stesso titolo l’unione dei Presbiteri tra di loro.
Proprio per ragioni di spazio qui non può essere sviluppato questo punto
che è il più decisivo per l’azione di rinnovamento della Chiesa.
Esigenza di Unità
Lo Spirito così evidentemente attivo oggi nella Chiesa risveglia con forza questa esigenza di comunione presbiterale.
E’ un sintomo di grande autenticità nell’ambito della Chiesa.
Va guardato con molta attenzione ed esige che nulla sia trascurato perché possa svilupparsi e maturare.
Insieme a questa attenzione responsabile bisogna difendersi da due estremi: l’idealismo e il pessimismo.
L’unità nella carità è un traguardo affascinante, ma molto difficile da raggiungere: c’è di mezzo una certa formazione che ignorava la dimensione comunitaria della vita spirituale e soprattutto lo scoglio dell’egoismo radicato nel fondo di ciascuno di noi.
Tutto questo è un serio e forte impedimento per dare il giusto risalto al valore della carità presbiterale.
Non bisogna stupirsi e non bisogna arrendersi: la grazia che ci salva è più forte della nostra incomprensione e della nostra resistenza.
E’ chiaro che i mezzi della grazia devono essere attivi nella nostra vita.
Non esiste una carità cristiana al di fuori dell’azione dello Spirito Santo che la diffonde nei cuori e della nostra attenzione, fedeltà e impegni, i quali comportano spirito di preghiera e di distacco.
Poi la carità presbiterale non consiste principalmente in una forma di vita.
E’ vero che certe espressioni di vita comunitaria la favoriscono e la alimentano.
Ma mentre non bisogna trascurare nulla per l’attuazione delle forme di vita comunitaria, deve essere impegno comune quello di alimentare la carità e di esprimerla nei modi possibili: amicizia leale, collaborazione, iniziative di gruppo, disponibilità, senso di corresponsabilità.
E ora tronchiamo il nostro discorso: qualcuno potrebbe pensare che al secondo punto, quello del servizio nella Chiesa, non si è neppure fatto cenno.
Mi permetto di richiamare l’attenzione su una affermazione che non vuole essere sbrigativa, ma che a mio avviso richiede tutta la nostra attenzione: oggi il primo e specifico servizio che i nostri fratelli richiedono da noi è quello di costatare che Cristo è vivo nella sua Chiesa
dal momento che i suoi discepoli si vogliono veramente bene.
MN 336 Comunione e servizio 70
per rivista Presbitery – trovo solto il maonoscritto (SL)