incontro con i sacerdoti
Loano 15 – 19 Febbraio 1971
Anche per il peccato noi dobbiamo fare lo sforzo di comprenderlo secondo il tipo d’esistenza nuova nel quale Dio ci ha trasferiti per sua misericordia.
Per comprendere come questi giorni debbono essere un momento particolare della nostra conversione, è indispensabile capire, prendere coscienza, avere il senso della nostra situazione di peccatori, avere, come si dice, il senso del peccato.
Ora, miei cari, noi dobbiamo veramente aggiornarci. Qualcheduno ha paura del concilio e invece noi dobbiamo avere un’illimitata fiducia e confidenza nel Concilio e nelle conseguenze del Concilio. Tra l’altro, come già vi ho detto, il Concilio ci ha portato alle sorgenti della Rivelazione, ad un contatto più diretto con la Sacra Scrittura e perciò ad un senso più vero delle cose della nostra fede.
Conseguentemente anche per il peccato noi dobbiamo fare lo sforzo di comprenderlo non secondo le definizioni dei nostri manuali di una teologia morale tipo Genicot che pure era un grande moralista, non secondo un’abitudine alla casistica che era molto diffusa in mezzo a noi in conseguenza di una certa concezione del peccato razionalistica, in fin dei conti naturalista, che prescindeva dalla storia della salvezza, dalla situazione nuova, dal tipo d’esistenza nuova nel quale Dio ci ha trasferiti per sua misericordia.
E allora dobbiamo essere capaci di spogliarci di tutto questo modo di concepire che pur non essendo sbagliato in se stesso, è sbagliato riferito alla rivelazione e al cuore della rivelazione, a ciò che vi è di più profondo nella Rivelazione, a quello che è il tema fondamentale della rivelazione: l’amore di Dio Padre, se volete, l’amore paterno di Dio per noi costituiti suoi figli veri. Solo partendo da questa realtà, lasciatemi dire dalla storicità perché è un fatto storico la manifestazione dell’amore paterno di Dio per noi costituiti figli suoi, noi possiamo acquistare il senso vero del peccato.
Già nell’Antico Testamento, specialmente alla fine della predicazione profetica, il peccato appare essenzialmente come violazione di rapporti interpersonali. Il peccato non è definito tanto per i singoli atti o per determinati atti ritenuti buoni o malvagi, ma riguarda i rapporti tra le persone, riguarda le persone che poi esprimono se stesse nei loro rapporti con Dio, con le creature di Dio, con i figli di Dio. Il peccato ha una dimensione essenzialmente personale, si misura dalla persona: dalla persona di Dio prima di tutto, e dalla nostra persona come è concepita da Dio. Non cadiamo con questo nel soggettivismo, perché Dio è qualcosa di oggettivo, la persona è qualcosa di oggettivo.
Noi molte volte l’Antivo Testamento l’abbiamo lasciato andare. Abbiamo pensato che il Dio dell’Antico Testamento fosse un Dio corrucciato, una specie di Giove tonante. Letteralmente parlando l’amore paterno di Dio, il suo amore misericordioso è descritto molto più diffusamente nell’Antico Testamento che nel Nuovo Testamento – letteralmente parlando si capisce – perché quanto al significato il Nuovo Testamento porta con sé la pienezza della Rivelazione in Gesù Cristo. Pensate a certe descrizioni dei profeti, in particolare, per esempio, Osea.
E quindi sempre ancora nell’Antico Testamento noi troviamo che il peccato è il rifiuto dell’uomo di lasciarsi amare da Dio. Il primato è l’amore di Dio. Ciò cui dobbiamo riferirci è l’amore di Dio, è il rifiuto di lasciarsi amare da Dio, non tanto il rifiuto di amare Dio. Mettiamo un pochettino a posto le cose, perché Dio non è toccato né dai nostri peccati, né dal nostro amore. Ecco dove si supera l’ordine naturale, ecco dove si supera un piano razionale, ecco dove si entra nella profondità del mistero del “tutt’altro”, che è Dio: il rifiuto dell’uomo di lasciarsi amare da un Dio che soffre di non essere amato.
leri abbiamo parlato della festa di Dio per un figlio peccatore che ritorna, della gioia di Dio. Parlando del peccato rettamente, secondo la Rivelazione, secondo il linguaggio della Rivelazione, noi non ci troviamo di fronte ad un Dio impassibile (date il significato giusto alle mie parole). Così si rivela Dio: un Dio che soffre di non essere amato, un Dio che l’amore ha reso vulnerabile al fatto di essere amato o di non essere amato. Ripeto: siamo al livello della rivelazione dell’Antico Testamento.
Nel Nuovo Testamento la Rivelazione raggiunge la sua pienezza in Cristo, allora scopriamo che cosa ha fatto l’amore di Dio per superare il peccato e siamo nella condizione di scoprire la vera dimensione dell’amore di Dio, il suo primato nel piano che la sua sapienza infinita ha concepito per la nostra salvezza.
Un autore recente fa questa osservazione, che mi pare molto pertinente: se Dio fosse il Dio dei filosofi (lui dice le cose in un altro modo; io cerco di dire il suo pensiero), l’assoluto, il Trascendente, l’Infinito, l’onnipotente ecc. e noi fossimo le creature di Dio che abbiamo offeso Dio, dal momento che siamo creature, Dio ci deve prendere come creature, e allora quando abbiamo fatto un atto contrario a quello dell’offesa noi ritorniamo ad essere nell’ordine come prima.
Facciamo un esempio più pertinente, più facile da ammettere, anche secondo le nostre categorie mentali. Se io faccio un’ingiuria ad una persona sconosciuta, quando ho compiuto tutto quello che mi prescrive la legge, l’equità, la giustizia per riparare quell’ingiuria, io sono a posto, lui se ne va per la sua strada, io me ne vado per la mia strada, non c’è più niente. Ma quando io ho offeso un amico, ho fatto un’ingiuria ad un amico, non è più sufficiente che io faccia un atto contrario a quell’ingiuria, non é più sufficiente che ripari alla lettera secondo una misura di giustizia per quell’ingiuria. Se arrivo soltanto a questo punto, l’altro rimane l’altro, non è più il mio amico.
Se voglio rientrare in un rapporto di amicizia con l’amico, io devo fare molto di più, dovrò moltiplicare i miei atti di amicizia, dovrò essere perseverante nei miei atti di amicizia, dovrò essere capace di esprimere la mia amicizia con aiuti convenienti, perché l’ingiuria, in questo caso, non è un’ingiuria fatta ad un altro qualsiasi, ma è fatta ad un amico. Pensate ad un’ingiuria, fatta al proprio padre, alla propria madre quale gravità assume e comprendete che la rottura dei rapporti dipende dalla natura dei rapporti stessi che si hanno con le persone.
Ora il rapporto tra Dio e noi è quello di un Padre che ci ha amato, quando noi eravamo ancora suoi nemici. Non ci ha amato per la nostra bella faccia perché eravamo buoni, perché meritavamo il suo amore. Ci ha amati quando ancora noi si era nel nostro peccato e continua ad amarci anche quando siamo nel nostro peccato.
Il padre del figlio prodigo, che è una figura del nostro padre che sta nei cieli, non si è offeso perché il figlio e andato lontano. Ha solo sofferto. Il suo amore per questo figlio è diventato un amore sofferente, un amore di attesa ostinata, perché credeva al proprio amore di padre, alla forza del proprio amore di padre, che un giorno o l’altro avrebbe attratto il figlio, avrebbe creato una nostalgia nel suo cuore al ricordo del suo amore.
Direte: non c’è l’offesa di Dio nel peccato? Sì, c’è l’offesa di Dio, ma non c’è un Dio offeso, se possiamo esprimerci paradossalmente. Dio che ci ama quando siamo ancora nel peccato, Dio che manifesta la potenza del suo amore soprattutto perdonando, è il senso di una preghiera che si legge dopo pentecoste nel vecchio messale. La Chiesa prega come crede. Dio in queste condizioni ci darà il suo figliolo: “sic Deus dilexit mundum ut filum suum unigenitum daret”. Dare vuol dire mandarlo in croce. E’ qui dove si misura la dimensione dell’amore del Padre nostro che sta nei cieli. Per questi figli prodighi dà il suo unigenito, fino al limite estremo della donazione nell’annientamento doloroso, che si compie sulla croce.
I nostri teologi discutono parlando in termini di riparazione, in termini giuridici, nel senso di mettere le cose a posto e dicono, Gesù Cristo essendo Figlio di Dio poteva salvarci con un sospiro, con una lacrima. Non guardiamo alle ipotesi. Guardiamo i fatti; stiamo alla storia, acquistiamo il senso della storia in tutti i sensi, in tutti gli ambiti, ma particolarmente nell’ambito della storia della salvezza. Ma che sospiro! Ma che lacrima! Tutto se stesso! Ha preso la forma di “servo”, si è annientato fino alla morte e alla morte di croce; questa è la misura dell’amore ed è anche la misura del peccato.
Non so se riesco a rendere questo pensiero, ma voi lo capite. Il peccato è un rifiuto dell’amore di Dio che porta come conseguenza la morte in croce del figlio di Dio! Per chiarire in noi il senso del peccato, rifacciamoci a qualche elemento all’insegnamento di Gesù, in particolare alla parabola del figliolo prodigo, quella che descrive meglio il peccato. Guardiamolo meglio il peccato nei suoi due momenti, cioè, il peccato come rapporto. Il peccato come rapporto implica la presenza di due persone, dell’io e del tu, il tu che è dio e l’io che sono io, il tu che è la persona del Padre e l’io che è la mia persona. Nella parabola del figliolo prodigo, non dobbiamo mettere l’accento sul figliolo che se ne va dalla casa, ma sul padre, che rispetta la libertà del figlio, libertà sbagliata fin che volete: “da mihi portionem”!
I padri quando ci predicavano gli esercizi, arrivati a questo punto si esprimevano con un linguaggio pittoresco: fossi stato io gli avrei detto girati e gli avrei dato un calcio là dove il corpo non prende mai il sole e l’avrei mandato a spasso. Eh, no! Questo padre non oppone resistenza. Questo padre soffre come può soffrire un padre che vede il figlio andarsene, questo padre sta in alto, in una posizione da dove è possibile scorgere questo figlio che va lontano e tiene lo sguardo fermo sull’ultimo punto in cui ha potuto scorgerlo per vedere se riappare di nuovo, questo padre non permette al figlio di esprimere quei sentimenti che ha concepito durante il ritorno “padre, ho peccato contro il cielo e contro di te”! Questo padre gli butta le braccia al collo, non lo lascia parlare ma parla lui con i gesti del suo cuore con le espressioni che dicono la sua gioia, chiama i servi, fa portare le vesti nuove, gli mette l’anello al dito, imbandisce il banchetto più sontuoso, questo padre fa festa perché il figlio è ritornato ed è una festa che è il riflesso della misura del dolore perché era partito.
Il peccato è il rifiuto di questo padre
Il peccato è il rifiuto della paternità di Dio
Il peccato è il rifiuto di stare nella casa del padre con tutti i suoi famigliari
Il peccato é anche il rifiuto del fratello buono. Non aveva capito il privilegio di essere stato sempre col padre, nella casa del padre con tutti i familiari. Guardate che è sottinteso il rifiuto, per esempio della preghiera, dell’intrattenersi con Dio: il nostro Padre.
Il peccato è il rifiuto dei beni di Dio, quindi è il rifiuto della figliolanza, è il rifiuto di essere figlio che fa dire: io me ne vado per i fatti miei, non m’importa di chi sono figlio. Sono io! E’ il senso dell’autosufficienza, della indipendenza, del rifiuto di essere figlio, quindi del rifiuto di tutto ciò che costituisce uno figlio. Noi lo sappiamo, attraverso la rivelazione, in che cosa consista tutto questo. San Paolo dice: eravate senza Cristo.
Chi commette il peccato rifiuta Cristo, rifiuta l’incarnazione e la filiazione divina, rifiuta di essere figlio, rifiuta tutti i doni della rivelazione, rifiuta la vita nuova, la partecipazione ai rapporti nuovi di figlio e padre, rifiuta i doni della fede, della speranza, della carità, che sono il “modo nuovo” della nostra esistenza.
Separati dalla comunanza di Israele. Ieri abbiamo detto: la persona ha una dimensione ecclesiale. Uno, con il peccato, si separa dalla chiesa, si separa dai propri fratelli perché il peccato è sempre una separazione. Essere costituiti figli di Dio comporta la comunione con Lui, con tutti i suoi figli e le creature. Se c’è un rifiuto, c’é una separazione. Si va fuori della comunione della Chiesa, chiamiamola pure comunione dei santi, estendendo il concetto di Chiesa a quella della terra e del cielo.
Il peccato ci fa estranei ai patti della promessa. Noi siamo già, e siamo ancora, e lo saremo ancora e vedremo quello che saremo, per l’impegno della parola di Dio che è legata alle sue promesse, quindi siamo privi di speranza, senza nessuno a cui rivolgersi che dia la sicurezza della stabilità, della continuità e soprattutto dell’amore. Il peccatore è uno privo di speranza. Vedete che chi non crede, che chi è senza Dio in questo mondo arriva alla disperazione o alla droga.
Vi ho detto ieri, miei cari: guardate che nel mondo, come non mai, ci sono i “senza Dio” e sono proprio nel nostro mondo occidentale e nel nostro mondo cristiano. La ragione che sta alla radice è questa: guardate che sta nel fato che abbiamo presentato agli uomini un Dio senza uomini, un Dio non interessato agli uomini, un Dio non interessato ai problemi degli uomini. Eravamo più preoccupati di difendere la dottrina della proprietà privata che della dottrina della dignità e del valore della persona umana. Almeno stabiliamo una gerarchia! Almeno diciamo che la prima è uno strumento per la seconda! Ecco, anche questo è un peccato.
Allora comprendete un’altra cosa che mi pare molto importante: non cambia la morale, il peccato é sempre peccato, ogni atto peccaminoso é sempre peccato. Adesso mettiamo il senso della morale in ordine ai nostri rapporti con Dio, in ordine al fatto che Dio é nostro padre e che noi siamo in suoi figli. Rompere questi rapporti é il peccato e non si può dire che sia più grave il peccato veniale di quello mortale. Il peccato mortale è un atto che sconvolge, che turba, che normalmente genera rimorso – io non parlo di stato di peccato, ma di atti di peccato – quindi non lascia tranquilli, suscita il bisogno di toglierlo, di andare a cercare il perdono, di mettere la coscienza a posto. E’ poco, ma è qualcosa.
Il peccato veniale è una disposizione abituale, è una disposizione di fondo che trascura il valore dell’amore paterno di Dio, che allenta i rapporti di figliolanza nei confronti di Dio, che impoverisce la capacità di rispondere all’amore di Dio che impedisce di rispondere all’amore di Dio con la totalità incondizionata del nostro amore, con la santità della nostra vita. Il non tendere alla santità è il peccato cristiano.
Abbiamo mutilato il cristianesimo con la preoccupazione di mettere in grazia di Dio le persone, con la preoccupazione non abbiano il peccato mortale sull’anima. Con questo fine abbiamo fatto i ritiri di perseveranza, le missioni e tante altre cose. Per carità, non parlo male dei ritiri di perseveranza, delle missioni o altro. Io li ho favoriti specialmente quando ero in Puglia. Sono più cauto con le missioni concepite nel modo tradizionale quando si dava molta importanza al numero delle comunioni, dei primi venerdì del mese, delle confessioni per mettere in grazia di Dio e il limite era solamente il non avere peccati mortali sull’anima.
Che cosa significa essere in grazia di Dio? Siamo arrivati a dire e l’abbiamo insegnato agli innocenti che essere in grazia di Dio, significa non avere peccati mortali sull’anima, piuttosto di dire che essere ingrazia di Dio: é essere nel vivo dell’amore paterno del nostro Dio, è essere nel cuore di Dio nostro Padre, è essere i figli della predilezione. Quindi noi abbiamo proposto la vita cristiana del non peccato mortale e non quella dell’amore paterno di Dio.
L’amore di Dio, l’abbiamo predicato alle suore e non tanto ai preti dal momento che sono uomini e quindi sono delle persone serie. Andare a cercare l’amore? Che non amino le donne, questo sì! Ma che amino Dio come un Padre? No, non andiamo a finire nel sentimentalismo!
Miei cari, saremo giudicati sull’amore: sull’amore verso il Padre e sull’amore verso i fratelli.
OM 347 Loano 71