E’ Dio che salva e compie
le opere meravigliose della nostra storia
Monopoli, 30-31 Gennaio 1966 – 1 febbraio- n.3
Umiltà Obbedienza. L’ultimo punto sul quale c’intratteniamo, per quest’incontro sul decreto del ministero e della vita del sacerdote vuole essere uno sguardo sulla funzione dei consigli evangelici nel ministero e nella vita del sacerdote. Teniamo sempre presente lo svolgimento del nostro ministero che deve diventare lo strumento primo, l’occasione prima per la nostra santificazione specifica, per la nostra spiritualità sacerdotale.
Ora vediamo quale parte hanno i consigli evangelici, dal momento che non sono poi tanto dei consigli o meglio, non sono consigli soltanto nel senso che sono consigliati, ma sono delle condizioni indispensabili che si possono praticare o professare in modo diverso, per raggiungere la perfezione della vita cristiana in qualsiasi stato. Quindi: altra é la pratica dello spirito – almeno – dei consigli evangelici di quelli che rimangono nel mondo, altra é la professione religiosa dei consigli evangelici nello stato religioso, altra é la pratica dei consigli evangelici nello stato ecclesiastico.
Teniamo sempre presente l’edificazione dell’unica chiesa di Cristo:— l’unico sacerdozio con cui Cristo edifica la sua chiesa;— l’unità nella carità che caratterizza, di conseguenza, il mistero della vita della chiesa;— la sollecitudine che deve animare la carità pastorale per l’unica e quindi, per tutta la chiesa di Cristo;— sono le ragioni teologiche che mettono in luce la” funzione liberatrice” – espressione di Paolo VI – dei consigli evangelici nel ministero e nella vita del sacerdote.
Questa funzione liberatrice é appunto quella che ci dà la libertà di essere distaccati dal mondo e di essere nella situazione di dedicare noi stessi, più sollecitamente, per gli interessi del Padre e per il bene dei nostri fratelli. Di questi consigli evangelici, di queste virtù anche morali, il decreto ne nomina esplicitamente quattro: l’umiltà, l’obbedienza, la castità e la povertà.
Si comincia dall’umiltà.
Di fatto anche Paolo, nella lettera agli Efesini in particolare, quando arriva alla conclusione pratica dopo aver esposto il piano di Dio che si edifica nella carità, dice: “perciò camminate, secondo la vostra vocazione con umiltà e pazienza sopportandovi gli uni gli altri, donando voi stessi” ecc. La prima disposizione é dunque quella dell’umiltà. Umiltà concepita non soltanto nei nostri rapporti con Dio. Questa é virtù morale comune a tutti. Umiltà concepita non soltanto nei rapporti coi nostri fratelli, ugualmente virtù morale indispensabile per tutti. Ma una umiltà che é motivata alla radice e che ha anche la sua grazia particolare. Ogni stato porta con sé una grazia particolare, perché una disposizione morale necessaria per vivere convenientemente in uno stato é sempre accompagnata dalla grazia del Signore. La nostra umiltà si lega proprio al nostro ministero.
Le nostre funzioni ministeriali: la funzione profetica, la funzione sacerdotale, la funzione regale, per la loro origine da chi derivano? Derivano da Dio. Non sono un potere degli uomini. Sono dei poteri di Dio. Non sono poteri del popolo conferiti ai loro rappresentanti, ma noi siamo rappresentanti di Dio presso gli uomini. E’ da Dio che siamo stati eletti per la loro natura, per le loro esigenze: la natura della parola,
la natura degli strumenti della grazia, la natura della nostra potestà sopra la chiesa.
Perché producono frutto gli atti del nostro ministero? Perché provengono da un’istituzione divina. Perché provengono da Dio. Sono del tutto trascendenti queste funzioni. Sono trascendenti le nostre capacità e quindi il nostro merito. Perciò di fronte alle nostre funzioni sacerdotali noi dobbiamo avere veramente quella disposizione espressa da san Giovanni Battista “E’ necessario che Lui cresca e che io diminuisca”. E’ necessario che Cristo si imponga totalmente e che noi scompariamo totalmente. E’ l’altro pensiero di san Paolo “mi glorio nelle mie infermità, della mia debolezza perché si manifesti la forza di Cristo”. E’ una disposizione morale che deriva direttamente dalle nostre funzioni sacerdotali. E’ una umiltà particolare la nostra.
Con questo termine “particolare” vorrei dire un’altra cosa. Questo deriva da un proposito generale di Dio che: ha scelto le “cose che non sono” per confondere “quelle che sono”, ha scelto le cose deboli per confondere le cose forti. Tutto il comportamento di Dio, dai primordi della storia della salvezza sino alla fine dei tempi, sarà sempre questo: é Lui che salva, é Lui che compie le opere meravigliose della nostra storia, é Lui che produce gli effetti soprannaturali di salvezza in ciascuno di noi. Perciò lo strumento non deve sostituirsi a Dio. La superbia nell’esercizio del ministero sacerdotale é un peccato certamente più grande di un atto di superbia di uno qualsiasi che vuole mettersi al di sopra degli altri per motivi d’ambizione.
Qui ci sarebbe qualche cosa da dire. La storia ha la sua importanza che, si può dire, scopriamo ai nostri tempi. Oggi il senso storico s’impone in tutti gli ambiti della vita, della cultura e dell’organizzazione sociale. S’impone la storia anche a riguardo della vita della chiesa. Dobbiamo ottenere ragione dei motivi storici. Dobbiamo tenere presenti le ragioni storiche.
Da Costantino in avanti le funzioni ecclesiastiche sono diventate anche funzioni civili e l’autorità ecclesiastica é diventata anche l’autorità civile che doveva servire per l’unità dell’impero. Tanti segni esteriori, che erano proprio delle autorità imperiali quindi civili, sono diventati anche i nostri segni: il trono, il pastorale, gli anelli. A parte che possono avere anche un altro significato, la loro origine non é del tutto liturgico – sacramentale. Questo ha influito e ha fatto sì che – vedi il sacro romano impero – lo stato ecclesiastico diventasse uno stato sociale e quindi anche le azioni annesse allo stato ecclesiastico, alla condizione clericale, sono diventate delle funzioni che mettevano “sopra” agli altri non nel senso dell’edificazione della chiesa, ma anche nel senso dell’edificazione della società civile.
Questo non é ancora scomparso del tutto. C’è – come dicono – una vischiosità nella continuazione delle istituzioni, nelle strutture che ben difficilmente si sciolgono del tutto con l’andare del tempo. Noi per lo meno siamo nella scia, nella “coda” di questa vischiosità. Dobbiamo tenere conto anche di queste cose quando ci mettiamo di fronte ai nostri fedeli e le nostre disposizioni devono corrispondere alle intenzioni di nostro Signore Gesù Cristo e non alle conseguenze delle vicende storiche. Dovrebbe essere tanto naturale, in conseguenza di questo spirito di umiltà, il senso sincero di servizio sull’esempio di Gesù. “Exemplum dedi vobis”. Lo dice in un modo categorico nostro Signore Gesù Cristo ai suoi apostoli e si era inginocchiato davanti a tutti. Un altro richiamo esplicito: “Discite a me quia mitis sum et humilis corde. Basta questo per l’umiltà!
Obbedienza
“Preparare a Dio un popolo accetto che gli dia gloria in mezzo a tutte le nazioni” é la suprema ragione del nostro ministero. Questo é il bene comune a cui va riferito ogni interesse particolare e individuale.
Cerchiamo di scoprire con chiarezza i motivi dell’obbedienza sacerdotale che, come ho detto altre volte, non sono gli stessi della obbedienza religiosa o gli stessi di un’obbedienza generica nei rapporti umani tra quelli che hanno un motivo di “essere al di sopra” e quelli che hanno un motivo di “essere al di sotto”. Vedi superiori civili, nell’ordine della cultura, e nell’ordine naturale come sono nei genitori. Cerchiamo le ragioni della nostra obbedienza.
L’unità organica che sta come base dell’esistenza di questo popolo che dobbiamo preparare, richiede l’unità gerarchica con cui é edificato questo popolo, la quale é ordinata in modo sacramentale dalla consacrazione presbiterale. Si tratta di rispettare il senso, il significato di un sacramento. E’ dalla natura, dal significato, dalle funzioni del sacramento dell’ordine che noi dobbiamo dedurre i motivi della nostra obbedienza.
Ci sono anche motivi che derivano da una legislazione canonica. Sono motivi estrinseci (esteriori) che hanno il loro valore, ma la ragione profonda e il valore determinante é dato dalla condizione in cui noi veniamo a trovarci in conseguenza della consacrazione.
Vorrei essere capace di esporre con chiarezza le conseguenze che derivano dalla consacrazione, dall’ordinazione sacra.
Il sacramento dell’ordine conferisce i poteri ministeriali in dipendenza dal vescovo perché é tramite il vescovo che si ricevono questi poteri. La consacrazione e conseguentemente questi poteri si ricevono in dipendenza dal vescovo, ma come estensione e prolungamento e quindi come aiuto per il vescovo, per gli uffici del vescovo stesso. Non é che il vescovo sia in condizione di poterne fare a meno. E’ essenzialmente indispensabile il ministero del presbitero per l’edificazione della chiesa.
Ieri, nella rivista del clero leggevo di uno che fa una chiosa al problema delle vocazioni e dice che nella chiesa può mancare tutto: i vescovi, gli ordini religiosi, l’azione cattolica, le associazioni di qualsiasi genere ecc, ma se c’è il prete c’è tutto! E’ un’affermazione praticistica che può avere il suo valore, ma intanto non potete ammettere che esista il prete senza il vescovo e non soltanto perché il vescovo ha la funzione di conferire gli ordini. Nella chiesa si è verificato il caso, come ci é dato storicamente, che i vescovi conferivano gli ordini sacri e poi se ne stavano in casa propria o in sedi diverse dalle loro chiese. Che cosa é avvenuto? Noi sappiamo cosa è avvenuto per esempio prima del concilio di Trento. Le cose non vanno tanto bene quando manca la presenza del vescovo, ma é certo che il vescovo ha bisogno del presbitero. La dipendenza é reciproca, non mette soltanto sopra o sotto, prima o dopo. Mette su una linea di prolungamento, di aiuto e non solo terzo, come incremento del corpo presbiterale.
Io non dico che sia di essenza che all’ordinazione di un presbitero debbano essere presenti gli altri presbiteri che pongano le mani sul capo dell’ordinando, ma non si deve neppure ridurre al valore di una semplice rubrica, perché nella intenzione della chiesa storicamente é provato che questo gesto significa l’accoglimento del nuovo eletto nel corpo presbiterale. Quindi, da quel momento, l’ordinato non é prete davanti a Dio e per proprio conto, ma lo é con tutti gli altri.
Qui si verifica qualche cosa di analogo a quello che si verifica per la consacrazione episcopale che, normalmente deve essere fatta da tre vescovi a significare che egli, in conseguenza della consacrazione, diventa membro di un corpo. Un Vescovo non é vescovo per proprio conto. E’ membro di un corpo, é legato a tutto il corpo episcopale e, se non é in comunione con tutti i vescovi della chiesa, non é vescovo della chiesa. Tanto più sarà vescovo della chiesa, tanto più sarà efficiente il suo ministero di vescovo della chiesa quanto più la sua comunione sarà stretta, non semplicemente con il corpo episcopale, ma con il Corpo e con le membra. Io direi: con le membra e con il Capo.
Senza volere insistere su punti di vista particolari, se per la completezza tutto questo ci vuole per i vescovi. Analogamente tutto questo ci vuole per i sacerdoti. Allora ognuno dovrebbe chiedersi: nell’esercizio del mio ministero, la mia azione deriva proprio dall’azione del vescovo?
E’ una domanda posta in modo astratto. Non so come si potrebbe concretizzare. Forse si potrebbe concretizzare così. Svolgo il mio ministero secondo le direttive – per dirlo in parole povere- del mio vescovo? Oppure svolgo il mio ministero secondo i miei punti di vista? Il decreto dice esplicitamente che non é proibito ad uno di prendere delle iniziative nuove, ma queste le deve proporre, sottoporre, chiedere una certa approvazione -almeno di massima- al proprio vescovo, “ad esperimentum” perché queste iniziative si inseriscano nel corpo di tutte le iniziative che ci sono in quella chiesa.
Seconda domanda che uno dovrebbe farsi. Veramente io, col mio ministero prolungo, estendo, rafforzo l’azione del vescovo? Oppure il mio ministero si svolge ordinatamente ma senza tenere conto che sono il prolungamento, l’espansione, l’aiuto di cui il vescovo ha bisogno?
Terza domanda. Sono in comunione fraterna con tutti i membri del presbiterio? Il fatto si verifica nelle proporzioni che corrispondono a quell’analogia a cui abbiamo accennato per le chiese, che in occidente non sono acefale nel senso orientale, nel senso che non accettano nessuno che abbia una giurisdizione sopra di loro, ma coltivano moltissimo la comunione tra loro e la comunione tra loro é una cosa normale. Da noi la chiesa locale é concepita dipendente dall’autorità del Sommo Pontefice, ma molto poco in comunione con le altre chiese.
Qui mi pare che ci sia qualche cosa da correggere e purtroppo non tanto dogmaticamente, ma come disposizione spirituale, come atteggiamento spirituale. – I confini rigidi delle diocesi, – la non comunicazione delle diocesi tra di loro, – il non scambio di esperienze e di iniziative, – la non concordanza o la non coordinazione di azione pastorale, – l’incardinazione dei sacerdoti, – l’istituto della inamovibilità dei benefici, eccetera, sono tutti sintomi di una mancanza di comunione con tutti gli altri. Io faccio il prete nella mia parrocchia. Ecco il vecchio modo di esprimersi un po’ egoistico. Non che le cose si intendessero in questo modo…ma tant’é! La mancanza di comunione, non farsi scrupolo di non essere in comunione con gli altri, non é una semplice raccomandazione che ci veniva dai predicatori di esercizi spirituale, i quali dicevano che tra le virtù dei sacerdoti e dei religiosi era necessaria anche la carità. Qui non si tratta di una semplice virtù morale ma di un fatto istituzionale a cui deve corrispondere la disposizione morale della carità vicendevole.
Inquadrate in questo senso quell’unità organica, quel legame vicendevole tra di voi e col superiore e il legame del superiore rispetto a tutti membri del corpo episcopale e da qui può venire fuori non dico una definizione, ma un concetto della ubbidienza ecclesiastica. Non bisogna poi dimenticare che l’obbedienza, come virtù morale da inserirsi nelle disposizioni che devono animare i nostri rapporti, ha un suo valore salvifico e ascetico indistruttibile nella concezione della vita ecclesiastica e della vita cristiana in genere. Basta ricordare che Cristo di cui noi partecipiamo il sacerdozio si é fatto obbediente fino alla morte. San Paolo aggiunge: “Come, infatti, per la disobbedienza di uno molti furono costituiti peccatori, così per l’obbedienza di uno solo, moti saranno costituiti giusti”.
Castità
La castità perfetta e perpetua per il regno dei cieli. Ecco una motivazione subito soprannaturale alla quale ci chiama il decreto! Il concilio non ne parla soltanto a questo punto, ma ripetutamente ne parla nella Costituzione della chiesa, nel rinnovamento della vita religiosa anche se per un’altra motivazione. Ma qui in particolare lasciamo da parte la questione del presbiterato, che sì o no potrebbe essere congiunto anche con lo stato coniugale. Le cose nella chiesa latina stanno così e (tutti) il concilio ha giudicato che debbono stare in questo modo.
Nella chiesa latina, chi vuole accedere agli ordini sacri sa che questa é una condizione inderogabile, tanto che la chiesa preferisce ormai sciogliere dal vincolo del così detto celibato ecclesiastico, piuttosto di ammettere che uno continui ad esercitare il sacerdozio in un altro stato. Questa perfetta castità dovrebbe essere perfetta. Io ritengo che lo sia. Questa castità abbracciata generosamente e lodevolmente osservata, dice il decreto, non deve essere un motivo di tristezza, ma di gioia e non deve essere un qualche cosa che si assume in qualche modo, ma che si assume con tutta la responsabilità e con tutta la fedeltà. Perché questo possa avvenire, ritorniamo al motivo della castità sacerdotale che deve essere per il regno dei cieli.
Qui si verifica la parabola: il regno dei cieli é simile ad uno, il quale avendo scoperto un tesoro, va, vende tutto quello che ha, ritorna, compera il campo per assicurarsi il tesoro. O si é scoperto il tesoro del regno dei cieli, con tutto il senso dell’ampiezza di questa espressione e allora si fa la scelta e si abbandonano determinati valori positivi. La castità inculcata per motivi negativi non regge. La castità deve essere motivata e deve trovare la motivazione nel soggetto per dei motivi soprannaturali più validi che, al confronto dei valori e dei motivi naturali, abbia una rilevanza netta e chiara, e una consistenza per tutta la vita, per tutta la esistenza.
Certo è che qui si pone il problema della scelta e delle condizioni in cui questa scelta viene fatta: l’età, la maturazione psichica, una visione esatta della vita del mondo ecc; la preparazione nei seminari, con tutte le conseguenze che ne derivano a questo proposito, perché la scelta sia fatta in un modo del tutto cosciente, del tutto libera. Non basta firmare quel famoso biglietto prima del suddiaconato, se realmente non esistono queste condizioni. Perché la chiesa latina insite tanto nel legare la castità perfetta e perpetua a l’ordine sacro? Per questi motivi.
Perché c’è una convenienza, un convenire estremamente prezioso del tutto adeguato tra l’ordine sacro e questo stato di perfetta e perpetua castità. La castità, dice il decreto, é segno della carità pastorale, cioè la carità che ci mette a disposizione degli altri per un servizio che li aiuti ad entrare nel regno dei cieli. Questa carità è per trovarci il più perfettamente liberi che sia possibile. Se c’è questa virtù che ci dà una libertà assoluta di spirito e di senso, noi siamo nelle condizioni più favorevoli per poterci interessare di tutti, indistintamente. Anzi, la libertà diventa il motivo, lo stimolo, dice il decreto, della carità pastorale. Se uno ha compreso il valore del regno dei cieli e il valore della sua rinunzia non sarà più pigro, perché non avrà fatto questa grande rinuncia se non nell’intento di acquistare qualche cosa di molto più valido.
Questo non si acquista semplicemente con la celebrazione della messa. A proposito di quell’articolo della rivista del clero, per me, per il sacerdozio, la consacrazione e l’assoluzione non sono dei motivi validi per una castità perfetta e perpetua. Ci deve essere qualche cosa che ci mette in condizione di esercitare l’amore che é una prerogativa della natura umana indistruttibile. Io, quando consacro l’ostia posso avere tutto l’amore di Dio, supposto che si possa vere tutto l’amore di Dio senza l’amore per il prossimo. Io, dando delle assoluzioni, non so in che modo posso dimostrare di avere un po’ di pazienza, un po’ di carità verso il prossimo che é così limitato e così ristretto.
E tutto il resto del mondo? E tutta la gioventù? E tutta la fanciullezza? E tutti quelli che tribolano? E tutti quelli che hanno bisogno di esser illuminati? Dove va il mio amore? Se io sono uomo, devo essere capace di amore specifico. Se ho rinunciato ad un amore specifico per trovare l’oggetto di un amore adeguato che deve essere più grande, questo non può essere che l’esercizio del ministero. Quindi, la castità diventa uno stimolo per l’esercizio della castità pastorale. Inoltre, afferma ancora il decreto, la castità é fonte speciale di fecondità spirituale e di una più ampia paternità di Cristo.
L’amore é fecondo.
Non formalizziamoci alle espressioni come suonano letteralmente. E’ fecondo di sua natura. E’ fecondo su un piano naturale. E’ fecondo su un piano soprannaturale. Diversamente diventa espressione di egoismo, naturalmente parlano e sacrilegamente parlando. Diventa espressione di egoismo perché un individuo non si esaurisce egoisticamente rinchiudendosi in se stesso. Deve rendere feconda la propria esistenza e, l’unico modo é quello di darsi agli altri. Questo, di per sé, lo possono fare tutti, ma il nostro é il modo caratteristico dello spendersi per i fratelli proprio nell’esercizio del nostro ministro. Inoltre la castità perfetta e perpetua é segno evidente del mondo futuro. Ha una dimensione ed una motivazione escatologica.
Se noi abbiamo sinceramente rinunziato all’amore qui sulla terra, inteso nel senso dell’amore coniugale, é perché abbiamo scoperto qualche cosa di meglio, qualche cosa che ci lega al nostro stato ecclesiastico, qualche che ci lega all’esercizio del ministero, a meno che non siamo dei buffoni o dei minchioni: dei buffoni che recitano davanti al mondo e non sono convinti di quello che fanno -e non credo- tanto meno dei minchioni, perché se noi non crediamo ai valori per i quali abbiamo optato, sarebbe -come si dice dalla mie parti – un bella fregatura di qui e anche di là.
Segno evidente, dunque, del mondo futuro.
Come abbiamo già accennato, la castità ci mette in una condizione di libertà per aderire a Dio. Ricordate il pensiero di san Paolo “Chi si sposa é tutto preoccupato di piacere all’altro, mentre invece chi é vergine é preoccupato di piacere a Dio. Libertà di aderire a Dio, di consacrarsi a lui, di dedicarci ai suoi interessi con un cuore indiviso che, non ha altre preoccupazioni di carattere affettivo. Conseguentemente la libertà di dedicarsi ai propri fratelli. E’ largamente riconosciuto ed ammesso, quindi pare che sia largamente sperimentato da ognuno di noi. La dedizione esclusiva alla missione di condurre i fedeli alle nozze con un solo sposo e di presentarli a Cristo come vergine santa, é uno degli aspetti della chiesa poco sviluppati nella nostra catechesi, sul quale però la letteratura apocalittica tanto dell’Antico come del Nuovo Testamento e san Paolo dal canto suo, illustrano ampiamente.
Ora, come interferire nei rapporti della sposa di nostro Signore Gesù Cristo e nei rapporti di Cristo sposo di questa vergine santa, senza disposizioni di perfetta e perpetua castità? Non dico impossibile. Vedi preti del mondo orientale. Ma che convenienza altissima c’è, quando le cose si concepiscono come del resto le ha concepite Dio! Allora, chiedere con umiltà e insistenza questo dono “quibus datum est” è una necessità se c’è veramente la vocazione, perché la vocazione é accompagnata da una grazia particolare di Dio, perché senza questa grazia, questo dono nessuno se lo dà se stesso. Chiedere con umiltà e insistenza questo dono. Avere molta stima per questo dono.
Io non mi allarmo per quello che a volte si scrive sui giornali, per quello che alcuni scrivono ai vescovi. Non potete averne l’idea. Io non ho conservato, naturalmente, tutte le lettere ricevute. Avrei potuto anche conservarle come documento per il futuro. Figurano gruppi di sacerdoti – poi potrebbe essere un individuo abbastanza balzano – che vanno a cercare tutte le ragioni per cui si dovrebbe togliere questa legge. Però quando si ha la possibilità di incontrare molti altri sacerdoti, anche quelli che alle volte potessero accusare delle debolezze a questo riguardo, rarissimamente capita il caso di individui che insistono in questo senso.
Personalmente non sono tanto preoccupato di questa tendenza che può esserci nel clero italiano e mi pare di avvicinarne abbastanza sacerdoti e di avere molti amici che trattano con sacerdoti.Piuttosto sono preoccupato del poco impegno nello studio, del poco impegno nella preparazione pastorale, raramente per deficienze serie e soprattutto per deficienze nel modo di concepire lo stato ecclesiastico disgiunto dallo stato di perfetta e perpetua castità. Averlo molto a cuore, questo dono e custodirlo con fedeltà alle norme ascetiche garantite dall’esperienza della chiesa, rese più necessarie nelle circostanze odierne!
La povertà
Teniamo presente, ciò che rileva il decreto a questo punto e in altri del De Ecclesia e specialmente nella Gaudim et spes. Noi dobbiamo avere un atteggiamento positivo verso i valori reali. Ma questo non ci dispensa dal metterci nella situazione in cui ci vuole nostro Signore Gesù Cristo che si esprime con le parole “Siete in questo mondo ma non site di questo mondo”; siete presenti nel mondo ma non soggetti al mondo, liberi da ogni disordinata preoccupazione di carattere economico. “Non affezionati in modo alcuno alla ricchezza”, é un’altra affermazione del decreto. Ho detto tante volte di quel vecchio prete che diceva, e va bene: -fin che non si hanno soldi si vive anche lietamente nella povertà, ma poi ci si prende gusto. Ecco, attenti al gusto delle ricchezze.
Evitare – sono sempre parole del decreto – ogni bramosia. Non lasciare mai negli altri, ma sinceramente, l’impressione che si faccia qualche cosa per un motivo di interesse economico. L’esercizio ecclesiastico non va considerato come un’occasione di guadagno. Notate guadagno, non compenso per il giusto e onesto sostentamento, ma l’estensione molto più alta nella scala dei valori economici. Il reddito che deriva dagli uffici ecclesiastici non va impiegato per alimentare le sostanze della propria famiglia -parole del decreto. Il dono di Dio che é gratuito, va trasmesso gratuitamente. Questo é quanto io pongo davanti alla vostra attenzione. Del resto, altre riflessioni le abbiamo fatte in altre circostanze. Adesso s’impone che veniamo a certe conclusioni pratiche.
Quelle benedette tariffe! In particolare quella più o meno giustificata o sospetta disparità di condizione economica, che ci può essere tra noi! Pensiamoci. Però dobbiamo avere il coraggio di fare seriamente. Dobbiamo avere il coraggio di avere fiducia nei nostri fedeli e di unificare le nostre amministrazioni. Io sono sempre del parere, per mio conto, che non si farà domani mattina, ma non si dovrà neppure fare tra un secolo. Altrimenti – tanto vale per noi! – bisogna mettere l’amministrazione delle nostre cose nelle mani dei laici, perché possano costatare se noi siamo o non siamo distaccati dalle cose di questo mondo. Non é detto che i nostri redditi diminuiscano. Molti probabilmente aumenteranno e avremo dei testimoni. L’idea, io l’ ho posta in mezzo a voi. Può essere un seme e può anche essere un insetto.
Non possiamo dire di avere risposto al contenuto di questo decreto se non ci fermiamo su questo altro particolare. Quello della cura della vocazione. La missione apostolica deve durare fino alla fine del mondo. Il ministero sacerdotale é indispensabile per il popolo di Dio fino alla fine dei tempi, La sollecitudine apostolica degli apostoli é dimostrata nella cura di assicurarsi dei successori. Questa funzione di scegliere altri che continuino ad edificare la chiesa – parole del decreto- fa parte della stessa missione sacerdotale in virtù della quale il presbitero partecipa alla sollecitudine di tutta la chiesa affinché nel popolo di Dio, qui sulla terra, non manchi di operai.
Grazie a Dio, oggi c’è una preoccupazione a questo riguardo da parte di tutti i sacerdoti. E’ qualche cosa che si risveglia, ma è qualche cosa che si deve imporre molto di più alle nostre coscienze. La così detta cura delle vocazioni fa parte del ministero sacerdotale. Tale e quale. Non basta confessare, non basta distribuire le comunioni. Qui s’impone esplicitamente questa preoccupazione. E siccome questa preoccupazione deve essere di tutto il popolo di Dio, noi dobbiamo educare il nostro popolo ad acquistare la coscienza della necessità delle vocazioni e dobbiamo servirci di tutti i mezzi per suscitare e coltivare le vocazioni.
Siete tutti quanti maestri a fare le prediche nell’occasione delle giornate per il seminario, ma prima leggete questo numero 11 del Presbiterorum Ordinis e vi troverete moltissimi spunti nuovi per una catechesi del popolo a questo riguardo. Da parte nostra, personalmente, la sollecitudine per assicurare le vocazioni alla stato sacerdotale e allo stato religioso …con il ministero della parola e quindi con la testimonianza di una vita in cui si riflette interamente lo spirito di servizio e la vera gioia pasquale”. E’ un inciso molto serio che si trova al numero 11. I ragazzi, i giovani devono scoprire, devono costatare che noi siamo contenti di essere preti e lo siamo non perché abbiamo raggiunto una sistemazione, ma per le gioie che provengono dal nostro ministero sacerdotale.
Sempre in quell’articolo di ieri che mi ha lascito perplesso, perché denuncia con molta insistenza e con molte motivazioni, che é destinato a suscitare una discussione fra i lettori e quindi degli interventi, dice che l’esodo nei nostri seminari si verifica specialmente nelle scuole liceali. Inoltre – non é detto esplicitamente ma é dedotto – quelli che lasciano il seminario non sono gli alunni scadenti o quelli che non danno prova ad avere la vocazione, ma i migliori, i più sensibili ai problemi dell’apostolato in un modo apparentemente più efficiente di quanto non facciano i sacerdoti. Per questo vanno in crisi circa il valore della vocazione sacerdotale e abbandonano il seminario Tra le altre attestazioni porta questo. Un sacerdote di appena otto mesi di Messa che cura un Oratorio festivo, ad un cero punto dice ad un chierico del liceo una confidenza un po’ inopportuna:- se avessi saputo che le cose andavano così sarebbe stato meglio, e indicava l’asilo di fronte, – se mi fossi fatto suora.
La soluzione del problema delle vocazioni, specialmente per assicurare quelle migliori, dipende dalla nostra testimonianza personale. Il giovane di oggi ha gli occhi aperti, ama i valori correnti e vuole cose efficienti. Il sacerdozio come lo incarniamo noi, – non mi escludo nel modo più assoluto, non facciamo un processo per condannare nessuno, riconosciamo le cose con una certa umiltà – forse va un po’ riveduto. I giovani di liceo intelligenti e generosi, che vedono il prete fare i “giri” famosi, che lo vedono tirare avanti una celebrazione liturgica anche ben organizzata, ma che non dice niente alla gente.., che ha un mucchio di cose da fare e che potrebbe farle -scusate- anche il sacrestano, che è tutto impegnato per le cose di archivio… cose notevoli che abbiamo stimate necessarie.. Potrebbero anche pensare.
Mettetevi dalla parte della mentalità di un giovane del liceo a quell’età, con quella mentalità e guardiamo alla nostra mentalità. E’ inutile pretendere che i giovani siano diversi da quello che li ha fatti il loro tempo. Saranno peggiori o migliori? Sono così. E quando vedono il prete in questo modo possono anche non capire.
Capitemi bene. Facendo queste affermazioni voglio essere chiaro, ma in nessun modo offensivo. Le cose che facciamo oggi, le abbiamo fatte per tanti secoli. So benissimo che le cose non possono cambiare da un giorno all’altro perché non abbiamo i pezzi con cui costruirle, perché non abbiamo le possibilità di ricambio immediato. Lo capisco questo. Intendetemi. Però, mettetevi dalla parte dei giovani. Ai giovani non potete dare le ragioni come possiamo intenderle noi e come sono pienamente giustificate per noi.
Pace, se Dio vuole.
Sacerdoti 3 Febbraio 1967
OM 64 Presbiteri_03 1967