11 gennaio 1976 nel centenario della nascita di Mons. Augusto Bertazzoni
C‘è un filo della Provvidenza che lega le persone tra di loro e alle volte lo si scopre, altre no.
Intorno al 1954 intraprendevo la via da Monopoli a Potenza e quel precorso, per gli amici che mi accompagnavano e per me, ha conservato il ricordo e il sapore dell’avventura. Quella strada, quel paesaggio, quei paesi in piena estate si sono impressi negli occhi e nell’anima in modo indelebile: da Gravina a Irsina a Tolve al bivio di Tricarico fino a Potenza è un susseguirsi di avvallamenti, di « gravine », di ondulazioni, di stoppie arse a perdita d’occhio e la strada s’inerpica e discende per tornanti che mettono a dura prova le braccia di chi sta al volante e i moti peristaltici degli occupanti la macchina. I paesi, centri che raggiungono e superano anche i ventimila abitanti e che si distanziano l’uno dall’altro per una ventina di chilometri, erano e purtroppo sostanzialmente rimangono l’immagine più desolata di un certo Meridione: bottegucce di alimentari con scarsi prodotti locali, viuzze, molte casupole, locali ricavati nel tufo, il palazzotto del « Padrone », l’immancabile Cattedrale bisognosa di consolidamenti e di restauri ma dignitosa e originale per stile e non priva di elementi di sorprendente provenienza e valore storico e artistico.
La gente sta a guardare e pensa al mondo da cui tu puoi venire, che deve essere tutt’altra cosa. Potenza più o meno allora si presentava così: in più erano ancora sotto gli occhi le conseguenze della guerra e del terremoto; oggi non la si riconosce più, quello che era rimane solo nel temperamento e nella memoria della classe anziana dei suoi abitanti.
A Potenza c’eravamo andati per un convegno nazionale dei Laureati Cattolici. La ricostruzione appena si notava, la Cattedrale era ancora chiusa, l’abitazione del vescovo appena terminata, compreso l’arredamento, ma tutta semplice al limite della povertà; ogni pezzo portava una targhetta « Proprietà del Vescovado ». Ma chi colpiva di più era il « padrone di casa », che ti veniva incontro come se si scusasse di avere una casa e ti diceva che per lui sarebbe bastato molto meno e che di suo non c’era niente. Poi ti intratteneva proprio come uno di casa con quei di casa: col segretario a cui attribuiva il merito di ogni cosa migliore, con la nipote che attendeva con discrezione e riguardo a tutti.
Proprio in quei giorni aveva dovuto rassegnarsi ad accettare di avere una macchina per sé. Perché la macchina l’avevano in pochi. Dal 1930 da che era Vescovo di quella diocesi si era sempre servito dei mezzi di cui si servivano tutti e lui non doveva soltanto percorrere le strade, i « tratturi », i sentieri che percorreva la maggior parte dei « suoi », la povera gente che andava da casa al campo e al bosco su cui lavorava, ma doveva raggiungere tutti e Potenza è una delle poche diocesi del Sud che siano molto vaste per territorio: verso la Calabria si spinge per oltre cento chilometri. Per quasi tutti quegli anni, il mulo, il carretto erano stati i suoi mezzi di spostamento verso i molti e piccoli centri abitati che caratterizzano la zona.
Era tutto così naturale e rientrava tanto congenialmente nello stile di questo uomo che, proprio l’automobile, la sentiva come un diaframma, qualcosa che gli impediva di farsi tutto a tutti.
Ma quest’uomo chi era?
Quasi per un bisogno all’apparenza contraddittorio del cuore, te lo scopriva lui stesso nelle confidenze a cui si abbandonava con chi, almeno io presumo (in seguito ne ebbi conferma), sentiva di trovare in sintonia.
E’ capitato con me. Posso dire che mi ha visto e mi ha voluto bene. Difatti sono ritornato un’altra volta a Potenza e poi tante volte ci siamo incontrati durante il Concilio; nell’unica udienza che ho avuto da Papa Giovanni figuriamo insieme nella fotografia. E’ sempre stato lui a venirmi incontro, a raccontarmi, a dirmi le sue impressioni. Al Concilio rimaneva turbato e addolorato quando ascoltava qualche intervento che sembrasse attentare all’austerità della vita cristiana.
Era un mantovano mandato a fare il Vescovo in Lucania, quando il fascismo vi relegava i confinati; io, in tempi del tutto diversi, ero un piemontese mandato in Puglia; forse per questo mi voleva bene.
Qui le considerazioni si affollano, è difficile dipanare ogni cosa e meno male, una volta tanto, che lo spazio è tiranno.
Un cuore mantovano totalmente cristiano.
Parliamo di lui. Monsignor Bertazzoni non ha certamente tradito le sue origini; di Mantova parlava sempre, del seminario, della vita parrocchiale, dei mantovani: tutto era bello, tutti erano buoni. Non è che non sapesse che cosa c’è nell’uomo ma la limpidezza del suo occhio casto, la bontà improntata al «settanta volte sette» lo ispirava e lo guidava in tutto: aveva un cuore mantovano totalmente cristiano.
A Mantova ritornava tutti gli anni, anche quando per l’età e le condizioni di salute tutti tentavano di impedirglielo; di sua volontà anche le sue spoglie mortali avrebbe preferito affidarle alla terra natale. Venire a Mantova non era un’evasione, era un ritorno alla sorgente.
Di fatti, ecco l’apparente contraddizione, a Potenza ci stava con tutto se stesso. Chi non è stato nel Meridione, non potrà mai farsi un’idea di ciò che significa là essere il Vescovo, soprattutto nelle zone interne e più abbandonate. Se poi il Vescovo ha la ventura di essere « Don » Bertazzoni e ci riportiamo agli anni 1930-1950, è veramente « padre e madre, fratello e sorella », e così è trattato e così è disponibile. Ti chiamano per nome, ti danno del tu, devi ascoltare lunghi racconti di fatti insignificanti, devi arrivare a tutti e se non ci arrivi, non te ne fanno colpa, di te si fidano.
Mons. Bertazzoni ha fatto il Vescovo così, con la più grande naturalezza fin dal primo giorno. Gli furono offerte Sedi migliori, più importanti, le ha sempre rifiutate. I Potentini l’ hanno capito e gli hanno voluto bene: il bene dei poveri che hanno soltanto il cuore da dare, ma a quelli in cui hanno risposto la loro fiducia lo danno tutto. Quando per l’età avanzata ha cessato di essere il loro Vescovo, l’ hanno costretto a restare, perché ciò che per loro era stato per tanti anni lo rimaneva ancora.
Quando il 20 Settembre del 1967 è stato annunziato il mio trasferimento a Mantova, si è, letteralmente, precipitato a Monopoli; era raggiante, ero il Vescovo della sua Mantova, addirittura il « suo » Vescovo. Che cosa vedano poi questi uomini di Dio è proprio un mistero.
ST 386 Bertazzoni 76
Stampa ” da Dio a Dio un cammino di popolo e di persone” Mantova 1985 pag. 313-316
Stampa « La Cittadella », 11 gennaio 1976 nel centenario della nascita di Mons. Augusto Bertazzoni