Il problema delle diocesi in Italia riguarda il loro numero che rispetto alla popolazione può ritenersi eccessivo; di conseguenza il problema si pone a riguardo della loro dimensione demografica ed ecclesiastica. E’ un fatto che molte diocesi italiane alla luce di una definizione canonica corrente non ne attuano i requisiti: comprendono una popolazione che non può dare vita a quegli istituti e organismi che sono ritenuti indispensabili per una vita e un governo efficiente della diocesi; basta pensare al seminario e alla curia.
D’altro lato esistono pochi casi che mettano in evidenza gli inconvenienti, forse pastoralmente più gravi delle poche diocesi con un numero troppo elevato di abitanti: qui i fedeli sfuggono a un qualsiasi controllo e non avvertono quei legami essenziali che li dovrebbero unire intorno al vescovo perché si costituisca intorno a lui quel tanto di vita comunitaria richiesta come fondamento della Chiesa locale, che appunto nel vescovo trova il cardine della sua unità.
A prima vista potrebbe sembrare che la soluzione si trovi nella fusione delle piccole diocesi e in un certo smembramento di quelle eccessivamente grandi. Si sa però che entrambi le soluzioni incontrano delle difficoltà e non sono prive di inconvenienti. Se ne possono trovare le cause nel fatto che gli stessi vescovi hanno fino ad oggi concepito la loro funzione pastorale dipendente da quella del sommo pontefice ma si può dire, del tutto autonoma rispetto a quella degli altri vescovi.
Le conferenze regionali e soprattutto quella nazionale non hanno ancora avuto una incidenza in qualche modo valutabile a questo riguardo. L’atteggiamento del clero diocesano é chiuso ai confini territoriali della diocesi e ad esso si associa il sentimento delle popolazioni che sentono la diocesi soprattutto come prestigio. Questo, almeno sommariamente, per le piccole diocesi. La divisione in settori delle diocesi eccessivamente vaste é certamente un rimedio, ma non esiste ancora un collaudo che ne definisca la piena validità. Parrebbe che i vescovi preposti ai vari settori non realizzino quella pienezza di poteri sacramentali di cui sono stati dotati nella consacrazione sacramentale.
Premesse teologiche per una soluzione
1) Il Concilio Vaticano Secondo mentre ha sollecitato la spinta missionaria della Chiesa fino alle estreme realtà temporali ha potentemente radicato la Chiesa nel profondo del mistero della grazia e ha con chiarezza e insistenza richiamato il ruolo insostituibile degli uffici salvifici istituiti da Cristo per la edificazione della Chiesa stessa.
I vescovi in modo evidente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice (LG 21), i loro poteri stanno all’origine, contengono la pienezza della capacità di manifestare e comunicare quella misteriosa realtà che fa rinasce i figli degli uomini e li trasforma in figli di dio e membri della sua Chiesa.
La ragione é che, Cristo é presente in mezzo ai credenti nella persona dei vescovi e che da questa presenza trae sacramentalmente origine ogni forma di presenza di Cristo nella sua Chiesa, da quella della parola a quella della eucaristia e a quella della grazia. “Sedendo infatti alla destra di Dio Padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici, ma in primo luogo e per mezzo dell’eccelso loro ministero predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno nuove membra incorpora, con la rigenerazione soprannaturale al suo corpo; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del nuovo testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine” (LG 21).
Questi uffici non sono affidati al vescovo in un modo qualsiasi ma sono conferiti per mezzo della consacrazione sacramentale, ciò che li qualifica con la nota della stabilità, della efficacia e della sicurezza di cui Cristo ha voluto dotare i segni della grazia nella sua Chiesa. “Per compiere così grandi uffici gli apostoli sono stati riempiti da Cristo con una speciale effusione dello Spirito Santo disceso su di loro ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori, dono che é stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale” (id).
Il Concilio inoltre presenta gli uffici del vescovo come qualche cosa che gode della pienezza e che le stessa pienezza deve agli altri comunicare in modo insostituibile: porta del “sommo sacerdozio” della “somma del sacro ministero” del “eccelso loro ministero” della “pienezza del sacramento dell’ordine” (cf id 21); “i vescovi quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui é dato ogni potestà in cielo e in terra, la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza” (id 24).
Così che non é indifferente ricevere i doni della salvezza, la parola, la grazia e la carità, attraverso il ministero del vescovo o attraverso altre sorgenti: queste sono sempre delle sorgenti derivate e non dirette e primarie. Ciò vuole dire che, se per ipotesi, i vescovi si limitassero a compiere gli ordini sacri e si astenessero da ogni forma di esercizio del loro sacro ministero, ciò sarebbe decisamente contrario alla volontà del Signore e il flusso della sua vita nella Chiesa sarebbe impoverito in maniera certamente grave.
Ora la natura sacramentale degli uffici salvifici richiede che “appaia” ( i vescovi in modo eminente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo, vedi LG 21), cioè sia in qualche modo percettibile il loro esercizio. Il Vaticano Secondo ha dato risalto all’aspetto sacramentale di tutta la Chiesa: il Figlio di Dio é stato “udito, veduto, contemplato, toccato con le mani” (Gv 1,1). e la Chiesa é la continuazione di questa sua presenza sensibile nel mondo (cf LG 1); “Cristo costituì il suo Corpo che é la Chiesa quale universale sacramento della salvezza…opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a se… e renderli partecipi della sua vita gloriosa” (id 48).
Applicato questo fondamento e principio agli uffici del vescovo, significa che la sua azione di maestro, pontefice e pastore deve esplicarsi a un livello di percettibilità; Allo stato attuale delle cose nella Chiesa non é facile definire questo grado di “percettibilità” dell’azione del vescovo. In certi periodi della storia della Chiesa la presenza del vescovo nella comunità locale era un fatto comune e specialmente il ministero della parola e quello liturgico non lo concepivano, se non come eccezione, che non fossero esercitati dal vescovo; comunque i presbiteri agivano come evidenti delegati del vescovo. Ai tempi nostri é diventata quasi eccezione il ministero del vescovo e abituale quella del presbitero; inoltre questi in molti casi gode di una tale stabilità giuridica, che difficilmente la sua azione può essere concepita, almeno psicologicamente, come delegata, anche se giuridicamente lo é.
Il Concilio come indubbiamente gli uffici del vescovo in primo piano e quelli del presbitero come condizionati dai primi, ma a questo, che era teologicamente pacifico anche prima, con una insistenza che si coglie ripetutamente tanto nella Lumen Gentium come nel Christus Dominus aggiunge la rivalutazione dell’esercizio di questi uffici e questo é sintomatico nella situazione attuale della Chiesa.
Il movimento biblico, quello liturgico, la coscienza pastorale che, in cero qual senso, sono nati dalla base hanno portato alla rivalutazione di realtà ecclesiali che ad un dato momento postulano di essere assunte nel dinamismo dei poteri gerarchici di cui costituiscono l’oggetto.
Perciò il Concilio esalta, definisce, raccomanda l’ “eccelso ministero della parola” dei vescovi in cui Cristo é presente; descrive l’azione liturgica presieduta dal vescovo (“economo della grazia del supremo sacerdozio”) come il momento culminante dell’attuazione e manifestazione della Chiesa (SC 41; LG 26); essi reggono le chiese particolari col consiglio, la persuasione oltre che con l’autorità e la sacra potestà (cf LG 27), come buoni pastori che conoscono le pecorelle e sono da esse conosciuti (cf Ch D 16);
La prima grande affermazione del Concilio consiste nella dichiarazione esplicita che “la consacrazione episcopale conferisce pure con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare” (LG 21); quindi gli uffici episcopali sono sacramentali nella loro origine, nella loro natura e nel loro esercizio.
La seconda affermazione destinata a caratterizzare la condizione gerarchica della Chiesa del Vaticano Secondo é quella della collegialità dei vescovi. Si può affermare che se il profondo del mistero della Chiesa é la sua unità analoga quella trinitaria, la collegialità dei vescovi costituisce di questa unità il vertice nella carità, il modello e il simbolo nella esemplarità, la sorgente nella ricchezza carismatica.
La collegialità prima di essere una realtà giuridica che pure affonda la sua consistenza nella consacrazione sacramentale, é una realtà mistica, un patrimonio soprannaturale teologico conseguente alla effusione dello Spirito Santo che crea e anima la carità di coloro ai quali é stato dato la pienezza: questi sono dotati di una grazia unica nella Chiesa, per mezzo della quale essi soli possono costituire il perno della unità nella loro Chiesa e il vincolo di unità di tutte le chiese.
Quello della collegialità , perciò non é un aspetto semplicemente giuridico della Chiesa ma il fondamento sacramentale della dinamica soprannaturale della sua unità.
Di conseguenza l’attuazione della collegialità non é semplicemente qualche cosa di potenziale che i singoli vescovi possono essere chiamati a tradurre in atto in circostanze particolari, ma é soprattutto un dovere legato all’essere e al quotidiano agire del vescovo il quale ha la chiara coscienza di non essere un individuo fornito di poteri, ma un membro di un organismo, di un corpo, di un ceto, e come tale ha il dovere di usare dei suoi poteri in comunione con gli altri membri.
A sua volta questa comunione dell’esercizio degli uffici episcopali, i quali, come più volte si é notato, sono di origine di natura sacramentale, deve pure essa possedere la nota di una concretezza “apparente”: che i vescovi facciano i vescovi in comunione tra di loro, lo si deve poter vedere. Questo può avvenire in diversi gradi e a diversi livelli: sarà evidente e sperimentato per una circoscrizione che comprende l’ambito di normali rapporti umani; sarà ancora evidente in quanto l’avvenimento cade sotto la conoscenza alimentata dai comuni mezzi di relazione; non mancherà la sua evidenza quando il fatto ha le proporzioni dell’avvenimento straordinario. Si potrebbe pensare alla circoscrizione della provincia ecclesiastica, a quella delle conferenze regionali e nazionale e alla Chiesa universale. Ma ciò che importa é una azione in comune che tocca i singoli vescovi che avrà come conseguenza la comunione di tutti i vescovi.
Criteri di soluzione
La definizione canonica delle diocesi deve corrispondere alla teologia del vescovo. Secondo il documento del Concilio parrebbe che la diocesi debba essere quella entità territoriale demografica, organizzativa che mette il vescovo nella condizione di esser in modo sacramentale il maestro, il sacerdote e il pastore del suo gregge e nello stesso tempo lo implica in un effettivo esercizio della collegialità .
Il popolo di Dio che si raccoglie intorno al vescovo deve effettivamente godere degli effetti insostituibili di salvezza che sono legati agli uffici salvifici: il vescovo deve conoscere le sue pecorelle come esse devono conoscere lui (cf Ch D 16); se i vescovi sono araldi della fede, dottori autentici, se devono da tutti essere ascoltati con venerazione, ne consegue che (cf LG 25) i fedeli in modo positivo devono godere ” dell’eccelso ministero” della parola del loro maestro (id 21); l’azione sacramentale “dell’economo della grazia del supremo sacrificio” e la celebrazione liturgica presieduta dal vescovo deve in modo evidente raggiungere tutti i fedeli; come pure i fedeli non devono soltanto sentire l’autorità e la sacra potestà del vescovo, ma devono pure essere in condizione di essere guidati dal consiglio, dalla persuasione e dall’esempio del loro pastore (cf LG 27).
Naturalmente queste affermazioni non vogliono avere il senso che sia riservato solo al vescovo l’esercizio del sacro ministero e che in pratica i vescovi diventino dei curati; pare però conforme all’insegnamento del Concilio che i vescovi impieghino tempo ed energie e capacità nell’esercizio di quegli uffici per i quali hanno una grazia unica e insostituibile nella Chiesa e che l’effettivo esercizio del loro ministero abbia una tale efficienza e ripercussione da raggiungere tutti i fedeli attraverso la eco del ministero dei loro preti; non nel senso di mortificare il loro ministero, di soffocarlo e di spersonalizzarlo, ma nel senso di garantirlo, di qualificarlo, di renderlo più efficiente in quanto porta il segno della sua derivazione dal ministero del vescovo lo rende presente alla comunità e manifestando la comunione con lui e di conseguenza con tutti i membri del presbiterio diventa nella Chiesa locale il segno di quella carità gerarchica che concorre al massimo della edificazione della Chiesa.
Questa carità gerarchica trova ala sua espressione originale ed esemplare in una carità più alta che i sacerdoti hanno modo di constatare nella comunione che anima i loro vescovi nell’impegno di una azione collegiale. Si potrebbe forse pensare che l’effettiva carità tra i sacerdoti debba nascere dalla carità che esiste tra i vescovi: é forse sbagliato, dopo la ecclesiologia del Vaticano Secondo, che i sacerdoti di ordine inferiore debbano trovare il tipo della loro carità distintiva in quella di coloro che del sacerdozio godono la pienezza?
Timidi suggerimenti
A questo punto si dovrebbe affrontare concretamente il problema e dire se in Italia le diocesi debbano rimanere quante sono oppure debbano essere ridotte.
Le premesse e i criteri desunti, si spera con esattezza, dalla teologia del Concilio porterebbero a questa conclusione: le diocesi in Italia non sembrano troppe, tuttavia é indispensabile un’altra definizione canonica.
Tolti i casi di diocesi evidentemente inconsistenti, la maggior parte di esse potrebbe rimanere in quanto all’ampiezza territoriale e il numero degli abitanti forse corrisponde alle effettive possibilità personali di ministero del vescovo, coadiuvato dai suoi sacerdoti. Però é altrettanto evidente che le chiese che si raccolgono intorno al vescovo in queste circoscrizioni territoriali sono del tutto insufficienti a sostenere quelle istituzioni, quegli uffici e quei centri di organizzazione di cui la diocesi ha bisogno.
Tutti questi servizi potrebbero essere unificati preso la sede capoluogo della circoscrizione ecclesiastica, conferendo al vescovo di cotesta sede centrale una effettiva presidenza giuridica. I vescovi delle sedi dipendenti godono della pienezza degli uffici loro derivanti dalla consacrazione sacramentale; con una giurisdizione più ristretta di quella attuale; il vescovo della sede centrale oltre la pienezza delle giurisdizione canonica godrebbe anche della presidenza dei suoi suffraganei e quindi di un effettivo potere legislativo su tutta la provincia ecclesiastica, temperata, se si vuole, o dal consiglio o dal consenso degli altri vescovi.
Determinato l’ambito di questa effettiva presidenza, si é sulla via per dare vita ad una forma di collegialità di governo episcopale sotto la presidenza del “metropolita”, si studiano e si definiscono i piani di pastorale per tutta la circoscrizione; si dà vita ad un unico seminario maggiore, si provvede a una razionale distribuzione del clero, soltanto nella sede metropolitana vi saranno gli uffici di Curia, gli uffici amministrativi, i vari uffici di pastorale, ecc.
Nelle diocesi suffraganee é sufficiente una cancelleria per le pratiche inerenti alla celebrazione dei sacramenti (matrimoni); come pure potranno continuare a sussistere i capitoli cattedrale con i soli compiti corali.
Parrebbe questa la soluzione che ovvierebbe alle difficoltà di sopprimere le sedi vescovili di una certa consistenza; le chiese locali, con l instaurarsi di una mentalità più rispondente agli insegnamenti del Concilio godrebbe degli incomparabili doni di salvezza legati all’esercizio del ministero episcopale; i sacerdoti mentre godrebbero della vicinanza del vescovo soffrirebbero meno delle conseguenze dell’isolamento.In parecchi “monumentali” episcopi si potrebbe instaurare anche qualche forma di vita comune dato che cesserebbe la loro funzione di rappresentanza e, dal momento che dovrebbero essere disponibili per tutta la circoscrizione ecclesiastica, si abituerebbero ad una convinzione meno chiusa del loro ministero, diventerebbe più facile impegnarli secondo le doti e le competenze di ciascuno ed esisterebbe la possibilità di favorire la specializzazione dei più dotati.
L’inconveniente del frazionamento delle piccole diocesi sarebbe ovviato con una efficiente forma di governo e di servizi centralizzati ai quali, in determinata misura, tutti parteciperebbero e dei quali tutti porterebbero la responsabilità.
Le diocesi in Italia
seconda versione in quale ordine cronologico?
Questo studio non presume di interferire nell’azione che gli organismi competenti stanno svolgendo per il ridimensionamento delle diocesi in Italia; ha lo scopo di mettere in evidenza alcuni principi teologici che scaturiscono dai documenti conciliari e che naturalmente devono costituire il criterio fondamentale per ogni riforma giuridica e pastorale.
Il problema delle diocesi in Italia riguarda il loro numero che rispetto alla popolazione può ritenersi eccessivo; di conseguenza il problema si pone a riguardo della loro dimensione demografica ed ecclesiastica. E’ un fatto che molte diocesi italiane alla luce di una definizione canonica corrente non ne attuano i requisiti: comprendono una popolazione che non può dare vita a quegli istituti e organismi che sono ritenuti indispensabili per una vita e un governo efficiente della diocesi; basta pensare al seminario agli uffici di curia ,eccetera.
D’altro lato esistono pochi casi che mettano in evidenza gli inconvenienti, forse pastoralmente più gravi delle poche diocesi con un numero troppo elevato di abitanti: qui i fedeli sfuggono a un qualsiasi controllo e non avvertono quei legami essenziali che li dovrebbero unire al vescovo perché si costituisca intorno a lui quel tanto di vita comunitaria richiesta alla essenza della Chiesa locale, che appunto nel vescovo trova il “visibile principio e fondamento di unità”(LG 22).
A prima vista potrebbe sembrare che la soluzione si trovi nella fusione delle piccole diocesi e in un certo smembramento di quelle eccessivamente grandi. Si sa però che entrambi le soluzioni incontrano delle difficoltà e non sono prive di inconvenienti. Non é il caso in queste brevi note di andare alla ricerca della presente situazione e di farne il processo. E’ un fatto che il vescovo ha concepito fino ad oggi ‘tota conscientia’ la sua funzione pastorale…e inoltre la concezione di governo era ispirata più all’esercizio del potere giuridico -canonico che a quello sacramentale ; dipendente da quello del Sommo pontefice e del tutto autonoma rispetto a quella degli altri vescovi. L’atteggiamento del clero diocesano é chiuso ai confini territoriali della diocesi e ad esso si associa il sentimento delle popolazioni che sentono la diocesi soprattutto come prestigio. Questo, almeno sommariamente, per le piccole diocesi. La divisione in settori delle diocesi eccessivamente vaste é certamente un rimedio, ma non esiste ancora un collaudo che ne definisca la piena validità. Parrebbe che i vescovi preposti ai vari settori non realizzino quella pienezza di efficienza degli uffici salvifici di cui sono stati dotati nella consacrazione sacramentale. per la edificazione della Chiesa.
Ad ogni modo esiste una ragione di urgenza che spinge a trovare presto una soluzione al problema. La soluzione dovrebbe essere imminente, anche se aperta a quei perfezionamenti che saranno suggeriti dalla esperienza.
Il motivo dell’urgenza non é costituito soltanto dalle situazioni incerte e dalla sospensione degli animi per la sorte di parecchie diocesi, ma soprattutto al dovere di pensare e seriamente tradurre nella pratica gli insegnamenti e le direttive del Concilio, ciò che non si può ragionevolmente attendere fino a quando permane questo stato di incertezza.
Premesse teologiche per una soluzione
Valore degli uffici salvifici del vescovo
Il Concilio Vaticano Secondo mentre ha sollecitato la spinta missionaria della Chiesa fino alle estreme realtà temporali, ha potentemente radicato la Chiesa nel profondo del mistero della grazia e ha con chiarezza e insistenza richiamato il ruolo insostituibile degli uffici salvifici istituiti da Cristo per la edificazione della Chiesa stessa.
I vescovi in modo evidente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice (LG 21), i loro poteri stanno all’origine, contengono la pienezza della capacità di manifestare e comunicare quella misteriosa realtà che fa rinasce i figli degli uomini e li trasforma in figli di Dio e membri del suo popolo.
La ragione é che , Cristo é presente in mezzo ai credenti nella persona dei vescovi e che da questa presenza trae sacramentalmente origine ogni forma di presenza di Cristo nella sua Chiesa, da quella della parola a quella della eucaristia e a quella della carità che gerarchicamente costituisce la unità. “Sedendo infatti alla destra di Dio padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici, ma in primo luogo e per mezzo dell’eccelso loro ministero predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno nuove membra incorpora, con la rigenerazione soprannaturale al suo corpo; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del nuovo testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine” (LG 21). Nelle comunità presiedute dal vescovo “sebbene spesso piccole e povere, é presente Cristo, per virtù del quale raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica” (LG 26).
Questi uffici non sono affidati al vescovo in un modo qualsiasi ma sono conferiti per mezzo della consacrazione sacramentale, ciò che li qualifica con la nota della stabilità, della efficacia e della sicurezza di cui Cristo ha voluto dotare i segni della grazia nella sua Chiesa. “Per compiere così grandi uffici gli apostoli sono stati riempiti da Cristo con una speciale effusione dello Spirito Santo disceso su di loro ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori, dono che é stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale” (LG 21).
Il Concilio inoltre presenta gli uffici del vescovo come qualche cosa che gode della pienezza, e che a loro volta deve comunicare agli altri in un modo insostituibile: parla del “sommo sacerdozio” della “somma del sacro ministero” del “eccelso loro ministero” della “pienezza del sacramento dell’ordine” (cf id 21); “i vescovi quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui é dato ogni potestà in cielo e in terra, la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza” (id 24).
Così che non é indifferente ricevere i doni della salvezza, la parola, la grazia e la carità, attraverso il ministero del vescovo o attraverso altre sorgenti: queste sono sempre delle sorgenti derivate e non dirette e primarie. Ciò vuole dire che, se per ipotesi, i vescovi si limitassero a compiere gli ordini sacri e si astenessero da ogni forma di esercizio del loro sacro ministero, ciò sarebbe decisamente contrario alla volontà del Signore ma il flusso della sua vita nella Chiesa sarebbe impoverito in maniera imprevedibile.
E’ sintomatico ciò che si é verificato nella storia della Chiesa: quando per ragioni particolari il ministero del vescovo é venuto meno, lo Spirito Santo ha suscitato i grandi ordini religiosi che hanno compiuto nella Chiesa una vera azione di “supplenza”.
Ora la natura sacramentale degli uffici salvifici richiede che “appaia” ( i vescovi in modo eminente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo, vedi LG 21), cioè che il loro esercizio sia in qualche modo percettibile. Il Vaticano Secondo ha dato risalto all’aspetto sacramentale di tutta la Chiesa: il figlio di Dio é stato “udito, veduto, contemplato, toccato con le mani” (Gv 1,1). e la Chiesa é la continuazione di questa sua presenza sensibile nel mondo (cf LG 1); “Cristo costituì il suo corpo che é la Chiesa quale universale sacramento della salvezza…opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a se… e renderli partecipi della sua vita gloriosa” (id 48).
Applicato questo fondamento e principio agli uffici del vescovo, significa che la sua azione di maestro, pontefice e pastore deve esplicarsi a un livello visibile. Allo stato attuale delle cose nella Chiesa non é facile definire questo grado di “percettibilità” della azione del vescovo. In certi periodi della storia della Chiesa la presenza del vescovo nella comunità locale era un fatto comune e specialmente il ministero della parola e quello liturgico solo eccezionalmente si concepiva che non fossero esercitati dal vescovo; comunque i presbiteri agivano come evidenti delegati del vescovo. Ai tempi nostri é diventato quasi eccezione il ministero del vescovo e abituale quello del presbitero; inoltre questi, in molti casi, gode di una stabilità giuridica , che difficilmente la sua azione può essere concepita, almeno psicologicamente, come “delegata”, anche se giuridicamente lo é.
Il Concilio come indubbiamente gli uffici del vescovo in primo piano e quelli del presbitero come condizionati dai primi, ma questo, che era teologicamente pacifico anche prima, è ora ribadito con una insistenza che si coglie ripetutamente tanto nella Lumen Gentium come nel Christus Dominus aggiunge la rivalutazione dell’esercizio di questi uffici , ciò che non deve passare inosservato nella situazione attuale della Chiesa.
Il movimento biblico, quello liturgico, la coscienza pastorale che, in cero qual senso sono nati dalla base, hanno portato alla rivalutazione di realtà ecclesiali che ora postulano di essere assunte nel dinamismo dei poteri gerarchici di cui costituiscono l’oggetto.
Perciò il Concilio esalta, definisce, raccomanda l’ “eccelso ministero della parola ” dei vescovi in cui Cristo é presente; descrive l’azione liturgica presieduta dal vescovo ( “economo della grazia del supremo sacerdozio”) come il momento culminante dell’attuazione e manifestazione della Chiesa (SC 41; LG 26); essi reggono le chiese particolari col consiglio, la persuasione oltre che con l’autorità e la sacra potestà (cf LG 27), come buoni pastori che conoscono le pecorelle e sono da esse conosciuti (cf Ch D 16);
Coscienza e azione collegiale del vescovo
La prima grande affermazione del Concilio consiste nella dichiarazione esplicita che “la consacrazione episcopale conferisce pure con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare” (LG 21); quindi gli uffici episcopali sono sacramentali nella loro origine, nella loro natura e nel loro esercizio.
La seconda affermazione destinata a caratterizzare la condizione gerarchica della Chiesa del Vaticano Secondo é quella della collegialità dei vescovi. Si può affermare che se il profondo del mistero della Chiesa é la sua unità analoga quella trinitaria, la collegialità dei vescovi costituisce di questa unità il vertice nella carità, il modello e il simbolo nella esemplarità, la sorgente nella ricchezza carismatica.
La collegialità prima di essere un fatto giuridico, che pure affonda la sua consistenza nella consacrazione sacramentale, é una realtà ontologica della Chiesa: lo Spirito Santo con una particolare effusione anima la carità dei membri di un “corpo” divinamente istituito (LG 22). I vescovi sono dotatati di una grazia sacramentale, unica nella Chiesa, per mezzo della quale essi soli possono costituire il perno della unità nella loro Chiesa e il vincolo di unità di tutte le chiese (cf LG 22).
Quello della collegialità , perciò non é un aspetto semplicemente giuridico della Chiesa ma il fondamento sacramentale della dinamica soprannaturale della sua unità.
Di conseguenza l’attuazione della collegialità non é semplicemente qualche cosa di potenziale che i singoli vescovi possono essere chiamati a tradurre in atto in circostanze particolari, ma é soprattutto un dovere legato all’essere e al quotidiano agire del vescovo, il quale ha la chiara coscienza di non possedere una investitura di uffici individualisti ma di essere membro di un organismo, di un corpo, di un ceto, e come tale ha il dovere di usare dei suoi poteri in comunione con gli altri membri.
Non sarà certamente senza sorpresa che alcuni avranno letto come il papa nel “Motu proprio” Ecclesiae sanctae (cap 1), descrivendo gli uffici dei vescovi, proceda secondo una priorità dei doveri che non era certo corrente prima del Concilio. “I sacri pastori devono adempiere costantemente il loro ufficio di istruire, santificare e pascere il popolo di Dio, 1) sia partecipando generosamente con il sommo pontefice alle sollecitudini di tutta la Chiesa 2) sia provvedendo con la più grande cura al saggio governo delle diocesi a loro affidate, 3) come pure cooperando attivamente al bene comune di molte chiese.
A sua volta questa comunione dell’esercizio degli uffici episcopali, i quali, come più volte si é notato, sono di origine di natura sacramentale, deve pure essa possedere la nota di una concretezza “apparente”: che i vescovi facciano i vescovi in comunione tra di loro deve possedere una nota di evidenza. Questo può avvenire in diversi modi e in gradi diversi: sarà di una evidenza sperimentabile in una circoscrizione che comprende l’ambito di normali rapporti umani; sarà ancora evidente quando i rapporti collegiali sono oggetto della conoscenza alimentata dai comuni mezzi di relazione; non mancherà la sua evidenza quando il fatto ha le proporzioni dell’avvenimento straordinario. Si può andare dall’esercizio della’ “attiva cooperazione” (ES 1,6) nella circoscrizione della provincia ecclesiastica, a quella delle conferenze regionali e nazionale e a quella esercitata dal sinodo dei vescovi e dl Concilio ecumenico per la Chiesa universale. Ma ciò che importa é che il vescovo senta la sua azione tanto più legata a quella degli altri membri del corpo episcopale quanto più concretamente il cerchio della sfera di influenza ecclesiale lo tocca da vicino e quanto più gli urgenti bisogni di chiese particolari o della Chiesa universale diventano gravi.
Criteri di soluzione
Poste queste premesse, bisogna cercare la definizione delle diocesi partendo non dalle istituzioni canoniche ecclesiastiche, ma dalla teologia degli uffici del vescovo, ai quali le istituzioni sopraddette devono adeguarsi. I documenti del Concilio autorizzano a concepire la diocesi normalmente come una entità territoriale demografica organizzativa che mette il vescovo nella condizione di essere in modo “sacramentale” il maestro, il sacerdote e il pastore del suo gregge e nello stesso tempo lo implica in un effettivo esercizio della collegialità .
Il popolo di dio che si raccoglie intorno al vescovo deve effettivamente godere degli effetti insostituibili di salvezza che sono legati agli uffici salvifici: il vescovo deve conoscere le sue pecorelle come esse devono conoscere lui (cf Ch D 16); se i vescovi sono araldi della fede, dottori autentici, se devono da tutti essere ascoltati con venerazione, ne viene di conseguenza che (cf LG 25) i fedeli in modo effettivo devono godere ” dell’eccelso ministero” della parola del loro maestro (id 21); l’azione sacramentale “dell’economo della grazia del supremo sacrificio” e la celebrazione liturgica presieduta dal vescovo deve in modo sacramentale raggiungere almeno per tramite di una evidente rappresentanza, tutti i fedeli; come pure tutti i fedeli non devono soltanto sentire l’autorità e la sacra potestà del vescovo, ma devono pure essere in condizione di essere guidati dal consiglio, dalla persuasione e dall’esempio del loro pastore (cf LG 27).
Naturalmente queste affermazioni non vogliono avere il senso che sia riservato solo al vescovo l’esercizio del sacro ministero e che in pratica i vescovi diventino dei curati; pare però conforme all’insegnamento del Concilio che i vescovi impieghino tempo ed energie e capacità nell’esercizio di quegli uffici per i quali hanno una grazia unica e insostituibile nella Chiesa e che l’effettivo esercizio del loro ministero abbia una tale ripercussione da raggiungere tutti i fedeli attraverso la “eco” del ministero dei loro preti; non nel senso di mortificare il loro ministero, di soffocarlo e di spersonalizzarlo ma nel senso di garantirlo, di qualificarlo, di renderlo più rappresentativo, in quanto porta il segno della sua derivazione dalla pienezza di quello del vescovo, lo rende presente alla comunità, manifesta la comunione con lui e con tutti i membri del presbiterio e diventa nella Chiesa locale il segno di quella carità gerarchica che concorre al massimo della edificazione della Chiesa. ( LG 28)
Questa carità gerarchica trova ala sua espressione originale ed esemplare in una “carità più grande” che i sacerdoti hanno modo di constatare nella comunione che anima i loro vescovi dell’impegno collegiale. Non é arbitrario pensare che l’effettiva carità tra i sacerdoti debba nascere dalla carità che lega fra di loro i vescovi: dopo la ecclesiologia del Vaticano Secondo, che i sacerdoti ” secundi ordinis” debbano trovare il tipo della loro carità distintiva( Gv 13,35) in quella di coloro che del sacerdozio godono la pienezza.
Suggerimenti
A questo punto si dovrebbe affrontare concretamente il problema e dire se in Italia le diocesi debbano essere ridotte e con quali criteri.
Si esclude esplicitamente l’intenzione di dare una risposta diretta a una questione così grave e carica di difficoltà e di non minori conseguenze pastorali. Ciò che preme sottolineare é ancora una volta che la diocesi deve corrispondere all’ampiezza della sfera di azione dei poteri sacramentali del vescovo, nonché del suo inserimento nel “corpo episcopale”, e non essere invece condizionata ai “servizi” di istituzione ecclesiastica; perché i primi sono di istituzione divina, quindi di insostituibile efficacia salvifica e irreformabili, mentre i secondi debbono continuamente adeguarsi alla teologia delle realtà ecclesiali e alle esigenze dei tempi e degli ambienti a cui debbono servire.
Pare pure evidente che da un punto di vista geografico e demografico si debba escludere tanto una circoscrizione della diocesi troppo ristretta come quella eccessivamente vasta, in modo che l’azione del vescovo in un caso “debordi” e nell’altro caso non “copra” tutta l’area in cui deve svolgersi.
E’ intuitivo che la diocesi così concepita se da una parte realizza le condizioni più felici per la efficienza salvifica del ministero del vescovo, dall’altra pone delle serie difficoltà per la efficienza dei servizi: curia, seminario maggiore, centri di pastorale, eccetera.
Le difficoltà saranno fruttuosamente superate se avverrà il passaggio da una mentalità individualistica a quella collegiale richiesta dalla dottrina del Concilio.
Tutti questi servizi dovrebbero essere unificati preso la sede capoluogo della circoscrizione ecclesiastica, conferendo al vescovo di cotesta sede centrale una effettiva presidenza giuridica. I vescovi delle sedi dipendenti godano della pienezza degli uffici loro derivanti dalla consacrazione sacramentale; con una giurisdizione ” canonicamente”più ristretta di quella attuale; il vescovo della sede centrale oltre la pienezza delle giurisdizione canonica godrebbe anche della presidenza dei suoi “suffraganei” e quindi di un effettivo potere legislativo su tutta la provincia ecclesiastica, temperata, o dal consiglio o dal consenso degli altri vescovi a seconda dell’importanza dei problemi.
Determinato l’ambito di questa effettiva presidenza, si é sulla via per dare vita ad una forma collegiale di governo episcopale: sotto la presidenza del “metropolita” si studiano e si definiscono i piani di pastorale per tutta la circoscrizione; si da vita ad un unico seminario maggiore, si provvede a una razionale distribuzione del clero, soltanto nella sede metropolitana vi saranno gli uffici di Curia, gli uffici amministrativi, i vari uffici di pastorale, eccetera. Nelle diocesi suffraganee é sufficiente una cancelleria per le pratiche inerenti alla celebrazione dei sacramenti (matrimoni); come pur potranno continuare a sussistere i capitoli cattedrale con i soli compiti corali.
Naturalmente anche il metropolita dovrebbe “fare il vescovo del suo gregge” e sarà in condizione di farlo tanto più agevolmente quanto più sarà alleviato dai compiti burocratici e amministrativi ai quali provvedono gli uffici centrali, con a capo persone competenti.
Personalmente non condivido il pensiero di affidare ai suffraganei compiti settoriali per tutta la circoscrizione: ne scapiterebbe l’esercizio dei loro uffici episcopali e solo raramente tra di essi si troverebbe il vero competente che dia un reale apporto al settore a lui affidato: é meglio che lo diriga un semplice sacerdote, il quale avrà tempo per qualificarsi sempre meglio e più facilmente potrà essere soggetto..a rotazione.
Questa rotazione ovvierebbe alle difficoltà di sopprimere le sedi vescovili di una certa consistenza: la Chiesa locale, con l’instaurarsi di una mentalità più rispondente agli insegnamenti del Concilio, godrebbe degli incomparabili doni di salvezza legati all’esercizio del ministero episcopale; i sacerdoti mentre comunicherebbero con facilità con il loro vescovo, soffrirebbero meno delle conseguenze dell’isolamento ( in parecchi monumentali episcopi si potrebbe instaurare anche qualche forma di vita comune dato che cesserebbe la loro funzione di “rappresentanza”) e, dal momento che dovrebbero essere disponibili per tutta la circoscrizione ecclesiastica, si abituerebbero ad una convinzione meno chiusa del loro ministero, diventerebbe più facile impegnarli secondo le doti e le competenze di ciascuno ed esisterebbe la possibilità di favorire la specializzazione dei più dotati.
E a proposito dei servizi queste note sarebbero gravemente incomplete se non si richiamasse l’attenzione sul bisogno di dare altre dimensioni dalle attuali al seminario maggiore. Un clero sodamente formato, seriamente qualificato, aperto e disponibile anche al di là dei confini della Chiesa locale, lo si potrà avere quando il personale direttivo incarna un autentico ideale di vita sacerdotale totalmente dedito ai giovani alunni; gli insegnanti dovranno avere la libertà e la possibilità di dedicarsi seriamente allo studio; il numero degli alunni dovrà meritare il dispendio di coteste migliori energie umane e sacerdotali, come le spese finanziarie di una sana economia. Qui si tocca con mano che il Concilio, le cui disposizioni coincidono con il bene della Chiesa, esige dei tagli che possono essere dolorosi ma, ciò nonostante, indispensabili se sinceramente cercano gli interessi del Regno di Dio.
Le diocesi in Italia
(sembra la terza versione)
Il problema delle diocesi in Italia riguarda il loro numero che rispetto alla popolazione può ritenersi eccessivo; di conseguenza il problema si pone a riguardo della loro dimensione demografica ed ecclesiastica. E’ un fatto che molte diocesi italiane alla luce di una definizione canonica corrente non ne attuano i requisiti: comprendono una popolazione che non può dare vita a quegli istituti e organismi che sono ritenuti indispensabili per una vita e un governo efficiente della diocesi; basta pensare al seminario e agli uffici di curia, eccetera.
D’altro lato esistono pochi casi che mettano in evidenza gli inconvenienti, forse pastoralmente più gravi delle poche diocesi con un numero troppo elevato di abitanti: qui i fedeli sfuggono a un qualsiasi controllo e non avvertono i legami essenziali che li dovrebbero unire al vescovo perché si costituisca intorno a lui quel tanto di vita comunitaria richiesta alla essenza stessa della Chiesa locale, che appunto nel vescovo trova “il visibile principio e fondamento di unità” (LG 22)
A prima vista potrebbe sembrare che la soluzione si trovi nella fusione delle piccole diocesi e in un certo smembramento di quelle eccessivamente grandi. Si sa però che entrambi le soluzioni incontrano delle difficoltà e non sono prive di inconvenienti.
Se ne possono trovare le cause nel fatto che gli stessi vescovi hanno fino ad oggi concepito la loro funzione pastorale dipendente da quella del sommo pontefice ma si può dire, del tutto autonoma rispetto a quella degli altri vescovi.
Le conferenze regionali e soprattutto quella nazionale non hanno ancora avuto una incidenza in qualche modo valutabile a questo riguardo.
L’atteggiamento del clero diocesano é chiuso ai confini territoriali della diocesi e ad esso si associa il sentimento delle popolazioni che sentono la diocesi soprattutto come prestigio.
Questo, almeno sommariamente, per le piccole diocesi. La divisione in settori delle diocesi eccessivamente vaste é certamente un rimedio, ma non esiste ancora un collaudo che ne definisca la piena validità.
Ad ogni modo esiste una ragione di urgenza che spinge a trovare presto una soluzione al problema. La soluzione dovrebbe essere imminente, anche se aperta a quei perfezionamenti che saranno suggeriti dalla esperienza.
Il motivo dell’urgenza non é costituito soltanto dalle situazioni incerte e dalla sospensione degli animi per la sorte di parecchie diocesi, ma soprattutto al dovere di pensare e seriamente tradurre nella pratica gli insegnamenti e le direttive del Concilio, ciò che non si può ragionevolmente attendere fino a quando permane questo stato di incertezza.
Premesse teologiche per una soluzione
Valore degli uffici salvifici del vescovo
Il Concilio Vaticano Secondo mentre ha sollecitato la spinta missionaria della Chiesa fino alle estreme realtà temporali ha potentemente radicato la Chiesa nel profondo del mistero della grazia e ha con chiarezza e insistenza richiamato il ruolo insostituibile degli uffici salvifici istituiti da Cristo per la edificazione della Chiesa stessa.
I vescovi in modo evidente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice (LG 21), i loro poteri stanno all’origine, contengono la pienezza della capacità di manifestare e comunicare quella misteriosa realtà che fa rinasce i figli degli uomini e li trasforma in figli di Dio e membri della sua Chiesa.
La ragione é che , Cristo é presente in mezzo ai credenti nella persona dei vescovi e che da questa presenza trae sacramentalmente origine ogni forma di presenza di Cristo nella sua Chiesa, da quella della parola a quella della eucaristia e a quella della grazia. “Sedendo infatti alla destra di Dio padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici, ma in primo luogo e per mezzo dell’eccelso loro ministero predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno nuove membra incorpora, con la rigenerazione soprannaturale al suo corpo; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del nuovo testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine” (LG 21). Nelle comunità presiedute dal vescovo “sebbene spesso piccole e povere, é presente Cristo, per virtù del quale raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica” (LG 26).
Questi uffici non sono affidati al vescovo in un modo qualsiasi ma sono conferiti per mezzo della consacrazione sacramentale, ciò che li qualifica con la nota della stabilità, della efficacia e della sicurezza di cui Cristo ha voluto dotare i segni della grazia nella sua Chiesa. “Per compiere così grandi uffici gli apostoli sono stati riempiti da Cristo con una speciale effusione dello Spirito Santo disceso su di loro ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori, dono che é stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale” (LG 21).
Il Concilio inoltre presenta gli uffici del vescovo come qualche cosa che gode della pienezza e che le stessa pienezza deve agli altri comunicare in modo insostituibile: porta del “sommo sacerdozio” della “somma del sacro ministero” del “eccelso loro ministero” della “pienezza del sacramento dell’ordine” (cf id 21); “i vescovi quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui é dato ogni potestà in cielo e in terra, la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza” (id 24).
Così che non é indifferente ricevere i doni della salvezza, la parola, la grazia e la carità, attraverso il ministero del vescovo o attraverso altre sorgenti: queste sono sempre delle sorgenti derivate e non dirette e primarie. Ciò vuole dire che, se per ipotesi, i vescovi si limitassero a compiere gli ordini sacri e si astenessero da ogni forma di esercizio del loro sacro ministero, ciò sarebbe decisamente contrario alla volontà del Signore e il flusso della sua vita nella Chiesa sarebbe impoverito in maniera certamente grave.
Ora la natura sacramentale degli uffici salvifici richiede che “appaia” ( i vescovi in modo eminente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo, vedi LG 21), cioè sia in qualche modo percettibile il loro esercizio. Il Vaticano Secondo ha dato risalto all’aspetto sacramentale di tutta la Chiesa: il figlio di Dio é stato “udito, veduto, contemplato, toccato con le mani” (Gv 1,1). e la Chiesa é la continuazione di questa sua presenza sensibile nel mondo (cf LG 1); “Cristo costituì il suo corpo che é la Chiesa quale universale sacramento della salvezza…opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a se… e renderli partecipi della sua vita gloriosa” (id 48).
pplicato questo fondamento e principio agli uffici del vescovo, significa che la sua azione di maestro, pontefice e pastore deve esplicarsi a un livello di percettibilità; Allo stato attuale delle cose nella Chiesa non é facile definire questo grado di “percettibilità” della azione del vescovo. In certi periodi della storia della Chiesa la presenza del vescovo nella comunità locale era un fatto comune e specialmente il ministero della parola e quello liturgico non lo concepivano, se non come eccezione, che non fossero esercitati dal vescovo; comunque i presbiteri agivano come evidenti delegati del vescovo. Ai tempi nostri é diventata quasi eccezione il ministero del vescovo e abituale quella del presbitero; inoltre questi in molti casi gode di una tale stabilità giuridica , che difficilmente la sua azione può essere concepita, almeno psicologicamente, come delegata, anche se giuridicamente lo é.
Il Concilio come indubbiamente gli uffici del vescovo in primo piano e quelli del presbitero come condizionati dai primi, ma a questo, che era teologicamente pacifico anche prima, con una insistenza che si coglie ripetutamente tanto nella Lumen Gentium come nel Christus Dominus aggiunge la rivalutazione dell’esercizio di questi uffici e questo é sintomatico nella situazione attuale della Chiesa.
Il movimento biblico, quello liturgico, la coscienza pastorale che, in cero qual senso, sono nati dalla base hanno portato alla rivalutazione di realtà ecclesiali che ad un dato momento postulano di essere assunte nel dinamismo dei poteri gerarchici di cui costituiscono l’oggetto.
Perciò il Concilio esalta, definisce, raccomanda l’ “eccelso ministero della parola ” dei vescovi in cui Cristo é presente; descrive l’azione liturgica presieduta dal vescovo ( “economo della grazia del supremo sacerdozio”) come il momento culminante dell’attuazione e manifestazione della Chiesa (SC 41; LG 26); essi reggono le chiese particolari col consiglio, la persuasione oltre che con l’autorità e la sacra potestà (cf LG 27), come buoni pastori che conoscono le pecorelle e sono da esse conosciuti (cf Ch D 16);
Coscienza e azione collegiale del vescovo
La prima grande affermazione del Concilio consiste nella dichiarazione esplicita che “la consacrazione episcopale conferisce pure con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare” (LG 21); quindi gli uffici episcopali sono sacramentali nella loro origine, nella loro natura e nel loro esercizio.
La seconda affermazione destinata a caratterizzare la condizione gerarchica della Chiesa del Vaticano Secondo é quella della collegialità dei vescovi. Si può affermare che se il profondo del mistero della Chiesa é la sua unità analoga quella trinitaria, la collegialità dei vescovi costituisce di questa unità il vertice nella carità, il modello e il simbolo nella esemplarità, la sorgente nella ricchezza carismatica.
La collegialità prima di essere una realtà giuridica che pure affonda la sua consistenza nella consacrazione sacramentale, é una realtà mistica, un patrimonio soprannaturale teologico conseguente alla effusione dello Spirito Santo che crea e anima la carità di coloro ai quali é stato dato la pienezza: questi sono dotati di una grazia unica nella Chiesa, per mezzo della quale essi soli possono costituire il perno della unità nella loro Chiesa e il vincolo di unità di tutte le chiese.
Quello della collegialità , perciò non é un aspetto semplicemente giuridico della Chiesa ma il fondamento sacramentale della dinamica soprannaturale della sua unità.
Di conseguenza l’attuazione della collegialità non é semplicemente qualche cosa di potenziale che i singoli vescovi possono essere chiamati a tradurre in atto in circostanze particolari, ma é soprattutto un dovere legato all’essere e al quotidiano agire del vescovo il quale ha la chiara coscienza di non essere un individuo fornito di poteri, ma un membro di un organismo, di un corpo, di un ceto, e come tale ha il dovere di usare dei suoi poteri in comunione con gli altri membri.
A sua volta questa comunione dell’esercizio degli uffici episcopali, i quali, come più volte si é notato, sono di origine di natura sacramentale, deve pure essa possedere la nota di una concretezza “apparente”: che ei vescovi facciano i vescovi in comunione tra di loro lo si deve poter vedere. Questo può avvenire in diversi gradi e a diversi livelli: sarà evidente e sperimentato per una circoscrizione che comprende l’ambito di normali rapporti umani; sarà ancora evidente in quanto l’avvenimento cade sotto la conoscenza alimentata dai comuni mezzi di relazione; non mancherà la sua evidenza quando il fatto ha le proporzioni dell’avvenimento straordinario. Si potrebbe pensare alla circoscrizione della provincia ecclesiastica, a quella delle conferenze regionali e nazionale e alla Chiesa universale. Ma ciò che importa é che il vescovo senta la sua azione tanto più legata a quella degli altri membri del corpo episcopale quanto più concretamente il cerchio della sfera di influenza ecclesiale lo tocca da vicino.
Criteri di soluzione
La definizione canonica delle diocesi deve corrispondere alla teologia del vescovo; Secondo il documento del Concilio parrebbe che la diocesi debba essere quella entità territoriale demografica, organizzativa che mette il vescovo nella condizione di esser in modo sacramentale il maestro, il sacerdote e il pastore del suo gregge e nello stesso tempo lo implica in un effettivo esercizio della collegialità .
Il popolo di Dio che si raccoglie intorno al vescovo deve effettivamente godere degli effetti insostituibili di salvezza che sono legati agli uffici salvifici: il vescovo deve conoscere le sue pecorelle come esse devono conoscere lui (cf Ch D 16); se i vescovi sono araldi della fede, dottori autentici, se devono da tutti essere ascoltati con venerazione, ne consegue che (cf LG 25) i fedeli in modo positivo devono godere ” dell’eccelso ministero” della parola del loro maestro (id 21); l’azione sacramentale “dell’economo della grazia del supremo sacrificio” e la celebrazione liturgica presieduta dal vescovo deve in modo evidente raggiungere tutti i fedeli; come pur ei fedeli non devono soltanto sentire l’autorità e la sacra potestà del vescovo, ma devono pure essere in condizione di essere guidati dal consiglio, dalla persuasione e dall’esempio del loro pastore (cf LG 27).
Naturalmente queste affermazioni non vogliono avere il senso che sia riservato solo al vescovo l’esercizio del sacro ministero e che in pratica i vescovi diventino dei curati; pare però conforme all’insegnamento del Concilio ce i vescovi impieghino tempo ed energie e capacità nell’esercizio di quegli uffici per i quali hanno una grazia unica e insostituibile nella Chiesa e che l’effettivo esercizio del loro ministero abbia una tale efficienza e ripercussione da raggiungere tutti i fedeli attraverso la eco del ministero dei loro preti; non nel senso di mortificare il loro ministero, di soffocarlo e di spersonalizzarlo ma nel senso di garantirlo, di qualificarlo, di renderlo più efficiente in quanto porta il segno della sua derivazione dal ministero del vescovo lo rende presente alla comunità e manifestando la comunione con lui e di conseguenza con tutti i membri del presbiterio diventa nella Chiesa locale il segno di quella carità gerarchica che concorre al massimo della edificazione della Chiesa (LG 28).
Questa carità gerarchica trova ala sua espressione originale ed esemplare in una carità più alta che ei sacerdoti hanno modo di constatare nella comunione che anima i loro vescovi nell’impegno di una azione collegiale. Si potrebbe forse pensare che l’effettiva carità tra i sacerdoti debba nascere dalla carità che esiste tra i vescovi: é forse sbagliato, dopo la ecclesiologia del Vaticano Secondo, che ei sacerdoti di ordine inferiore debbano trovare il tipo della loro carità distintiva in quella di coloro che del sacerdozio godono la pienezza.
Suggerimenti
A questo punto si dovrebbe affrontare concretamente il problema e dire se in Italia le diocesi debbano rimanere quante sono oppure debbano essere ridotte.
Le premesse e i criteri desunti, si spera con esattezza, dalla teologia del Concilio porterebbero a questa conclusione: le diocesi in Italia non sembrano troppe, tuttavia é indispensabile un’altre definizione canonica.
Tolti i casi di diocesi evidentemente inconsistenti, la maggior parte di esse potrebbe rimanere in quanto all’ampiezza territoriale e il numero degli abitanti forse corrisponde alle effettive possibilità personali di ministero del vescovo, coadiuvato dai suoi sacerdoti; Però é altrettanto evidente che le chiese che si raccolgono intorno al vescovo in queste circoscrizioni territoriali sono del tutto insufficienti a sostenere quelle istituzioni,quegli uffici e quei centri di organizzazione di cui la diocesi ha bisogno per un efficace svolgimento dei suoi compiti
Tutti questi servizi potrebbero essere unificati preso la sede capoluogo della circoscrizione ecclesiastica, conferendo al vescovo di cotesta sede centrale una effettiva presidenza giuridica. I vescovi delle sedi dipendenti godono della pienezza degli uffici loro derivanti dalla consacrazione sacramentale; con una giurisdizione più ristretta di quella attuale; il vescovo della sede centrale oltre la pienezza delle giurisdizione canonica godrebbe anche della presidenza dei suoi suffraganei e quindi di un effettivo potere legislativo su tutta la provincia ecclesiastica, temperata, se si vuole, o dal consiglio o dal consenso degli altri vescovi.
Determinato l’ambito di questa effettiva presidenza, si é sulla via per dare vita ad una forma di collegialità di governo episcopale sotto la presidenza del “metropolita” si studiano e si definiscono i piani di pastorale per tutta la circoscrizione; si da vita ad un unico seminario maggiore, si provvede a una razionale distribuzione del clero, soltanto nella sede metropolitana vi saranno gli uffici di Curia, gli uffici amministrativi, i vari uffici di
pastorale, ecc.
Nelle diocesi suffraganee é sufficiente una cancelleria per le pratiche inerenti alla celebrazione dei sacramenti (matrimoni); come pur potranno continuare a sussistere i capitoli cattedrale con i soli compiti corali.
Parrebbe questa la soluzione che ovvierebbe alle difficoltà di sopprimere le sedi vescovili di una certa consistenza; le chiese locali, con l’ instaurarsi di una mentalità più rispondente agli insegnamenti del Concilio godrebbe degli incomparabili doni di salvezza legati all’esercizio del ministero episcopale; i sacerdoti mentre godrebbero della vicinanza del vescovo soffrirebbero meno delle conseguenze dell’isolamento, in parecchi “monumentali” episcopi si potrebbe instaurare anche qualche forma di vita comune dato che cesserebbe la loro funzione di rappresentanza e, dal momento che dovrebbero essere disponibili per tutta la circoscrizione ecclesiastica, si abituerebbero ad una convinzione meno chiusa del loro ministero, diventerebbe più facile impegnarli secondo le doti e le competenze di ciascuno ed esisterebbe la possibilità di favorire la specializzazione dei più dotati. L’inconveniente del frazionamento delle piccole diocesi sarebbe ovviato con una efficiente forma di governo e di servizi centralizzati ai quali, in determinata misura, tutti parteciperebbero e dei quali tutti porterebbero la responsabilità.
In ultimo si fa osservare che le circoscrizioni ecclesiastiche in più di un caso non dovrebbero corrispondere a quelle delle province civili, perché continuerebbero ad essere delle diocesi incomplete quanto a una efficiente organizzazione dei servizi, in particolare per quanto riguarda il seminario maggiore, che in parecchie Zone non solo dovrebbe essere interdiocesano ma interprovinciale
ST 338 Diocesi 1966 – dattiloscritto: Intervento del vescovo nella Commissione per il riordinamento delle diocesi in Italia – senza correzioni manoscritte e perciò si suppone pronta per la stampa. Non ho trovato questa stampa (SL)