Per la chiarezza di ciò che si vuol dire conviene intendersi sul significato dei termini. « Vita comune » nel linguaggio corrente significa almeno tre cose:
a) vivere in comune, cioè, insieme nella stessa casa, secondo la stessa regola, con un unico Superiore;
b) vivere allo stesso modo e quindi tendere a uniformarsi agli altri nella osservanza di una regola, con la cura di evitare ogni singolarità, sia nel cercare attenuazioni o accentuazioni;
c) il significato più profondo, che non comprende necessariamente in tutti gli aspetti i due primi, ma che li dovrebbe piuttosto animare, è quello di una forma di vita ispirata da un motivo unitario, sostenuta dalle virtù che alimentano l’unione tra i membri di un Istituto religioso, e che ha più ragione di fine che di mezzo in ordine al raggiungimento della perfezione della vita cristiana.
Fermeremo la nostra attenzione di prevalenza sul terzo aspetto, che ci pare il più fecondo ai fini di un giusto concetto e di un serio rinnovamento della vita religiosa.
Il rinnovamento promosso dal Concilio e le indicazioni dottrinali e disciplinari che lo devono ispirare e guidare, tendono a stabilire un equilibrio tra l’elemento teologico e quello giuridico di tutte le forme di vita che si esplicano nella Chiesa; anzi la Chiesa stessa è descritta con un linguaggio e soprattutto con dei concetti che sono molto più conformi alla Rivelazione, di quanto non fossero la terminologia e le categorie secondo cui era presentata negli ultimi tempi.
La natura genuina della Chiesa che attua nel tempo e nello spazio il Mistero di Cristo è descritta secondo la sua caratteristica per cui è nello stesso tempo umana e divina, visibile e dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla futura (cf Sacrosanctum Concilium, 2)
Di più, il vertice del Mistero della Chiesa è l’attuazione della sua analogia col Mistero Trinitario, che il Concilio richiama con le parole della più antica tradizione, definendo la Chiesa come un popolo che si aduna nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e i cui membri sono tra di loro compaginati e insieme sottoposti all’unico Capo, Cristo (cf Lumen gentium, 4).
La profondità del Mistero della Chiesa, proposto così insistentemente dal Concilio in tutti i suoi documenti, e le conseguenze da esso derivanti devono ispirare ogni rinnovamento di vita nella Chiesa.
Il motivo ecclesiale della vita comune
La vita comune caratteristica dello stato religioso trova la sua motivazione, la sua sorgente e la sua causa esemplare in quello che abbiamo chiamato il vertice del Mistero della Chiesa, cioè la sua unità analoga alla unità delle Divine Persone. Questa affermazione, che corrisponde al principio più fondamentale e distintivo del Cristianesimo, va presa secondo tutta la gravità del suo peso: non c’è Chiesa dove non c’è unità; ogni forma di vita corrisponde alle esigenze del Cristianesimo nella misura in cui soddisfa questa esigenza di unità.
Nella prospettiva ecclesiale posta in luce dal Concilio le affermazioni, in particolare, di S. Giovanni e di S. Paolo non hanno un semplice valore di norma morale, ma riguardano l’elemento costitutivo della Chiesa e quello ontologico del Cristianesimo: elementi che esistenzialmente coincidono e si identificano.
La condizione di figli di Dio, (cf Gv 1, 12; Ef 1, 5)
quelli di tralci dell’unica Vite, (cf Gv 15, 5)
di membra del Corpo di Cristo (cf 1 Cor 12, 12 ss);
la vocazione ad essere una cosa sola come Gesù e il Padre sono uno solo (cf Gv 17, 21-23),
l’impegno ad amarci scambievolmente perché Dio sia in noi (cf l Gv 4, 12),
a professare la verità nella carità per crescere in colui che è il nostro Capo, da cui tutto il corpo, compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni membro, realizza la sua crescita per l’edificazione di se stesso, nella carità (cf Ef 4, 15-16), non sono soltanto degli elementi di condotta morale, ma sono delle realtà ontologiche, costitutive della vita di un organismo soprannaturale.
Il motivo morale e la norma che ne deriva, non nascono semplicemente dal comando esteriore della volontà di Dio, ma dalla esigenza interiore di un principio vitale organico, intrinseco all’essere stesso del cristiano e della Chiesa, nella quale soltanto “l’essere cristiano” può attuarsi.
Uno diventa cristiano dal momento in cui è inserito sacramentalmente col Battesimo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa: da quel momento egli diventa tralcio di un’unica Vite, agnello di un unico ovile, pietra di un unico tempio.
Nella vita cristiana non c’è posto per l’isolamento, per l’ individualismo; la persona si definisce con più evidenza nel suo essere « relativo agli altri », e non semplicemente come soggetto cosciente e libero.
La prospettiva ecclesiale pone la persona nella giusta dimensione comunitaria che le è connaturale.
La vita religiosa è eminentemente ecclesiale, e perciò deve manifestare profeticamente il Mistero della Chiesa e corrispondere alle esigenze della sua natura.
E’ significativa l’insistenza con cui i Documenti del Concilio rilevano come lo stato religioso non riguarda la struttura della Chiesa, ma la sua vita, la sua santità e la sua missione.
Questa precisazione fa intendere che la vita religiosa non deriva la sua origine dal carattere di un Sacramento, ma piuttosto dal grado di efficienza della grazia dei Sacramenti.
La Chiesa è strutturata da un diverso modo, grado e natura di partecipazione all’unico Sacerdozio di Cristo, per cui mentre i suoi membri godono di una medesima dignità e libertà di figli di Dio (cf Lumen Gentium, 9), ognuno gode di un suo compito e di una sua grazia.
Lo stato religioso non è una condizione intermedia tra quella clericale e quella laicale; i suoi membri provengono da entrambe le parti; la loro caratteristica distintiva è costituita da un impegno morale, sancito canonicamente, di tendere alla perfezione della carità (cf ivi, 17).
Quindi, costituzionalmente la vita religiosa non è una Chiesa a parte, ma una espressione dell’unica Chiesa di Cristo e il rapporto, cioè la comunione con essa è una delle idee dominanti tutta la dottrina del Concilio, che intenzionalmente deve essere applicata alla vita religiosa (cf Paolo VI all’USMI, 12.1.1967).
Dell’unica Chiesa di Cristo i Religiosi devono vivere e manifestare la realtà più intima, che ha il suo segreto nella presenza attiva dello Spirito Santo, il quale diffonde la carità nei cuori. Per questo, la vita religiosa come è stato detto prima, « si definisce da una esigenza fondamentale di amore, dalla pienezza dell’amore: a Dio, e quindi a Cristo, alla Chiesa, al prossimo, a ogni creatura (come san Francesco); una pienezza che non conosce misura… un amore che non conosce ostacoli: ecco il senso liberatore dei voti religiosi, che intendono appunto rimuovere ogni impedimento, anche naturale, anche legittimo, all’unico, al sommo, al pieno amore di Dio » (Paolo VI, ivi).
Paolo VI, volendo far rilevare la accentuazione data dal Concilio alla caratteristica della vita religiosa, continua: « Ma ciò che deve fermare l’attenzione è il richiamo al carattere amoroso della vita religiosa, carattere che la distingue, la qualifica, la finalizza; e non in modo puramente giuridico, convenzionale, esteriore, ma in modo intimo, profondo, totale, esclusivo, intenso, assoluto » (l.c.).
La vita comune ha ragione di fine nello stato religioso
La vita religiosa è vita di Chiesa, e della vita della Chiesa attua l’elemento essenziale, il più prezioso e intimo che è quello dell’unità nella carità.
Il decreto « Perfectae caritatis » al numero 15 si esprime nei termini più suggestivi della Rivelazione, che richiamano, appunto, l’unità nella carità nella Chiesa:
«La vita comune, sull’esempio della Chiesa primitiva in cui la moltitudine dei credenti era di un cuor solo e di un’anima sola (cf At 4, 32), nutrita per mezzo degli insegnamenti del Vangelo, della sacra Liturgia e soprattutto della Eucarestia, perseveri nell’orazione e nella stessa unità di spirito (cf At 2, 42).
«I Religiosi come membri di Cristo, in fraterna comunanza di vita, si prevengano gli uni gli altri nel rispetto scambievole (cf Rm 12, 10), portando gli uni i pesi degli altri (cf Gal 6, 2). Infatti con l’amore di Dio diffuso nei cuori per mezzo dello Spirito Santo (cf Rm 5, 5), la comunità come una famiglia unita nel nome del Signore gode della sua presenza (cf Mt 18, 20).
«La carità è poi il compimento della legge (cf Rm 13, 10) e vincolo di perfezione (cf Col 3, 14), e per mezzo di essa noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita (cf 1 Gv 3,14). Anzi l’unità dei fratelli manifesta l’avvento di Cristo (cf Gv 13, 35; 17, 21), e da essa promana grande energia per l’apostolato ».
La vita religiosa allo stato attuale è la conseguenza del mancato equilibrio degli elementi che la definiscono: è stata accentuata l’importanza dei consigli evangelici, si è parlato di consacrazione, è stata lasciata in ombra la vita comune, intesa come vita di unità nella carità, soprattutto nel senso ecclesiale. E’ un fenomeno che ricalca quello della vita cristiana in genere: il moralismo che è prevalso sugli elementi ontologici e soprannaturali del Cristianesimo.
Il rinnovamento della vita religiosa non può ignorare questa situazione e di conseguenza non incominciare da ciò che è fondamentale.
I Religiosi sono quei membri del Popolo di Dio che vivono, manifestano in modo profetico, sacramentale l’avvento del regno di Dio nel Mistero della Chiesa; sono, per una vocazione singolare, discepoli di Cristo che si riconoscono dal fatto di amarsi tra di loro (cf Gv 13 35); sono i custodi qualificati del « comandamento nuovo» (cf Gv 13 34) perché si amano a vicenda; sono quelli che camminano nella Ioro vocazione perché professano il “precetto del Signore” (cf Gv 15, 12) di amarsi come egli li ama. Questa qualifica, di vita fondata sulla «più grande» virtù teologale, costitutiva della vita della Chiesa e della perfezione cristiana, definisce la sostanza della vita religiosa.
La stessa unione con Dio, per mezzo del Cristo, nello Spirito avviene nella Chiesa per il vincolo della carità. La consacrazione che dà carattere di stabilità a questa unione e che la qualifica religiosamente nel senso del culto a Dio, non è un rapporto individuale con Dio, ma filiale col Padre, sponsale col Figlio, vitale nello Spirito; ciò implica a sua volta un rapporto necessario con i figli del Padre, con la Sposa del Cristo, con le membra di questo Corpo di cui lo Spirito è l’anima.
Questa è la ragione per cui non possiamo amare Dio se non amiamo i fratelli; non siamo in comunione con Lui se non lo siamo con i fratelli, come non passiamo dalla morte alla vita, sempre, se non amiamo i fratelli (cf 1 Gv 3, 14); cesserà tutto, solo la carità non avrà mai fine (cf 1 Cor 13). Dunque, come l’amore finalizza la vita religiosa, così la vita comune che l’attua entra come fine nello stato religioso.
Paolo VI (l.c.), con una espressione felicissima, parla di «senso liberatore dei voti religiosi», appunto perché rimuovono ogni impedimento alla pienezza dell’amore.
Il Concilio presenta i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza come condizione indispensabile per la pratica della vita cristiana e oggetto dei voti e della professione dello stato di perfezione, nella prospettiva del Regno dei cieli, della imitazione di Cristo e della capacità di un amore più grande. Accentua la motivazione positiva della rinuncia, che non è solo quella di evitare il peccato, ma decisamente quella della perfezione dell’ amore a Dio e quindi a Cristo, alla Chiesa, ai fratelli e a tutte le creature. Se richiedono rinuncia e quindi mortificazione, questo non avviene per un motivo di inibizione che limita, ma per liberazione che apre alla più larga espansione della persona.
Citiamo ancora le parole del Papa: «Ditelo voi alle anime avide di perfezione, aperte all’idealismo evangelico, delle quali ancora è scintillante la nostra gioventù, dite che cosa sia una vocazione religiosa, a cui la Chiesa offre la sua severa, ma corroborante palestra ascetica, e apre gli orizzonti delle più inebrianti ascensioni dello spirito; dite che cosa valga una vita a cui l’amore, nella espressione più pura e più forte, l’amore di Dio, infligge il suo delizioso tormento e infonde la sua letizia che non si spegne; dite quale missione può essere riservata a una esistenza che si immola con Cristo nel sacrificio senza ritorno, e che assume nella Chiesa e nel mondo significato e forza di altrui redenzione » Paolo VI
Questi ideali comunicano la loro carica entusiasmante, queste ragioni sono convincenti, questi motivi sono validi, solo se si riscontrano nella concretezza della vita comune dei Religiosi. Siamo al punto critico di un discorso molto serio: esiste un principio che riguarda tutta la vita cristiana: gli altri credono se costatano che i credenti si amano tra loro (cf Gv 13, 35). L’esigenza di questo principio, con le sue responsabilità e conseguenze, è determinante per la validità e l’efficacia della vita religiosa.
Oggi poi, nella situazione corrente, è quasi impossibile testimoniare una effettiva povertà; alla castità molti non credono; l’ubbidienza quasi nessuno la può costatare; solo l’amore vicendevole è quel «fenomeno paradossale agli occhi del mondo, il quale osserva, e subisce davanti a esso le reazioni più varie: di meraviglia, di ripulsa, di disprezzo, di attrattiva, di curiosità, di fiducia e di venerazione» (Paolo VI, l.c.). Il mondo intuisce che non può esistere la gioia sincera di un amore fraterno, senza un misterioso segreto, che rende verosimili anche le rinunce che si professano.
L’attuazione della vita comune
L’unità nella carità è una meta da raggiungere, che va di pari passo con la tensione verso una vita evangelicamente perfetta.
E’ pacifico che allo stato religioso ci si arriva per un dono particolare di Dio, che chiama a uno stato di perfezione. Tuttavia è necessario non scambiare il desiderio di perfezione con la vocazione allo stato religioso: non è sufficiente che uno custodisca gelosamente la castità, che sia distaccato dagli interessi mondani, che sia docile e generoso, per concludere che ha la vocazione religiosa. Chi ha queste disposizioni diventa Religioso non per il semplice fatto che emette i voti religiosi, ma per una decisione soggettivamente più impegnativa di entrare in una determinata forma di vita comunitaria.
Necessità di un cosciente inserimento fra i membri dell’ istituto
La perfezione della vita cristiana si può raggiungere in qualsiasi stato e i consigli evangelici, che ne sono la condizione, si possono praticare anche rimanendo nel mondo, altrimenti sarebbe illusoria la universale vocazione alla santità. Il Concilio ha dissipato energicamente questo preconcetto: « tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità »(Lumen gentium, 42).
Chi abbraccia lo stato religioso entrando in un Istituto che persegue un fine specifico, deve tenere ben presente che questo fine non lo raggiungerà perché ha emesso i voti in quell’Istituto, ma perché con i voti si inserisce tra i membri dell’Istituto: l’ideale di perfezione di vita cristiana dell’Istituto in cui entra lo raggiungerà attraverso il compaginamento concreto coi membri che lo compongono. Così che il tempo di prova che precede i voti definitivi è un tempo a disposizione sia della comunità che deciderà dell’ammissione dell’aspirante, sia dell’aspirante stesso che deve assicurarsi se la comunità persegue con impegno sincero l’ideale che egli ha abbracciato. Il giudizio deve essere doverosamente reciproco e dovrebbe essere considerato naturale (anche se penoso) che un soggetto si ritiri da un Istituto non per mancanza di vocazione, ma perché ha scoperto che questi non presenta le condizioni per realizzarla.
Se l’aspirante ha il diritto e il dovere di conoscere in concreto le condizioni di vita dell’Istituto, a sua volta la comunità, attraverso le persone alle quali è demandato il compito, deve rendersi conto se il soggetto, oltre che i requisiti per una vocazione religiosa, possieda in particolare quelli che contribuiscono attivamente al raggiungimento dell’ideale che la comunità professa.
E’ superfluo richiamare qui gli elementi che definiscono la vita comune come è dettagliata dalla regola. Facciamo solo un cenno a ciò che, a nostro avviso, è particolarmente importante nella situazione attuale per realizzare una vera vita di comunità.
Doti e condizioni necessarie per realizzare una vera vita comune
Diamo per scontata la necessità dello spirito soprannaturale da cui deve essere animato un Religioso, e dei mezzi che la tradizione ha sempre indicato per il raggiungimento della perfezione. Ci soffermiamo sulle doti e sulle condizioni cosiddette naturali.
Al primo posto mettiamo l’equilibrio del temperamento. Non è sufficiente che il Religioso sia una persona dalla vita spirituale soda, magari fornito di eccellenti capacità professionali; egli è uno che deve vivere con gli altri gomito a gomito, che deve concepire la vita spirituale come comunione con gli altri, che dovrà normalmente svolgere il suo lavoro in collaborazione. Con questo criterio si deve giudicare della sua idoneità: non importa che preghi per la comunità e tanto meno devono far gola le sue capacità. Le pietre negli ingranaggi producono sempre stridori e inceppamenti, fossero pure pietre preziose.
Guardare al buon senso: comprende un grado notevole di intelligenza, di apertura mentale, di senso del concreto e dell’opportuno: tutte qualità indispensabili per vivere con gli altri, capirli, scusarli.
Mettere alla prova lo spirito di adattamento, sia per quanto riguarda le persone, gli uffici, gli ambienti: esiste il pericolo che si rivelino degli eterni malcontenti.
Naturalmente si richiede quel tanto di salute per cui non si debba incominciare con le deroghe all’osservanza comune.
Da parte della comunità invece, ci deve essere la preoccupazione e l’impegno effettivo di assicurare ai membri della comunità le condizioni normali per una vita igienicamente e psichicamente sana.
Il vitto sano, variato, soddisfacente; le abitazioni anch’esse sane; gli abiti, particolarmente quelli femminili, che non servano solo a coprire, ma a salvaguardare l’efficienza di tutti gli organi… compreso quello dell’udito; sia largamente favorito il contatto con la natura. Il tono normale delle energie fisiche e tutto ciò che distende rende più facile la convivenza.
Oggi poi, una questione grossa è quella del lavoro: quasi nella totalità dei casi esso è assorbente al di sopra del livello di una comune resistenza; facilmente si tocca il limite dell’esaurimento organico e nervoso. A questo punto la vita comunitaria è già compromessa, o più semplicemente è compromessa la vita religiosa. Senza contare che la vita in comune viene a mancare materialmente, perché non c’è il tempo di incontrarsi e di stare insieme nella condizione di potersi scambiare il pensiero (si abolisse almeno la lettura in refettorio e ci fosse un libero scambio dei posti, anche se ne va di mezzo l’ordine di precedenza!); una stanchezza abituale toglie la possibilità di alimentare la vita religiosa, perché diminuisce la capacità di accogliere la Parola di Dio, di partecipare all’azione liturgica.
E gli impegni professionali? Che cosa importa il numero di ammalati assistiti o le ore di lezione svolte, se la stanchezza ha reso impossibile la serenità e la gioia della propria dedizione e facilmente ha dato luogo a comprensibili manifestazioni di insofferenza e di impazienza! E la pratica impossibilità di prepararsi e di aggiornarsi non mette in condizione di venir meno a uno stretto e grave dovere di giustizia, di dare agli altri ciò che legittimamente attendono?
E’ vero, le opere urgono; ma è pur vero che a causa delle opere in troppi casi la vita religiosa cala di tono e le viene a mancare quel fascino indispensabile per suscitarne l’attrattiva. Non si dimentichi che i santi hanno riconosciuto « la tentazione delle opere »!
A questo problema va connesso quello della solitudine personale. Che un individuo debba vivere sotto gli occhi degli altri ventiquattro ore su ventiquattro è inumano. Nella persona esiste una intimità, che è il luogo del suo arricchimento, da partecipare poi agli altri: se deve essere umana, oltre che spirituale deve essere anche fisica. Non si capisce perché si continui a concepire la vita religiosa di clausura con la cella individuale (e si tratta di una vita dall’andamento più ordinato e calmo) e si escluda per i Religiosi, soprattutto per le Religiose di vita attiva la possibilità di chiudersi la porta alle spalle per sentirsi fisicamente soli davanti a Dio e con se stessi.
Ogni persona oscilla sempre tra i due poli dell’individualismo egocentrico chiuso e dispotico e del disimpegnato abbandono al comunitarismo assorbente. Il punto di equilibrio sta nella retta autonomia della persona e nella positiva integrazione della comunità: la persona in condizione di donarsi alla comunità e la comunità capace di arricchire la persona. E’ naturale, allora, che ci sia il momento della assimilazione dei doni comunitari e il momento di ricambiare agli altri gli stessi doni più arricchiti: il momento della solitudine personale e il momento della attiva partecipazione alla vita comunitaria.
Stare con se stessi per attingere nuova capacità di dare, comporta un’altra esigenza, e questa è riconosciuta nientemeno che dal nostro Padre che sta nei cieli: quella di riposare un giorno alla settimana (cf Gn 2, 3; Es 34, 21; 35, 2) .
Una certa casistica ha distinto tra opere servili e opere liberali, ha legato materialmente il riposo alla Domenica.
Il riposo ha tutta la ragione di essere anche se non è possibile farlo coincidere con il giorno festivo: è destinato ad alleviare la fatica e non importa se questa derivi da opere servili o da opere liberali.
E’ scritto nella legge di Dio, anche se la regola non lo contempla ancora.
Il legalismo, il mancato aggiornamento con la evoluzione dei tempi ha creato delle situazioni insostenibili di fronte alle esigenze naturali e a quelle della stessa legge di Dio.
Si conceda alla persona religiosa uno spazio di vero riposo settimanale (e anche annuale), lasciandola libera anche dagli atti comuni di pietà, quando esistessero le condizioni per soddisfarvi altrimenti.
Dove si è avuto il coraggio di disporre in questo senso le cose, la vita comunitaria se ne è evidentemente avvantaggiata.
Conclusione
Una esemplare e operante presenza della Chiesa di Dio « reclama forme nuove, più alte, più degne della società ecclesiale, più virtuose e più conformi allo spirito di Gesù Cristo » (Paolo VI, l.c.).
Lo Spirito Santo ha imposto una visione più chiara e, per molti aspetti, nuova delle cose di Dio; a questa visione deve corrispondere l’adattamento delle strutture ecclesiali ma soprattutto la mentalità.
Oggi questo discorso lo fanno tutti, c’è il pericolo che diventi un luogo comune e che nasca il convincimento che le cose siano cambiate perché il discorso lo ripetiamo anche noi. Ma il rischio è quello di resistere allo Spirito Santo.
E’ Lui che ha ispirato la convocazione del Concilio, Lui che lo ha guidato, retto, sostenuto e lo ha fatto pervenire a mète di una elevatezza e profondità forse mai registrate nel Magistero della Chiesa.
Quando Egli agisce crea e rinnova. Se qualcuno pensasse che le cose devono stare come prima, persuaso che vanno bene, nega un fatto storico a cui è legata la presenza dello Spirito Santo.
Come c’entrano queste affermazioni al termine di una esposizione sulla vita comune negli Istituti religiosi?
E’ per un richiamo storico alla vita della Chiesa: esse sono coincise o col sorgere dei grandi Ordini religiosi o con la loro riforma.
L’importanza della funzione profetica della vita religiosa nella Chiesa è sempre attuale.
Oggi che un Concilio pone a base di tutte le sue affermazioni l’unità del Popolo di Dio e riconosce questa unità come condizione indispensabile perché il mondo creda, è di una evidenza incontestabile che la vita religiosa deve rinnovare questa unità nella carità cosciente di una responsabilità profetica rispetto alla Chiesa e al mondo intero.
CARLO FERRARI
Vescovo di Monopoli
ST 215 Vita comune 1967