per il piano catechistico diocesano 1980
Carissimi, con questo opuscolo vi viene data la possibilità di avere sottocchio le cose principali che riguardano il nostro discorso sulla catechesi, specialmente in questi ultimi anni.
Il nostro discorso ha avuto la sorte felice di essere coronato dal documento pontificio “Catechesi Tradendae” di Giovanni Paolo II. E’ un documento di cui dobbiamo tenere conto sia per essere confermati nelle nostre scelte, sia per essere ulteriormente illuminati, sia per aprirci a nuovi orizzonti.
Richiamo la vostra attenzione sulla situazione in cui siamo chiamati a operare. Le persone all’apparenza possono sembrare sempre le stesse, ma dobbiamo fare i conti con le nuove categorie di valori che di fatto si sono instaurati in esse, per non correre il rischio di non essere intesi o di essere fraintesi; certi valori non esistono piú, certe parole con cui si definivano i valori tradizionali hanno cambiato senso.
Di conseguenza dobbiamo tenere nel dovuto conto le situazioni di fatto che solo all’apparenza hanno una continuità ma che mettono la persona in condizioni nuove e generalmente di strette difficoltà, specialmente di ordine morale. Non è l’impegno che deve venir meno, ma è la sorgente e il riferimento dell’impegno che debbono cambiare.
Bastino queste due considerazioni, appena accennate per convincerci che ci troviamo dinanzi ad una crisi di valori e di situazioni e che quindi noi stessi dobbiamo mettere in crisi certe nostre sicurezze, certe nostre vedute, certi nostri metodi per essere in grado di rispondere alle esigenze della missione che la Chiesa ci affida.
Le indicazioni che troverete in queste pagine, i nuovi Catechismi, la “Catechesi tradendae”, sono dei semplici richiami rispetto a tutta la problematica della catechesi e che debbono servire come stimoli per accettare di metterci in crisi.
Date alla parola “crisi” non il senso di fallimento ma di travaglio positivamente impegnato per uscire aggiornati come esige la gente alla cui salvezza siamo destinati.
Rinascere è la parola evangelica che deve illuminare il senso dell’urgenza di diventare attuali secondo le esigenze piú profonde che sono quelle dello Spirito.
Buon lavoro!
Mantova, 14-1-1980
Carlo FERRARI vescovo
Premessa
“Vi parlo con senso di responsabilità e di trepidazione, come, forse, non mi è mai accaduto. Le cose che vi espongo non sono del tutto nuove ma vi accorgerete che nuovo è il modo perentorio con cui ve le espongo: questo modo non è dettato da uno stato d’animo, ma dal fatto che le cose si sono fatte più chiare e urgenti; sarebbe come volere ostinarsi a camminare per una strada incerta quando quella giusta è palesemente indicata. Il mio atteggiamento però è anche di trepidazione: richiedere ai propri collaboratori un impegno grave e urgente e che, sotto certi aspetti, esige atteggiamenti e indirizzi nuovi non lo si fa a cuore leggero. Io ho la chiara coscienza che prospettandovi ciò che esige da noi la catechesi oggi è molto scomodante: tocca il vivo della nostra persona, rompe una consuetudine e perciò esige sacrifici, fatiche, ricerche e tanta speranza”.
Se la vostra presenza non mi dicesse a chiare note che voi siete qui per una ricerca fatta insieme al fine di rendere cristianamewnte efficaced quel azione catechistica a cui tutti ci dedichiamo non avrei il cotaggio di offrire questo discorso alla vostra attenzione a al vostro studio onde sollecitare delle decisioni e delle indicazioni operative (Dalla Rivista Diocesana 1978, pag. 384-385)
“Ecco i punti sui quali richiedo di impegnare il lavoro pastorale della diocesi:
1/ La nostra azione catechistica deve privilegiare gli adulti;
2/ Si fa catechesi comunicando una esperienza vissuta delle realtà cristiane;
3/ Nella catechesi: rifarsi alla pedagogia di Dio del ‘resto vitale’,
4/ La preparazione e qualificazione dei catechisti.
1) Anzitutto agli adulti
“L’affermazione è talmente evidente che non richiede molte riflessioni: ciò che importa è prenderne atto con onestà e in un modo responsabile. Quello che si fa nelle nostre comunità in ordine alla catechesi, e generalmente in modo coscienzioso ed encomiabile, ha per soggetto quell’arco dell’esistenza umana ancora in evoluzione, incapace di piena libertà e autonoma responsabilità e perciò, da un punto di vista dello sviluppo della persona umana, immatura: fanciulli, ragazzi, adolescenti.
Per cause e circostanze varie quando l’individuo raggiunge là sua maturazione umana, di fatto, non viene più catechizzato.
Il quadro che ne risulta è desolante: in paesi come i nostri, che vivono più profondamente di quanto non appaia il fenomeno della secolarizzazione, la maggior parte degli individui non hanno nessun serio riferimento al sacro (almeno il 60 per cento), solo una minoranza (nella migliore delle ipotesi il 40 per cento) ha riferimenti abitudinari a fatti che sono accompagnati anche da comportamenti cristiani, rispetto ai quali però non sono pienamente liberi e coscientemente responsabili, perché non sono in grado di darsene la ragione vera; solo una percentuale quasi irrilevante è nella condizione di dare ragione della propria speranza.
Notate che a questo tipo di adulti delle nostre comunità noi presumiamo che si appoggi la lede dei giovani, soggetto della nostra attività catechistica e che inoltre questi stessi adulti sono l’unico punto di riferimento della vita dei nostri catechizzati: è più che normale che quasi tutti i nostri ragazzi, ricevuta la Cresima, tagli ogni rapporto con una presunta vita di fede.
Ma soprattutto ciò che va rilevato con maggiore chiarezza è che non esiste altra via per garantire una autentica catechesi dei piccoli e la sua continuità se non cambia la comunità degli adulti.
2/ che cosa significa
Se spostare il nostro impegno dalla catechesi ai piccoli – la quale dovrà continuare e migliorare – alla catechesi agli adulti significa una distribuzione nuova nella economia delle nostre energie pastorali, una impostazione altrettanto nuova esige la concezione della catechesi oggi.
In un passato, di cui ormai molti non hanno più il ricordo, le nuove generazioni venivano catechizzate con l’apprendimento nozionale e il ricordo mnemonico del contenuto sistematico della fede; tutto poi era riferito al comportamento degli adulti che in sostanza si adeguava ad un costume di ispirazione cristiana; in questo costume era emergente una esperienza di vita naturalmente comunicata da una generazione all’altra.
Anche se questo quadro ridotto all’essenziale è approssimativo, è pure innegabile che ciò che manca nell’attuale ambiente secolarizzato è la componente esperienziale cristiana. Tra una generazione e l’altra c’è una discontinuità che non è tanto l’indice di una rottura, ma quella del vuoto. E’ sintomatico che, a differenza del catechismo di S. Pio X, il quale era destinato prevalentemente ai piccoli – erano tempi di sostanziale tradizione cristiana – il Direttorio generale della S. Congregazione del Clero privilegi insistentemente e diffusamente gli adulti e che inoltre il Sinodo del 1977, che si proponeva sul tema della Catechesi, con un particolare riferimento ai fanciulli e ai giovani, constatò che questa non può raggiungere le sue finalità se non si risolve il problema della catechesi degli adulti.
Ma a prescindere dalla catechesi dei piccoli che pure ha una importanza irrinunciabile, ciò che conta è la natura della vita cristiana la quale consiste in una somma di rapporti interpersonali con Dio e con gli uomini a un livello che trascende e nello stesso tempo garantisce ogni valore umano e che dà senso a tutta l’esistenza. E’ chiaro che non può dare senso a una esistenza ciò che non è pienamente conosciuto, liberamente accettato e coscientemente fatto proprio: non esiste la chiara proposta di una scelta che dà fondamento all’opzione fondamentale della propria vita, vale a dire alla motivazione profonda che entra nella giustificazione ultima e prevalente di ogni atto.
Bastino questi pochi cenni per affermare come il problema della catechesi degli adulti si impone in tutta la sua gravità e urgenza per una normale vita cristiana.
2) Catechesi esperienziale
“Quindi convinciamoci che è necessario incominciare da capo. E poi, che l’elemento fondamentale è quello della esperienza. M. Pomilio nel “V evangelio” a più riprese conclude: il Vangelo non è un libro da imparare ma una vita da vivere.
Ricordo per l’ennesima volta che una certa teologia ci presentava il cristianesimo come un complesso di verità, di norme e di riti: questa prospettiva è passata anche nella catechesi.
Il cristianesimo è tutt’altro.
E’ una storia, una serie di eventi, un fatto di implicanze personali, dove Dio, che tutto trascende è presente e coinvolto con un amore infinito, travolgente e misericordioso. I fatti sono significativi, le parole sono eventi, e tutto ciò che è accaduto ed è stato detto è attuale, carico di potenza per la tua persona e per la tua esistenza. Tutto questo è affermato in modo mirabile dalla costituzione più innovatrice del Concilio, la “Dei Verbum`m” al n. 2.
Tento di cogliere le affermazioni più significative al fine del nostro discorso:
a) l’evento della salvezza risplende a noi in Cristo;
b) gli uomini hanno accesso al Padre e sono partecipi della divina natura;
c) Dio nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi;
d) il fine è quello di invitarci e ammetterci alla comunione con sè:
e) questa economia che si realizza attraverso parole ed opere tra loro intimamente connesse e interdipendenti è attuale.
A questo punto, poiché l’aspetto della vita cristiana che specificamente ci interessa è quello esperienziale , io cerco di spiegarmi per non creare equivoci che sarebbero senz’altro pericolosi.
E’ scontato che per esperienza non si intende il concetto che ne ha la scienza moderna; in questo senso corrisponde a un metodo di ricerca, a un insieme razionale di sperimentazione, di prove e controprove e di verifiche al fine della scoperta scientifica, della conferma di un fatto, di una legge o di una ipotesi. Siamo nell’ambito dello “Sperimentale”.
L’esperienza che a noi interessa è un genere particolare di conoscenza; la conoscenza immediata della realtà concreta, una conoscenza intrinseca alla vita. Al fine di evitare confusioni, questo tipo di conoscenza lo si chiama “Esperienziale”; nell’ambito religioso, equivale all’atto o alla serie di atti con cui l’uomo raggiunge un rapporto di vita con il Dio vivente. Per noi l’esperienza sarà l’atto o gli atti con cui ci mettiamo in un rapporto di vita nel cuore degli eventi di salvezza come sono il battesimo, il dono dello Spirito, del Corpo e del Sangue di Cristo, della Parola di Dio e della sua presenza salvifica nella vita della Chiesa, del mondo e di ciascuno di noi (crf. D.Mollat “L’espérience de l’Esprit-Saint selon le Nouveau T.”).
Un apporto decisivo nella comprensione della esperienza cristiana è dato dalla nozione del tutto singolare del fenomeno della conoscenza secondo il linguaggio biblico.
La conoscenza secondo la Bibbia non ha riferimento al sapere, ma al vivere. Per l’uomo della Bibbia il conoscere prescinde da un sapere astratto, mentre esprime un rapporto esistenziale: conoscere una cosa equivale avere l’esperienza concreta (la sofferenza, per esempio, il peccato, la guerra, la pace, il bene e il male, ecc.) accompagnata da un coinvolgimento dalle ripercussioni profonde; conoscere invece qualcuno equivale a entrare in relazione personale con lui; questa relazione può assumere forme di diverso tipo e a livelli diversi, suscettibili di sensi diversi: dalla solidarietà tra i membri di una famiglia ai rapporti coniugali; Dio stesso lo si conosce sia sotto i colpi dei suoi giudizi, ma soprattutto quando si entra nella sua alleanza o si è introdotti poco a poco nella sua intimità (cfr. “Vocabolario di teologia biblica”).
La facoltà, per così dire, di questa conoscenza è il cuore, che sempre secondo il linguaggio biblico, assunto dalla tradizione mistica di tutti i tempi, è come la lancetta sensibile dell’anima creata a immagine di Dio e ricreata dallo Spirito, centro donde zampilla tutta l’attività umana, luogo misterioso dove tutta la persona sta di fronte a Dio in persona. Si può ritenere che in una misura non sperimentabile ma vera, esiste una irradiazione dal cuore alla sensibilità, non esclusa quella dalla sensibilità ai sensi.
Il significato di questi rilievi speriamo diventi più chiaro al momento opportuno.
Ora riprendiamo il discorso sulla natura del cristianesimo per chiarire il senso della catechesi.
La presenza e l’attualità
Dalla descrizione del concetto di liberazione già richiamato dalla “Dei Verbum” al n. 2 il fatto cristiano risulta costituito da un complesso di persone vive e presenti (il Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito); protagoniste di eventi e di parole accadute e pronunziate, ma attuali; il tutto ordinato alla salvezza della persona degli uomini.
E’ dunque caratteristico che Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo sia il protagonista trascendente di quegli eventi e di quei detti registrati nella Bibbia i quali però sono le figure, le immagini, i simboli di ciò che Egli compie nell’oggi di ogni esistenza, nel sacramento della sua chiesa per tutto il mondo.
Di conseguenza: Dio è qui.
“Il Padre mio lo amerà e noi verremo a Lui e prenderemo dimora presso di Lui” (Gv. 14,23).
“Io verrò a Lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap. 3,20).
“Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?… Perché santo è il tempio di Dio che siete voi” (1 Cor. 3,16).
“O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor. 6,19).
“Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente” (2 Cor. 6,16).
Nel fatto cristiano ci sono luoghi e momenti di questa presenza attuale e attiva garantiti dalla fedeltà della parola del Signore. Come già ho ricordato, sono specialmente il battesimo, il dono dello Spirito, del Corpo e del Sangue di Gesù, quello della riconciliazione, la celebrazione della Parola, ecc. Da tenere bene in considerazione che questa presenza non è limitata al momento “rituale” , ma è permanente e destinata a diventare più operante. La presenza di Gesù non si dissolve dopo la celebrazione della Parola o della Eucarestia: la celebrazione ha senso se garantisce, accresce, dilata nel tempo e nello spazio questa presenza.
Ha una importanza inderogabile la presenza di Dio in quello che oserei chiamare il sacramento del dinamismo della creazione e della storia. In tempi di tecnicismo* desacralizzante e di secolarismo sociale* tenere viva e desta la capacità di cogliere Dio nella “sua terra” e fra i “suoi uomini” diventa un impegno di fede.
IL CONTATTO
Dunque siamo di fronte a persone, fatti, parole concrete; sono persone vive, fatti che accadono, parole che hanno senso.
Tutto questo per chi? Per noi.
Il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito si muove per te, opera in te, si delizia in te, è più intimo a te stesso di quanto non lo sia tu per te; per te e in te consuma la sollecitudine del pastore, lo slancio dello sposo, la tenerezza del padre.
Egli ti investe e ti riveste col dono della fede, per la vita nuova che ti costituisce figlio, fratello, amico, tempio, tabernacolo, diffonde in te la capacità di amare come Egli ama.
E’ ancora presente purtroppo la concezione della vita cristiana definita dallo “stato di grazia” e assicurata dall’assenza di peccato mortale: concezione moralistica per garantire una “qualità soprannaturale” onde evitare l’inferno. La vita cristiana ancora in larghissimi strati della concezione corrente continua ad essere privata della sua prerogativa caratteristica ed esaltante: la dimensione mistica Questa è riservata a pochi eletti, i santi, è caratterizzata dallo straordinario. Non c’è concezione più errata e più dannosa.
Il semplice battezzato è immerso nell’abissale realtà del mistero della profondità della concreta vita di Dio, a cui è invitato ed ammesso a prendere parte. La vita cristiana è la graduale coscientizzazione e la libera e impegnata accettazione di questa sconvolgente vocazione. “Per questa grazia infatti siete salvati mediante la fede, e ciò non viene da voi ma è dono di Dio; nè dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef. 2,8-10).
Veramente siamo “diversi” siamo creatura nuova.
Oggi esiste il complesso del diverso: tutti vogliono essere uguali. Questo è il più cieco rifiuto del Dio della trascendenza il quale opera nella storia della salvezza: equivale ad appiattire il suo amore, la sua infinita creatività, la straordinaria potenza della sua misericordia.
Ognuno di noi è “conosciuto” e “chiamato” per nome. Esistono di conseguenza dei rapporti irrepetibili che costituiscono il cuore della salvezza, la magnificenza dell’amore di Dio e la stupenda meraviglia che è ognuno di noi.
ESPERIENZE
Niente è più concreto, niente è piú immediato, niente si può contattare quanto le realtà del mondo cristiano; quindi niente è piú soggetto all’esperienza di quanto non lo siano queste realtà.
“Questa è la vita eterna: che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv. 17,3).
“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me, perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv. 17, 20-21).
“Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv. 17,23).
“E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo faró conoscere perché l’amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv. 17,26) .
La concretezza dell’esperienza di cui lo tesso Giovanni vuole fare partecipi i suoi (1 Gv. 1,14) ha certamente un riferimento a quella storica, ma esprime quella conseguente alla Pentecoste, che ha come fonte lo stesso Spirito del nostro battesimo.
C’è una pregiudiziale che è la piú diffusa, ma la meno colpevole: l’ignoranza; la maggioranza dei battezzati non sospetta neppure che la propria religione sia tanto stupenda. Un’altra è proprio quella propagata, e non senza fondamento e responsabilità da parte dei credenti, dai cosiddetti “maestri del sospetto” Ma c’è una pregiudiziale più colpevole di tutte ed è dei molti tra i responsabili della fede dei propri fratelli: la paura di aprire gli occhi sulle meraviglie della fede. Ne va della propria comodità della propria pigrizia, del comodo disimpegno, dei meschini interessi….
Stare a faccia a faccia alla trascendenza dell’amore infinito di Dio; far fronte all’impegno di figlio, di fratello, di amico; stare desti con il cuore aperto all’azione dello Spirito che diffonde l’amore: accettare il giogo soave, ma sempre giogo, di essere “diverso”, di rispondere al proprio nome richiede molta più fatica e molto piú coraggio che fare gli “impegnati” nel campo di tutte le ideologie anche se fruste, perché – e questo è duro da ammettere – il Dio di Gesù Cristo si offre solo ai poveri di spirito, che sono gli umili, coloro che riconoscono di avere bisogno della sua Salvezza.
Ecco: chi accetta di essere “diverso” secondo il piano di Dio è sulla via di diventare cristiano e sta rivestendo l’equipaggiamento del catechista.
So di parlare a persone che mi accolgono con intelligenza e benevolenza, perché so bene, io per primo, di avere sottinteso altre dimensioni che hanno un loro posto preciso e inderogabile nella catechesi. La mia è stata una accentuazione che ritengo debba emergere a giusto livello.
3 Rifarsi alla pedagogia di Dio
COME E QUANDO
La riflessione che io faccio è di questo tipo: dove dev’essere diretta la nostra azione pastorale? A chi si deve rivolgere?
Dinanzi a una domanda così generica dò una risposta altrettanto generica: a tutti. Ma quale è la via per arrivare a tutti? Altre volte ho detto: rifacciamoci alla economia della salvezza chiaramente indicata dalla storia della salvezza: si arriva ai lontani, si raggiungono tutti o potenzialmente si possono raggiungere tutti, quando c’è un “resto” vitale, quando c’è un “seme”, quando c’è un “lievito”.
A questo punto sarei tentato di farvi una domanda. Siete convinti che l’economia della salvezza* che la pedagogia di Dio*; risponde a questo criterio? E’ una cosa seria. E’ una cosa che ha fatto Dio, che non abbiamo fatto noi, è una cosa di cui ha parlato Nostro Signore Gesù Cristo, con molta chiarezza. E’ un criterio che non è stato inventato dai sociologi, ma è stato inventato da Dio. Quando il popolo si allontanava, quando il popolo diventava idolatra, Dio se ne disfaceva in tanti modi: guerre, distruzioni, esilio ecc. e poi raccoglieva un “resto”, sul quale innestava il popolo rinnovato.
Quando io nella introduzione ho detto per due volte che bisogna incominciare daccapo, è un’espressione che rischia di non essere presa sul serio; di non essere presa secondo il valore che questa espressione ha.
Miei cari, noi abbiamo le nostre parrocchie. Che cosa sono le nostre parrocchie? Sono il popolo di Dio. Se Dio adottasse per le nostre parrocchie la condotta che adottava per il suo popolo nei tempi dell’antica Alleanza* che cosa ne farebbe di questo popolo che sono le nostre parrocchie? Per certi versi sono già esiliate, già alienate senza che se ne accorgano, ma, se ci fosse un intervento visibile di Dio, che cosa capiterebbe? Cosa ne sarebbe anche di quelli che vengono alla messa domenicale?
Le nostre parrocchie come sono? sono cristiane? anagraficamente sono tutte persone registrate sul nostro registro dei battesimi. Sono cristiane, abbiamo ripetuto fino alla noia, per tradizione. E anche i cosiddetti praticanti non sanno darsi ragione o rendere ragione della loro speranza. Perciò di fatto non sono cristiane. Di questo siete convinti?
C’è un altro fatto. Noi in cura d’anime, voi religiosi, voi catechisti impegnati nell’azione pastorale, chi avete davanti? Li avete davanti tutti, li prendete in considerazione tutti, vi impegnate per tutti allo stesso livello, con gli stessi strumenti, con la stessa estensione di tempo. Anzi in certe situazioni ve ne pren’ un fatto serio. Il vescovo non deve da solo prendere delle decisioni. Però sono delle anormalità da un punto di vista della fede, della pastorale, dell’economia del tempo, delle energie.
Tutti anagraficamente cristiani! Poi c’è una percentuale che sono praticanti, ma tutti questi non è vero che sappiano dare ragione della propria fede. Se non sanno dare ragione, se non sono nella condizione di dare ragione della propria fede o della propria speranza, non sono capaci di un’opzione fondamentale* che lidete cura-è un tentativo per esprimermi-più di quanto non ve ne prendiate di altri. Pensate il tempo che impiegate voi preti per fare i funerali, il tempo che spendete per celebrare matrimoni “pagani”, il tempo che spendete per altre manifestazioni. S stabilisca nella vita cristiana, che li riferisca in un modo cosciente, deciso, libero, a Nostro Signore Gesù Cristo, non solo per la morte, ma soprattutto per la vita, per tutta la loro esistenza e per tutto ciò che comporta il loro esistere umano.
Allora direte: questa gente la lasciamo perdere? Io vi dico semplicemente – ma sapeste come ve lo dico: con il cuore in mano, da fratello, e con la grazia che mi sostiene in questo momento – non li dobbiamo lasciar perdere, ma dobbiamo trovare la via per raggiungerli. Dobbiamo deciderci a trovare la via per raggiungerli. Le vie per raggiungerli sono le metodologie, non sono le “trovate” che sono state indicate anche nei gruppi. Non vi immaginate, non credete che esercizio di pazienza io faccio per non dire a questo proposito le cose che mi verrebbero da dire. Ma io rispetto tutte le metodologie, tutti i piani, tutti i progetti, però antecedentemente c’è un progetto di Dio, c’è una pedagogia di Dio, c’è un’economia della salvezza che si chiama “resto”, “seme”, “lievito”.
Noi – è l’affermazione più importante che faccio in questa Settimana – noi con il meglio delle nostre energie, delle nostre capacità, della dedizione di noi stessi, per amore di Nostro Signore Gesù Cristo, dobbiamo dedicarci a cercare, a suscitare, a lievitare, a curare seriamente, in un modo qualificato, costante, questo “resto”, che c’è dovunque. Può darsi che materialmente parlando, in una parrocchia piccola o grande. non ci sia neppure questo “resto”.
Saltiamo i confini giuridici della parrocchia, ma rivolgiamoci a un “resto”, rivolgiamoci a un “seme”, rivolgiamoci a un “lievito”. Il cristianesimo si propaga per “contagio” e il nostro ministero*, a tutti i livelli, è un’azione contagiante che deriva da una pienezza che trabocca e si comunica agli altri, si irradia sugli altri.
Perciò noi dobbiamo sentirci parroci, curati, suore, laici, impegnati alla scoperta di questo “resto”, a suscitarlo in ogni comunità, a dare tutto noi stessi a questo “resto”, a farlo crescere.
La nostra attività deve incominciare da capo in questo senso, non in un altro. Ma questo “resto” come lo si suscita? Come lo si coltiva? Come lo si rende vitale, capace di lievitare, capace di contagiare? Io riassumo tutto in una parola: con la preghiera.
Perché ho detto: per fare tutto ciò che c’è da fare è necessario pregare? Perché pregare è comunicare per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo nello Spirito Santo con il Padre; è stare in comunione con loro, è realizzare la nostra comunione con Dio. Pregare ha questo significato: caricarsi di tutto ciò che dobbiamo comunicare agli altri, in particolare di ciò che dobbiamo comunicare a questo “resto”. E questo “resto”, quando lo abbiamo suscitato con le nostre ginocchia, deve pregare. Pregare è ascolto della parola di Dio, è approfondimento della parola di Dio, è accoglienza della parola di Dio, è disponibilità alla parola di dio, è celebrare la parola di Dio nella propria vita, nella propria situazione.
Noi dobbiamo moltiplicare i momenti e i luoghi di preghiera. Ecco cosa chiedo, come prima conclusione di questa Settimana: i momenti, per ciascuno di noi personalmente e poi tra di noi, per essere confortati e per essere ciò che vuole il Padre: avere intorno a sé dei figli che son dei fratelli, un “piccolo gruppo”. Può essere un “resto di preti”, un “resto di religiosi, di laici” coi loro sacerdoti.
Pregare tutti i giorni. Pregare in occasioni particolari, stabilite anche liberamente. Pregare seriamente. La serie di ritiri che promuove la diocesi sono una miseria. Se tutta la preghiera fosse lì, guai a noi !
Moltiplichiamo i luoghi di preghiera. Non tanto i luoghi materiali di preghiera, ma le occasioni
(Riv. Dioc. 78: pp. 446-449)
4) Preparazione e qualificazione dei catechisti
“Nell’ambito della comunità anagrafica bisogna avere la preoccupazione della ricerca, della formazione paziente, rinnovata di persone che accettano di essere afferrate da Nostro Signore Gesù Cristo e per amor suo mettersi. al servizio dei propri fratelli” (Riv. Dioc. 79 pag. 263)
“Per una catechesi sistematica, la comunità cristiana ha bisogno di operatori qualificati. E’ un problema che la interessa profondamente: la sua vitalità dipende in maniera decisiva dalla presenza e dal valore dei catechisti, e si esprime tipicamente nella sua capacità di prepararli” (RdC. n. 184)
“E’ per questo che ogni parrocchia importante ed ogni raggruppamento di parrocchie più piccole hanno il grave dovere di formare dei responsabili completamente dediti all’animazione catechetica…” (CT n. 67)
“Questi catechisti laici devono essere accuratamente formati a quel che è se non un ministero formalmente istituito, per lo meno una funzione di grandissimo rilievo nella Chiesa” (Cfr. CT n. 71)
Glossario
antica alleanza: si contrappone alla nuova realizzatasi in Gesù e sta ad indicare ciò che Dio ha fatto per la liberazione del popolo ebraico; in modo particolare mette in risalto l’assoluta fedeltà di Dio nonostante la continua infedeltà dell’uomo.
catechesi esperienziale: educazione alla fede non nel senso che parte dalle varie esperienze, ma nel senso che è radicata e comunica l’unione profonda con il Dio vivente che il catechista fa nella sua vita di fede.
catechesi sistematica: educazione alla fede non occasionale e improvvisata, ma secondo un programma che le consenta di raggiungere uno scopo ben preciso; che insista sull’essenziale senza fermarsi sulle questioni discusse; che sia sufficientemente completa e aperta a tutte le componenti della vita cristiana.
Chiesa-sacramento: espressione che mette in risalto il fatto che la Chiesa in quello che e, fa e dice è lo strumento scelto da Gesù per farsi presente agli uomini in ogni tempo e luogo.
concezione moralistica: concepire la vita cristiana e regolare il proprio comportamento solo come osservanza di leggi scritte per evitare punizioni o castighi e in modo particolare l’inferno .
dimensione mistica: partecipazione concreta alla vita della ‘Trinità che è donata ad ogni battezzato.
economia della salvezza: mette in risalto il modo con cui Dio nella sua libera e creativa scelta compie i vari interventi di salvezza.
evento di salvezza: ogni azione concreta di Dio nella storia dell’uomo per salvarlo. L’insieme di tali interventi costituisce la storia della salvezza. Il più grande di tali eventi è costituito dalla venuta di Gesù.
maestri del sospetto: pensatori dell’era moderna (come Marx, Freud, ecc.) che presentano la religione come illusione che l’uomo si crea per rispondere ai propri bisogni insoddisfatti e ai propri desideri irraggiungibili. Per questo il fatto religioso non si baserebbe su dei dati certi e concreti ma sulla immaginazione dell’uomo.
ministero: denota il servizio che all’interno della Chiesa è affidato ad ognuno in modo vario dallo Spirito attraverso i sacramenti e il riconoscimento del Vescovo.
momento rituale: spazio di tempo delimitato dal compimento di azioni liturgiche.
opzione fondamentale: scelta di fondo che una persona fa di vivere la sua vita secondo Cristo o secondo altri valori. Si tratta di una scelta che viene fatta nell’intimo della persona e che ha la capacità di motivare le varie azioni che essa compie quotidianamente .
pedagogia di Dio: è il modo particolare scelto da Dio e testimoniato dalla Bibbia, con il quale egli ha realizzato nella storia umana il suo progetto di salvezza.
secolarismo: esaltazione eccessiva delle realtà terrene che giunge sino alla affermazione dell’assoluta autonomia dei valori umani e alla negazione della trascendenza in genere e della rivelazione cristiana in particolare.
secolarizzazione: fenomeno culturale che consiste nella affermazione teorica e pratica dei valori delle realtà terrene indipendentemente dal loro riferimento al sacro.
tecnicismo desacralizzante: fidarsi delle capacità della tecnica al punto da negare qualsiasi riferimento al soprannaturale e al sacro.
ST 274 Catechisti 80 Opuscolo
introduzione del vescovo su un opuscolo che riprende alcuni punti della settimana pastorale 1978
Stampa: rivista diocesana 274- 275 della settimana pastorale 1978