Impressioni di viaggio 70
Opuscolo per gli auguri del natale 1970
Alle Autorità, ai Sacerdoti agli Amici in segno di riconoscente riscontro alle espressioni augurali con cui si sono fatti presenti in occasione del giorno onomastico e delle feste natalizie.
Mantova, l gennaio 71
† Mons. CARLO FERRARI
Impressioni di viaggio SINGAPORE, BALI, GJAKARTA, SYDNEY, MANILA
20 Novembre 1970.
Ore 15,18.
Solo in questo momento ho la possibilità di mettermi davanti alle pagine bianche del quaderno che ho portato con me per fissare alcune delle molte impressioni che sicuramente questo viaggio è destinato a suscitare.
Sono a quota diecimila: sorvolo il Mediterraneo su un DC8 della « Garuda » delle Airlines Indonesiens, tra Atene e Beirut.
Ieri ho lasciato Mantova e sono giunto a Roma in treno. Partire non è propriamente – come si è detto – un pò morire: c’è, è vero, un punto di partenza che non è soltanto un luogo, ma perchè davanti ti verrà incontro ciò che vedrai per la prima volta, che ti colpirà e dirà certamente qualche cosa di nuovo al tuo spirito: una occasione di ricerca di un arricchimento di vita. E’ difficile rendere certi stati d’animo. Posso tentare di esprimermi così: è un inoltrarsi tra una varietà indefinita di popolazioni i cui membri sono miei fratelli, è un conoscere e partecipare alle loro situazioni, situazioni bisognose dell’unica salvezza di cui io pure sono corresponsabile e altrettanto personalmente bisognoso.
Non è il caso di nascondere che ho colto volentieri l’occasione che mi si è presentata: mi piace viaggiare perchè l’ho sempre sperimentato tra i mezzi più efficaci per un arricchimento personale. Del resto, movendosi, cercando l’incontro diretto con persone, luoghi e situazioni si ha un vantaggio su tutti gli strumenti che uno deve pur usare se vuole tenersi aggiornato per compiere meno peggio il suo dovere; avviene uno sradicamento anche fisico dal cerchio che si restringe ogni
giorno intorno alla nostra persona per la ripetizione monotona e quasi cronologica di atti e di incontri circoscritti all’ambiente. Siamo così fatti che non basta essere aperti alla informazione e alla problematica, siamo pure dei corpi e i più perfetti: non è concepibile che siamo destinati a orbitare esclusivamente intorno a un campanile sia pure monumentale!… Il buon Dio ci ha situati in due dimensioni: quella del tempo e quella dello spazio. Sono componenti essenziali, indispensabili per essere nella giusta condizione di vivere nell’«adesso, qui»: purché le due dimensioni sappiamo coglierle nelle culture e nelle varietà di ambiente dei paesi che visitiamo e in particolare di quelli che sono custodi di altre civiltà che, per quanto differenti, sono sempre complementari di quella in cui viviamo.
Ore 17,00
All’orizzonte una lunga lama incandescente sta assottigliandosi a vista d’occhio: siamo già al tramonto. Da poco abbiamo sorvolato Nicosia.
Ore 18,30
A Beirut non ci hanno fatto scendere (zona calda… ) e al nostro piccolo gruppo di ventidue persone se ne aggiunge un altro molto numeroso, tanto che il capace vagone aereo è al completo. Sono quasi tutte persone molto affini a quelle del nostro gruppo, formato in prevalenza di pensionati e sembra si muovano per lo stesso motivo per cui viaggiamo noi: percorrere l’itinerario del Papa. Sono americani, più di uno fraternizza coi nostri più giovani e le canzoni italiane, dalle più attuali al tradizionale « o sole mio », tengono desti e raccolgono gli applausi di tutti.
Ore 21,45.
Alle venti è finita la cena. Ora sono tutti fermi al loro posto, parecchi dormono, beati loro! Secondo le indicazioni dovremmo sorvolare il Pakistan occidentale all’altezza di Fort Sandemann sulla rotta Teheran – Dehli. A terra si scorge qualche luce, in lontananza un tenue chiarore segna la presenza di qualche centro popoloso. Il firmamento è limpido, punteggiato da costellazioni inconsuete. La lunga lama dell’apparecchio sembra fendere uno spazio astrale: le luci di terra e le stelle del cielo. Siamo nel cuore della notte; la stanchezza non permette che emergano emozioni mai sperimentate: un senso vago ma intenso di immersione nella solitudine più popolata. Ci si trova in uno stato di preghiera.
Ore 23,05.
In perfetto orario con il programma sorvoliamo Nuova Delhi e l’India: lo sconfinato Paese orientale, con le sue centinaia di milioni di abitanti, le sue potenziali risorse, i suoi urgenti e ingenti problemi. Sei anni fa, quasi di questi giorni, durante l’ultimo mio viaggio ero qui e porto ancora con me tutto il carico di ricordi e di emozioni.
Ore 24,00
Viene servita ai viaggiatori la piccola colazione dopo l’immancabile spremuta di frutta. Qui sono le cinque del mattino, « frate asinello » comincia ad avvertire gli immancabili disagi e a sostenere l’urto contro lo sfasamento del tempo e contro le abitudini: rapidi e forti sbalzi di quota, di temperatura, ore che non corrispondono, diversità di alimentazione, ecc. Veramente l’organismo esce da tutte le pigrizie della assuefazione.
Incomincia ad albeggiare, le luci delle stelle e quelle di terra scompaiono; la fusoliera va incontro al sole che sorge, si fanno sempre più lucenti e vividi i riflessi sull’ala.
21 Novembre
Ore 00,36.
Sorvolata Calcutta appare immediatamente la vasta distesa del delta del Gange. E’ troppo recente la sciagura che ha colpito le coste del Pakistan orientale per non pensare intensamente alle vittime e ai superstiti disperati che quelle terre acquitrinose hanno inghiottito o minacciano di annìentare.
Ore 00,55.
Sotto di noi si intravede la scacchiera verdeggiante delle risaie della Birmania, la terra che racchiude le spoglie del forte ed eroico Padre Borsano, il Paese verso il quale mi dirigevo con la fantasia e la corrispondenza epistolare scambiata con quel mio compaesano durante gli anni di liceo quando la vocazione al sacerdozio è quasi autenticata dall’immancabile « cotta » missionaria (almeno così accadeva in quei tempi!).
Ore 11,05 – ora locale.
Arrivo puntuale a Singapore, dopo la sosta tecnica a Banqkog dove avevamo già avuto la sgradita sorpresa che « gli abiti da metà stagione » consigliati nelle indicazioni del programma sarebbero stati un peso e un ingombro inutile da trascinare per tutto il viaggio. Dunque, caldo equatoriale alla soglia della stagione delle piogge.
Nell’ultimo tratto di volo mi sono trattenuto nella cabina di comando: c’è da trovarsi sperduti nel labirinto di apparecchiature che stanno davanti, di fianco, sopra i piloti, continuamente controllate dall’occhio vigile del motorista. E c’è da restare sbalorditi nel constatare come il mastodontico aereo, a quella quota (oltre diecimila metri) e a quella velocità (circa novecento chilometri l’ora), affidato al pilota automatico, ubbidisca docilmente al leggero rotare di un minuscolo pomello. Si naviga su un mare di nubi, si fiancheggiano o si penetrano cumuli imponenti dalle forme più fantastiche.
24 Novembre.
Ore 13,40.
Decolliamo da Singapore. Mi accorgo che apro il quaderno per gli appunti solo quando sono seduto al mio posto sull’aereo. A terra ci sono troppe cose da vedere e da imprimere dentro coi loro significati più svariati; solo qualche particolare potrà essere fissato sulla carta.
Ho visto Singapore.
Singapore è un’isola, ma non tanto dal punto di vista della geografia fisica quanto soprattutto in senso politico, sociale, economico nel contesto del vastissimo arcipelago indonesiano. La guida ti dirà, ripetendo un luogo comune molto superato, che la repubblica di Singapore è la “Svizzera ” dell’Asia… Intanto si trova a pochissimi gradi sopra l’Equatore e ti viene incontro un’afa quasi irrespirabile; dall’altro lato ti trovi immerso in una vegetazione esotica che si insinua ovunque e avvolge ogni cosa. Ti stupisci che quelle tali piante di dimensioni modeste, ma tanto pregiate e tanto difficili da curare in un appartamento, qui abbiano proporzioni enormi e crescano incontenibili come da noi, una volta, i cespugli delle siepi poste a delimitare i confini dei campi.
Gli abitanti di Singapore, malesi, cinesi, indiani, trasferiti nella città cosmopolita dalle loro palafitte, dal loro minuto e pittoresco commercio, dalla loro attività artigianale non tarderanno a trovarsi nell’isolamento di un piccolo appartamento di uno degli enormi caseggiati, per ora, tanto più ammirati quanto più sono lanciati in altezza. I giovani diventeranno i commessi dei fornitissimi supermarkets che forse entro una generazione soppianteranno i piccoli negozi e i vivacissimi bazars che caratterizzano i quartieri più tipici. Gli artigiani dovranno arrendersi di fronte al manufatto industriale che produrrà in serie ciò che essi creano, da generazioni, con materiale autentico e una originalità inimitabile.
A un livello più profondo essi sono portatori di una cultura fatta di miti, di saggezza e di religiosità; hanno un loro modo di concepire, di sentire e di esprimersi. Ma nasce legittimo il dubbio e il timore fino a che punto questi valori potranno salvarsi in un sistema di alfabetizzazione e di istruzione che è preso dall’urgenza di inserire nuove leve in un sistema standardizzato di produzione. Soltanto il cristianesimo, se rimane fedele al senso del mistero dell’Incarnazione, oggi può salvare ed esaltare tutti i valori che incontra.
Che esista un motivo di urgenza per la soluzione di problemi politici e sociali è innegabile; ma è anche legittimo domandarsi per quale fatalità il progresso che gli uomini raggiungono tanto faticosamente esiga il sacrificio e una specie di spogliamento dei valori costitutivi della convivenza umana, come sono la facilitazione dei rapporti tra le persone e il contatto con l’ambiente della natura: e persino di quelli che sono costitutivi della stessa persona, come può considerarsi la libertà di essere se stessi secondo la propria cultura e le caratteristiche etniche locali. Qualcuno potrebbe pensare che queste considerazioni si possono fare a quota diecimila… Eppure non potrò mai dimenticare un confronto concreto che l’osservazione diretta mi ha suggerito: da una parte l’autonoma operosità dei manovratori delle imbarcazioni di tutti i tipi, nel traffico caotico del porto, quella dei venditori dei suks e degli abitanti delle povere ma linde palafitte rifugiate nelle insenature delle isole che costituiscono il molo naturale del porto; dall’altra la fretta
snervata, depressa, specialmente dei giovani e delle ragazze che a ore determinate la metropolitana rigurgita nelle strade: si tengono per mano ma il loro naturale cicaleccio è spento, il loro comunicare è assente e stanco.
26 Novembre.
Ore 21,30.
Sono a Bali già sistemato nell’hotel « Bice Bali » sulla spiaggia dell’Oceano Indiano. Abbiamo lasciato Giakarta alle 15 dopo una sosta complessiva di due giorni. Il mattino del secondo giorno è stato impegnato nella visita, sotto la pioggia, di Bagor a sessanta chilometri dalla capitale, centro popoloso celebre per il clima, il giardino botanico e qualche monumento religioso. Vi è una confortevolissima residenza estiva del presidente della repubblica. L’aspetto più interessante della gita è stato indubbiamente quello di esserci inoltrati nella campagna, di avere attraversato borghi e villaggi. E’ uno specchio molto limpido e veritiero delle potenziali ricchezze del paese e della sua attuale povertà.
L’impressione che porto più viva in me è la visione di Giakarta. Ho cercato di penetrarla negli aspetti più salienti e sono stato fortunato, perchè un pomeriggio trascorso in amichevole compagnia di due padri carmelitani indonesiani, mi ha offerto la possibilità non solo di vedere ma di capire molte cose. (Entrambi i religiosi hanno compiuto i loro studi in Europa, sono docenti all’università di stato: uno di filosofia, I’altro di sociologia).
Qui non posso che segnare frettolosamente qualche dato.
Giakarta conta tre milioni e mezzo di abitanti. Le abitazioni popolari – e lo sono quasi tutte – sono le solite casette con il solo piano terra che, viste dall’aereo sembrano capanne: piccole costruzioni in muratura e ricoperte di tegole. Si distendono su una estensione enorme solcata da lunghe e larghe arterie stradali. Non manca il verde della vegetazione tropicale. Un altro respiro sono i parchi a prato verde, vastissimi, punteggiati da monumenti celebrativi dell’Indipendenza, della libertà, della Fraternità, ecc. Nella loro grandiosità e dispendiosità lasciano il senso di un sogno ambizioso di là da venire, sembrano espressione di imponenza infantile per essere accreditati.
Insieme ai monumenti e ai palazzi governativi, fanno un contrasto scandaloso con il resto delle abitazioni, gli alberghi e le sedi delle banche: segno tangibile di un potere economico e di uno sfarzoso benessere di pochi.
E’ il solito giudizio dell’uomo della strada. Ma qui tutti, dai governi di altri paesi ai gruppi finanziari, agli impresari provenienti da tutti i continenti, hanno l’aria di aiutare un paese spasmodicamente impegnato a raggiungere il proprio sviluppo, mentre in realtà fanno i loro ben calcolati interessi a spese di chi ha bisogno di sfamarsi. I miei occhi non dimenticheranno facilmente un imponente edificio di varie decine di piani, in fase di costruzione, nel quale si sfruttano le tecniche dell’edilizia più moderna, ma le sue altissime impalcature sono di bambù e le retribuzioni salariali bassissime.
L’altro punto drammatico che è destinato a ritardare di generazioni una effettiva autonomia della Repubblica Indonesiana, e verosimilmente di tutte quelle indocinesi, è quello della alfabetizzazione. La politica dei vari governi non pare
tanto condizionata dalle influenze occidentali od orientali, quanto da una classe dirigente di estrazione borghese.
Non esiste nessun tipo di scuola d’obbligo, l’accesso alle scuole medie è consentito quasi esclusivamente ai figli delle famiglie benestanti. Le scuole gestite dai missionari, che sono largamente le più quotate, possono accogliere figli del popolo nella misura degli aiuti che ricevono dall’estero. La chiesa locale è orientata a dare la precedenza all’opera di elevazione culturale dei ceti più diseredati al fine di metterli in condizione di diventare elementi attivi della gestione della cosa pubblica, ma i mezzi sono estremamente inadeguati.
Viene da pensare come un certo anticlericalismo e una maldestra preoccupazione di favorire un qualsiasi confessionalismo condizioni notevolmente lo sviluppo di queste popolazioni. I governi, le istituzioni internazionali offrono soccorsi e contributi soltanto agli enti pubblici, i quali troppe volte assorbono in spese burocratiche l’importo delle sovvenzioni, oppure non sono dotati di strumenti per renderle fruttuose. Allo stato attuale delle cose soltanto gli istituti missionari delle varie denominazioni sono i più preparati a dare un valido contributo a breve scadenza per la soluzione di un problema così grave.
Come si tocca con mano che una soluzione veramente umana dei problemi che angustiano tragicamente due terzi del mondo può venire soltanto da coloro che motivano il loro aiuto da una ragione di amore e non di interesse politico, economico o vagamente umanitario!
Io ho visto soltanto la capitale, ma mi dicevano due vescovi missionari, uno italiano e l’altro olandese, che l’arretratezza del resto della popolazione e di alcune isole in particolare è inimmaginabile.
29 Novembre.
Ore 01,10.
Un’altra volta in aereo per il grande volo da Bali a Sydney.
Bali è stata una esperienza unica che si può fare soltanto in quest’isola minuscola e immersa in un suo mondo, anche se l’interesse che suscita l’ha collegata con tutto il resto della terra. E’ dotata di un aeroporto che farebbe invidia a molte metropoli. Che cosa non fa la speculazione!
Spero che non siano le ore notturne a orientarmi verso un certo tipo di considerazioni. E’ un fatto che le compagnie aeree e gli imprenditori stranieri creano le strutture più confortevoli non certo per amore di Bali, dei suoi abitanti e delle loro tradizioni, ma per attirare gente, fare soldi e conseguentemente accelerano lo svuotamento degli elementi religiosi, mistici, culturali che costituiscono il patrimonio più vero e prezioso di queste popolazioni. La loro naturale ingenuità di comportamento e il loro confidenziale rapporto col visitatore non potranno non essere turbati dalla curiosità ambigua e dall’atteggiamento del tutto profano dei turisti di vario tipo.
L’ultimo incontro prima della partenza è stato con uno dei pochi missionari Verbiti che soltanto dalla fine dell’ultima guerra hanno potuto installarsi nell’isola.
A cominciare dall’architettura della chiesa è chiara la preoccupazione di
salvare e valorizzare gli elementi culturali locali, di chiarire e rendere più profondi e veri i vari motivi religiosi ed etici originari.
Il cristianesimo salva, conserva, chiarisce ed approfondisce tutti i valori autentici di ogni cultura; la civiltà del profitto invece non fa che svuotarli e accelerarne la scomparsa.
Ma non ho ancora detto che cosa sia Bali.
Bali, per chi riesce ancora a capirla, non è i suoi templi, le manifestazioni religiose che accompagnano ogni evento, da quelli stagionali a quelli familiari. Questo è il volto esterno; l’anima è un modo interiore profondo di concepire l’esistenza. Il mare, il cielo, le stagioni, le piante e le loro colture, gli animali non sono muti elementi; lo Spirito che sta al di sopra di tutti e che si manifesta sotto tre aspetti (una specie di trinità) ha affidato a una miriade di spiriti il compito di presiedere a tutti gli elementi e allo svolgimento di tutti gli eventi; le osservanze, i riti, le preghiere, le purificazioni, soprattutto la condotta morale propiziano gli spiriti buoni e difendono da quelli cattivi; chi opera il bene è premiato, chi fa il male avrà il castigo; la vita continua, distrutto il corpo l’anima sopravvive.
Di qui la tendenza, il bisogno di ritualizzare ogni evento con processioni, esorcismi, benedizioni, offerte; di rendere sensibile la presenza della divinità e degli spiriti con templi in ogni villaggio e in ogni gruppo familiare, di coltivare una comunione abituale con chi se n’è andato in un’altra forma di esistenza conservandone le ceneri nel recinto della casa, in un tabernacolo elevato su una colonna.
Per noi assistere al rito della cremazione produce il senso del macabro, per questi sicuri credenti è quasi come un breve arrivederci.
E le famose danze!
Raramente sono eseguite isolate, se non come espressione di saluto o di augurio per gli ospiti. Esse fanno sempre parte di una rappresentazione o celebrazione mitico-religiosa, all’incirca come il coro nella tragedia antica. E’ inutile tentarne una descrizione: sono di una compostezza e di una espressività che denotano un’educazione che va molto più lontano di chi si prepara per una esibizione di folklore.
A contatto con la popolazione di Bali si respira un ritmo, un comportamento, dei modi di espressione che nascono da una profondità interiore, la quale affonda le sue certezze in una familiarità col mondo dello spirito e degli spiriti, che sa leggere nelle cose i segni evocativi di altre realtà; è la ricchezza di questo mondo profondo che crea le espressioni del loro modo di vivere.
Forse, e mi auguro di non esprimere l’opinione che nasce da una impressione colta nel giro di pochi giorni, gli abitanti di Bali hanno una religiosità più solida ed esistenziale di quanto non sia una certa fede di tradizione delle nostre popolazioni; quasi certamente vivono una vita interiore che è molto aperta a una autentica interiorità cristiana.
Non è senza significato che la gioventù quando viene a contatto coi missionari abbraccia con naturalezza il cristianesimo e lo trova congeniale.
Naturalmente chi è spinto a sostare a Bali in cerca di un paesaggio esotico, dalla fantasiosa varietà dei templi e dal folklore che accompagna le manifestazioni religiose se ne andrà con tutt’altra impressione.
Ore 03,45 (ora di Giakarta)
Come il solito non dormo. Il mio agente mi presenta al comandante il quale offre lo champagne; mi muovo per tutta la lunghezza dell’apparecchio: chi è sprofondato nel sonno più « alto », chi ha voglia di dire qualche battuta per fare passare il tempo. Raggiungo la cabina di comando: albeggia. Mi appoggio a uno dei seggiolini e mi godo il crescendo grandioso e indescrivibile del sole che emerge effondendo l’irradiazione della sua luce dorata sulla distesa di un mare di nubi grige.
Ore 05,00 (locali)
I passeggeri incominciano a sgranchirsi e a muoversi. Intono le « lodi »; non le ho mai recitate così presto e immerso così sensibilmente nella solenne maestà della creazione.
30 Novembre.
Ore 09,50.
Tocchiamo terra in Australia a Sydney in perfetto orario. A casa è mezzanotte.
Il salto da Bali è stato lungo non solo per la distanza chilometrica (circa 8.000 chilometri), ma soprattutto per la diversità del tenore di vita. Siamo in piena civiltà occidentale ad alto livello sociale. Questa è la contrastante constatazione. Tutti lavorano, tutti vanno in fretta, tutti hanno tutto a disposizione: il salario, la casa, la scuola, i comforts. E’ senz’altro evidente che ci si trova in una nazione giovane, che vuole mettere a profitto le sue inesauribili risorse naturali ed economiche: per questo cerca braccia per produrre sempre di più. Sta inserendosi nel novero delle nazioni progredite e la sua voce acquista maggior peso, di giorno in giorno.
3 Dicembre.
Ore 12.00
La sveglia questa mattina è suonata alle 05,45 e la partenza da Sydney è avvenuta dopo le undici: un ritardo di due ore per la sostituzione dell’apparecchio e per la partenza del Papa.
A Sydney il mio interesse si è appuntato sui nostri immigrati italiani e sul viaggio del Papa.
Quella italiana è la comunità di immigrati più attiva. Ho avuto la sensazione che siano uniti tra di loro, che si aiutino a vicenda; si sono acquistati un loro spazio nella vita pubblica, hanno una loro voce che si fa sentire attraverso tutti i mezzi di comunicazione: in tutti i grandi centri hanno il loro giornale in lingua italiana.
Guadagnano e risparmiano e la loro nostalgia per l’Italia è grande come la distanza che li tiene lontani. Ogni incontro è una festa.
I Vescovi e i Parroci che hanno degli emigrati in Australia dovrebbero farsi un dovere di andarli a trovare. Affiorano sentimenti insospettati, umani, fraterni
che aprono lo spirito a percepire come sia materna la missione della chiesa. Vale la spesa di affrontare anche qualche grosso sacrificio e andare e sostare con queste pecorelle che non si sono allontanate dall’ovile per capriccio o per indifferenza.
Naturalmente non si va in Australia alla ricerca di aiuti per i restauri della punta del campanile, ma con la disposizione d’animo di lasciare anche che il campanile crolli, pur di raccogliere quelle pietre vive e palpitanti così lontane e disperse.
Il Papa.
Tutto il nostro viaggio era in relazione a quello del Papa. Un evento della vita della chiesa che si inserisce nei gesti profetici caratteristici del pontificato di Paolo VI. Il mandato cattolico di raggiungere tutte le genti e quello di intrattenersi presso i propri fratelli nell’episcopato per sostenerli con la forza del suo carisma, non sono espressioni che rimangono scritte nel Vangelo o verità da credere astrattamente; diventano realtà operanti del sacramento della chiesa le quali inseguono le istanze e le attese dell’umanità.
Farsi solidale, con una sensibilità umanissima nella quale si ripercuotono le ansie del cuore di Cristo, coi fratelli più diseredati; dialogare lealmente e da fratello con una gioventù che prende coscienza della gravità dei problemi della vita della chiesa e dell’intera umanità; ricercare un incontro con tutti coloro che in qualche modo credono oppure sono ostili alla fede; dire a quelli che detengono le leve delle varie forze di potere la parola della verità, della giustizia e della pace, inerme e solo, sostenuto dall’unica fiducia nella salvezza che Cristo dispone per tutti gli uomini, non è un gesto che fa molta cronaca, ma un evento di vita che ha il Successore di Pietro come segno e strumento e Cristo in persona presente e operante nel suo Vicario.
La televisione, la radio, la stampa hanno portato veramente « dall’estremità della terra » in tutte le case del mondo la visione, la cronaca, le interpretazioni di questo viaggio del Papa, che tra l’altro ha segnato la misura del suo coraggio umano della sua resistenza a una fatica immane e della forza con cui ha superato ostacoli di ogni genere.
Il Papa l’ho visto e salutato personalmente il 10 Dicembre nella cattedrale di Sydney. Non presumo di avere visto e capito più degli altri, ma l’animo preoccupato del Papa, la sua gioia di Padre per aver parlato, cuore a cuore, con migliaia di sacerdoti che sottolineavano con scrosci fragorosi di applauso le sue parole, il suo sguardo alla ricerca di un incontro con tutti, la sua persona carica al limite di fatica; tutto questo ho visto con i miei occhi e toccato con le mie mani.
5 Dicembre.
Ore 20,05.
Finalmente voliamo verso casa.
Lasciamo Manila alle 16,20 e dopo due ore atterriamo a Banqkog. Ora siamo a bordo di un DC8 della « Garuda » che ci sbarcherà a Roma domattina alle 5,25, ora locale.
A Manila abbiamo raccolto le impressioni della visita del Papa, turbata dall’attentato di un folle. Proprio questo deprecabile gesto ha dato motivo a manife
stazioni di una più affettuosa gratitudine e devozione verso il Papa.
Da Sydney a Manila si ritorna indietro non solo perchè si rientra nel nostro emisfero, ma perchè si ha la spiacevole sorpresa di trovarsi in un paese arretrato da un punto di vista sociale e invecchiato sotto l’aspetto religioso.
Non azzardo giudizi sulla chiesa delle Filippine; ho visto soltanto Manila e di tutto l’Episcopato di quel paese conosco personalmente solo l’Arcivescovo della Capitale; ricordo soprattutto la sua presenza in Concilio.
Il Vaticano II è un « balzo in avanti » che devono compiere tutte le chiese, qualunque sia lo stato della loro cristianità.
Le Filippine, e in particolare Manila, sono un punto dove incrociano le linee di comunicazione di tutti i paesi dell’Estremo Oriente. I Cinesi si infiltrano ovunque e col loro genio commerciale la loro intraprendenza, la incontenibile espansione demografica si accaparrano un potere finanziario col quale dovranno fare i conti forse gli stessi governi. (Mao dominerà, non si sa fino a che punto, la Cina; i Cinesi si apprestano senza piani e senza ideologie a dominare spazi ben più vasti della stessa Cina). La loro presenza nella attività commerciale delle Filippine è determinante.
I Giapponesi hanno sempre nutrito propositi di dominazione verso le Filippine – e durante l’ultimo conflitto si sa come si sono comportati -. Se oggi non è più pensabile un progetto di annessione essi non rinunceranno ad invadere coi loro manufatti questa piazza così vicina e aperta.
Mi pare enorme la responsabilità delle Filippine di non essere « Lumen gentium » in un punto così nevralgico dell’incontro di tanti popoli diversi.
6 Dicembre.
Ore 06,00 di Bombay.
Ci separano circa cinque ore da Roma. Un breve scalo ad Atene, dopo quello di Bombay.
Ormai si puntano gli occhi dagli oblò a vedere di scorgere a terra le prime luci che ci salutano e ci accolgono da casa nostra.
Tutti si muovono per gli ultimi saluti. Ognuno ritornerà a casa con qualche amico in più. Si raccolgono i bagagli a mano e poi, al proprio posto, cinghie allacciate, si attende il segnale di atterraggio.
Ore 05,25 (ora di Roma)
Ultima corsa su una pista; ultimo arresto. Siamo arrivati.