Il Vaticano Secondo ha ridato valore ai contenuti di a Mistero » e di « Sacramento », rimettendoli nel contesto del suo magistero, come già era in quello della teologia antica. Tutte le realtà cristiane, perché analoghe al Mistero del Verbo Incarnato (Lumen gentium2, n. 8), hanno allo stesso tempo una esistenza sensibile e spirituale, terrena e celeste, umana e divina (Sacrosanctum Concilium, n. 2) e perciò hanno un contenuto positivo sicuro, ma che non si può racchiudere in concetti e categorie puramente razionali, perché soprannaturale e divino; inoltre l’elemento esteriore ha una specifica funzione di « segno » che al livello dei concetti ha una capacità espressiva e a quello dei valori una forza vitale di salvezza cristiana.
Per motivi di chiarezza ci si permetta di usare il termine mistero quando l’accento e l’attenzione va posta sul contenuto soprannaturale della realtà in parola, mentre quello di sacramento sarà usato per rilevare l’elemento esteriore che cade sotto l’esperienza sensibile ed è portatore di una capacità di operare la salvezza nel senso indicato dal segno.
IL Concilio presenta la Chiesa stessa come realtà misteriosa e sacramentale e proprio su queste direttrici ci pare possibile cogliere tutto il significato, il valore e la efficacia del suo insegnamento.
IL rapporto del Vescovo con la Chiesa universale tenteremo di coglierlo secondo queste indicazioni.
Indole sacramentale degli uffici pastorali
Indole sacramentale degli uffici episcopali
Una mentalità ancora corrente durante la celebrazione del Concilio non solo sosteneva una distinzione tra il potere di ordine e quello di giurisdizione del Vescovo, ma li concepiva separati e non solo quanto all’esercizio, ma anche quanto alla loro origine. Ora l’insegnamento del Concilio non lascia dubbi: « la consacrazione episcopale conferisce, insieme all’ufficio di santificazione, gli uffici di insegnare e di governare » (Lumen gentium, n. 21).
Tutti gli « uffici » episcopali derivano dalla consacrazione conferita dal sacramento dell’ordine.
Dunque la giurisdizione non si riduce a un potere e a un compito puramente giuridico nel senso del diritto umano, fosse pure il diritto canonico; questo può stare anche senza la « somma del sacro ministero » ed è stato perfino attribuito alle donne (v. Badessa di Conversano); la giurisdizione è qualche cosa di molto più ricco: deriva dalla presenza di Gesù nella sua Chiesa e « alla comunità dei suoi Pontefici » (n. 21), nonché dall’azione dello Spirito Santo. Per mezzo dell’eccelso ministero dei Vescovi Gesù predica la Parola di Dio; per mezzo del loro ufficio paterno nuove membra inserisce nel suo Corpo e infine con la loro sapienza e prudenza, sempre Gesù, dirige e ordina il Popolo del Nuovo Testamento (ivi).
La giurisdizione canonica per ogni Vescovo è definita e circoscritta: egli non ha poteri legislativi o esecutivi né su altre Chiese locali, né sulla Chiesa universale; in virtù invece degli uffici che gli derivano dalla sua consacrazione sacramentale egli ha certamente dei rapporti di natura sacramentale con tutte le Chiese.
Ogni consacrazione legittima non conferisce soltanto degli uffici sacri, ma introduce il nuovo eletto in un ordine particolare; nel « corpo episcopale » (n. 22). La situazione ecclesiale del Vescovo è relativa a un ceto, a un corpo, a molti, a tutti i Vescovi della Chiesa. Per volontà del Signore, il successore di Pietro e quelli degli Apostoli « sono uniti tra di loro » (ivi): « uno è costituito membro del Corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col Capo del Collegio e con le membra » (ivi).
Natura ed esercizio sacramentale degli uffici episcopali
Bisogna guardarsi dal concepire la consacrazione sacramentale come una pura condizione per entrare nella comunione gerarchica; come pure dal considerare la comunione gerarchica come semplice dovere morale che ispira una disposizione dell’animo senza un legame di vita soprannaturale derivante dalla consacrazione sacramentale.
« Questo Collegio in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del Popolo di Dio, in quanto poi è raccolto sotto un solo Capo, significa l’unità del gregge di Cristo » (ivi).
Questa funzione di « esprimere » e di a significare » che deriva dalla istituzione di Cristo, non ha un valore semplicemente simbolico indicativo; ha invece un valore sacramentale di segno e di strumento capace di produrre questi beni così strettamente ed essenzialmente legati alla natura e alla missione della Chiesa.
I Vescovi in comunione gerarchica col Capo e con le membra del Corpo episcopale sono l’organo a sociale e visibile » della misteriosa azione dello Spirito Santo, il quale stimola, produce e consolida la struttura organica della Chiesa e la sua concordia.
L’unico Spirito raccoglie e unifica l’unico Popolo di Dio con gli “uffici ” episcopali « che per loro natura non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col Capo e con le membra del Collegio » (n. 21). Cosicché la a comunione » è come la caratteristica che definisce lo spirito, la tensione orientativa finale dell’esercizio degli uffici episcopali.
Gli uffici del Vescovo esistono in un contesto di relazione e di dipendenza; ma giova insistere: non di relazione e subordinazione semplicemente giuridica umana, ma misteriosa soprannaturale e sacramentale; sacramentale non solo quanto all’origine, ma anche quanto all’esercizio.
E’ pacifico che l’ufficio di santificazione è sacramentale, ma lo è anche quello di insegnare e governare, perché realizza una singolare presenza di Gesù nella Chiesa, il quale predica la Parola di Dio per mezzo del ministero dei Vescovi e dirige e ordina il Popolo del Nuovo Testamento con la loro sapienza e prudenza (ivi).
L’azione di Gesù Cristo nella sua Chiesa è sempre accompagnata da una grazia; quindi, mentre l’esercizio degli uffici episcopali è garanzia della presenza del Salvatore, esso è certamente accompagnato dalla grazia significata dagli uffici stessi; sarà la grazia della fede e della conoscenza delle cose annunciate e proposte dalla Parola di Dio, come sarà la grazia della carità che ci rende docili alla volontà di Dio e pronti alla comunione nella pace coi fratelli, la quale è assicurata a quelli che si lasciano guidare dai loro legittimi pastori. Ci si perdoni anche qui l’insistenza: non si tratta di grazie attuali con cui Dio aiuta le buone disposizioni di un qualsiasi atto di ubbidienza, ma di una grazia sacramentale inerente a un ufficio istituzionale della Chiesa e destinata a sostenere un impegno di esistenza nella Chiesa, per essere e comportarsi da membri del Popolo di Dio.
Dimensione Collegiale degli uffici episcopali
Noi siamo partiti dal ” contesto di relazione ” degli uffici del Vescovo e dopo aver rilevato la loro indole sacramentale, bisogna riportarli, orientarli e vederne lo svolgimento nella dimensione collegiale.
Sollecitudine dei Vescovi per la Chiesa universale
Il testo della Costituzione « Lumen gentium », in termini sobri e contenuti dice: « I singoli Vescovi che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del Popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del Collegio episcopale e legittimi successori degli Apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene essa non sia esercitata con atti di giurisdizione, sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale » (n. 23). [2]
Si noti che non si tratta di un contributo marginale al bene di tutta la Chiesa, ma di un contributo sommo; il quale non deriva da « atti di giurisdizione » direttamente esercitati sulle altre Chiese.
Il testo orienta quindi a una serie di atti di giurisdizione che non si « esercitano » ma si « ripercuotono » su tutta la Chiesa: « I Vescovi devono
1) promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa;
2) istruire i fedeli all’amore di tutto il Corpo Mistico di Cristo specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia, e infine;
3) promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità ». Nello stesso senso conclude: « Del resto è certo che reggendo bene la propria Chiesa… contribuiscono efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico, che è pure il Corpo della Chiesa » (n. 23).
Dopo aver richiamato che « la cura di annunziare in ogni parte della terra il Vangelo appartiene al corpo dei Pastori » offre una indicazione più concreta: « i Vescovi, infine, in universale comunione di carità offrano volentieri il loro fraterno aiuto alle altre Chiese specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in questo il venerando esempio dell’antica Chiesa ».
A dire il vero se uno rimane alla lettera di questo numero della Costituzione può anche ricevere una impressione deludente. La ricchezza e l’ampiezza che si intravedevano a principio e nel numero precedente potrebbero apparire mortificate.
Anche se l’impressione non è giustificata è vero, tuttavia, che il Concilio non ha detto tutto e non ha voluto fornire tutte le indicazioni su ogni punto di dottrina trattata e sulle sue implicazioni pratiche; tanto meno si poteva pretendere che scendesse a dettagli più concreti su un punto di dottrina, sotto certi aspetti nuovo nel magistero della Chiesa. Quindi è anche spiegabile che il Decreto « Christus Dominus » non faccia che ripetere quasi alla lettera le affermazioni della Costituzione.
Coscienza della comunione ecclesiale
Nel magistero di Paolo VI si coglie una preoccupazione ricorrente: « che in tutti i cristiani, nella sacra Gerarchia come nel laicato cattolico, si accresca il senso della Chiesa e che di essa tutti prendano più chiara e fattiva coscienza; che la Chiesa non cessi di approfondire la coscienza di se stessa, di meditare sul mistero che le è proprio, di esplorare la dottrina sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria sorte finale; dottrina non mai abbastanza studiata e compresa » (Mirificus eventus, n. 5).
E’ tale la preoccupazione del Papa, che non pare esagerato ritenere che sia a questo punto dove si gioca la sorte di questo Concilio. Non è « un » Concilio della Chiesa, ma è « il » Concilio della Chiesa.
Ciò comporta che la realtà umano-divina su cui si è affacciata l’assemblea dei Vescovi e che guidata e illuminata dallo Spirito Santo ha colto forse nei suoi aspetti più essenziali ed ha espresso nei documenti conciliari, sia ulteriormente approfondita e assuma una consistenza cosciente e responsabile nella Gerarchia prima e poi in tutto il laicato cattolico.
Si tratta di diventare coscienti di appartenere a « un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » (Lumen gentium, n. 4), e che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno compiuto tutte le meraviglie della storia della salvezza per attuare questa unità; che questa meravigliosa storia si compie ogni giorno nella.
Chiesa: il Padre, il Figlio con lo Spirito Santo nella Chiesa, « universale sacramento della salvezza » (n. 48), « chiamano gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondi in unità… nello Spirito e costituisca il nuovo Popolo di Dio » (n. 9). IL « sacramento fondamentale » portatore del Piano di Dio, della sua Parola, della sua Grazia e del suo Amore, di cui si serve lo Spirito per chiamare gli uomini, per convocarli e unirli in un solo Popolo sono i Pastori della Chiesa, il Papa e i Vescovi.
Questa « unità dello spirito mediante il vincolo della pace » è operata « da un solo Dio e padre di tutti, che agisce per mezzo di tutti e in tutti » (Ef. 4,3-6) ed è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata dalla istituzione della comunione gerarchica e dal mistero che essa contiene ed esprime.
Manifestazione della carità gerarchica
Perché il mondo « conosca » (Gv. 13, 35) e « creda » (Gv. 17, 22), il segno dell’amore e dell’unità deve manifestarsi nella « carità gerarchica ». Perché pensare di costruire l’unità della Chiesa senza l’unità trasparente dei Pastori? Senza l’unità che deriva dalla « comunione » effettiva operante a livello gerarchico? IL contenuto di questa comunione, lasciati in pace gli atti di presa giurisdizione, lo stesso numero 23 li esprime in una somma di sollecitudine, di cure, di collaborazione, di fraterni aiuti che impegnano sommamente la carità del Vescovo.
Il Concilio riconosce che le presenti condizioni del mondo rendono più urgente il dovere della Chiesa di illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la sua natura e la sua missione; la Chiesa nel Concilio prenda una coscienza più viva del suo mistero di unità nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, sente l’urgenza della propria missione di aiutare gli uomini, oggi congiunti da vincoli sociali, tecnici e culturali, perché possano conseguire la piena unità in Cristo (cf. n. 1).
Tutti gli uomini: i non credenti, i non cristiani, i fratelli separati, i cattolici, in tanti circoli concentrici, gravitano nella loro sorte di chiamati alla unità in Cristo intorno al perno della Gerarchia attraverso cui il vincolo dell’Amore di Dio, lo Spirito, si manifesta nel « segno » della carità e opera per mezzo della Parola e dei Sacramenti.
Ora ci pare che per le sorti del Concilio questa coscienza del Vescovo di essere radicalmente coinvolto come responsabile delle sorti dell’unità di tutti gli uomini in Cristo, sia estremamente decisiva; è infatti la carità « trasparente » (Paolo VI, all’Episc. It., 6.12.6;) nella persona e nella azione del Vescovo il « segno » attraverso il quale lo Spirito opera l’unità di quelli che il Padre vuole convocare in Cristo.
Di proposito si mantiene l’accento sull’aspetto di manifestazione, di segno, di sacramento dell’azione del Vescovo, perché quale autentico rappresentante della Chiesa e quale portatore qualificato dei doni della salvezza ha nella Chiesa e con la Chiesa dei rapporti di natura sacramentale. E’ stato « segregato » per « l’imposizione delle mani » (At. 3, 2) per l’opera a cui lo destina lo Spirito Santo.
E’ a questo centro dove deve operarsi quella « presa di coscienza » di una realtà ecclesiale decisiva. IL Vescovo prende coscienza della realtà collegiale quando la sollecitudine per tutta la Chiesa, la cura di annunziare il Vangelo in tutto il mondo, la collaborazione ai Fratelli ecc. lo spingono a reggere bene la propria Chiesa quale porzione della Chiesa universale. La sua è una Chiesa aperta a dare e a ricevere.
Implicazioni pastorali della collegialità
In tutto ciò che abbiamo affermato confidiamo di non aver sconfinato nella interpretazione della dottrina del Concilio; ma avremmo molto meno fiducia se ci permettessimo di dare delle indicazioni concrete della dottrina della collegialità dei Vescovi e quindi del rapporto del Vescovo con le altre Chiese.
La storia ha registrato forme di rapporti collegiali per altre epoche della vita della Chiesa; la vita della Chiesa è una realtà attuale che si svolge nelle circostanze del mondo di oggi, che non hanno nulla a che vedere con quelle di epoche storiche passate. Le forme di rapporti collegiali dovranno nascere prima di tutto da una coscienza nuova, poi da una nuova mentalità e da un nuovo spirito e quindi da una vera spiritualità collegiale dei Vescovi; la facilità dei rapporti sociali: distanze ravvicinate, mezzi di comunicazione, strumenti di diffusione, ecc.; una nuova mentalità sociale e culturale sono tutte circostanze che offrono nuove possibilità di espressione della collegialità.
Il riordinamento delle Diocesi
In Italia si impone l’ordinamento delle Diocesi. E’ una questione in cui non ci permettiamo di interferire. Però è evidente che qualunque soluzione, se sarà preparata e accompagnata da una coscienza e da una mentalità collegiale, avrà conseguenze tanto più positive.
Ci pare che sarebbe notevolmente diversa una situazione in cui il senso della collegialità guidasse la Conferenza italiana a munirsi di strumenti di rilevazione sociologica, di istituti di pastorale operanti a livello nazionale e regionale, i quali offrissero ai Vescovi rilievi e indicazioni di valore scientifico e da usarsi per stabilire i loro piani di azione pastorale in armonica collaborazione almeno con le Diocesi vicine; e la situazione in cui un numero minore di Diocesi fossero governate con spirito individualista, con una certa presunzione di autarchia che vede come l’ottimo della pastorale il fatto di disporre di un proprio seminario anche se con un numero ristretto di alunni, una propria casa di esercizi chiusa la maggior parte dell’anno, propri uffici diocesani con personale a tutto fare e relativi bilanci finanziari, ecc. Si dirà: il numero ridotto delle Diocesi permetterà loro di avere le possibilità adeguate per mantenere efficienti tutte le istituzioni diocesane. Si risponde che l’efficienza di tutte le istituzioni diocesane, senza spirito collegiale, può diventare un motivo di più stretto individualismo e che rimangono ancora numerose in Italia le situazioni in cui questa efficienza non si realizzerebbe: non si fanno esempi per non interferire in una questione che è allo studio delle competenti autorità.
Libertà di esercizio degli uffici episcopali
Ma a parte la evidenza dei vantaggi di una « sana economia » di personale, di investimenti di capitali, ecc., si pensi alla urgenza così largamente sentita di dare al Vescovo la possibilità di attendere ai suoi compiti specifici, perché possa, in modo eminente e visibile, sostenere le parti dello stesso Cristo Maestro, Pastore, e Pontefice (Ef. 21).
Al Vescovo amministratore deve succedere il Vescovo « teologo ». Come può svolgere « I’eccelso ministero » della Parola, se è in condizioni di non poter attendere allo studio? Non è certamente dal Vescovo che si attende che sia un ricercatore scientifico della verità rivelata o della sua elaborazione speculativa, ma, i risultati sicuri della teologia, le conclusioni pastorali, le situazioni dell’ambiente, le deve conoscere affinché il suo magistero sia nutrito, vivo e attuale. La predicazione del Vescovo deve costituire la sorgente, l’alimento della fede della sua Chiesa; il Vescovo per questo ministero ha un carisma unico del quale è impensabile che ne godano soltanto il pubblico dei pontificali tradizionali o i padrini distratti delle Cresime annuali.
IL Vescovo delle « cerimonie ufficiali i o dei sullodati pontificali deve poter fare « l’economo della grazia del supremo sacerdozio », e se « in ogni comunità che partecipa all’altare sotto la sacra presidenza del Vescovo, viene offerto il simbolo di quella carità e unità del Corpo mistico senza la quale non può esserci salvezza » non si può certamente pensare che egli sia quasi costretto da una certa mentalità individualista a celebrare privatamente servito dall’autista il quale rappresenterebbe la sacra assemblea…
E il governo del Vescovo? Cioè l’esercizio della sua autorità?
Il Vescovo è il Pastore della sua Chiesa. L’esercizio di questo ufficio impegna la perfezione specifica del Vescovo che è quella della carità. Si potrebbe dire che ogni perfezione specifica cristiana è una perfezione nella carità; ma c’è « un amore più grande » (Gv. 15, 18) che è richiesto a Pietro nei confronti degli Apostoli (Gv. 21, 15) e certamente ai Pastori rispetto al Gregge. E anche questa carità deve avere la possibilità di manifestarsi.
Il Santo Padre diceva ai Vescovi italiani, il 6 dicembre 1965: « L’amore deve oggi trasparire. Il rapporto tra Vescovo e Clero e Fedeli deve essere vivificato dalla carità in modo trasparente… IL Vescovo deve apparire Padre, maestro, educatore, correttore, consolatore, amico, consigliere: Pastore, in una parola. E ancora: se così è, un altro carattere della vita ecclesiastica viene in evidenza: la comunione; che vuol dire il contatto umano, diretto, pieno di gravità e di bontà con la comunità ».
E’ significativa e indicativa questa « trasparenza » a cui richiama il Santo Padre. IL Vescovo come pastore della sua Chiesa e come membro del Collegio episcopale, non deve soltanto « avere » la carità richiesta dai suoi uffici, ma la deve « manifestare ». Ora questa manifestazione non ha un semplice valore morale esemplare, ma ha le sue radici in quella somma del sacro ministero che deriva dalla consacrazione ed è istituzionalmente legata alla edificazione di tutta la Chiesa.
Tutto questo ha una relazione col nostro tema?
Sì, e per due motivi: quando il Vescovo è in condizione di reggere bene la propria Chiesa contribuisce efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico (n. 23); quando il Vescovo ha una coscienza collegiale i suoi carismi di Maestro, Pastore e Pontefice li metterà volentieri a disposizione dei Fratelli per collaborare con essi e aiutarli.
CARLO FERRARI
Vescovo di Monopoli
[1] Stampa: su Via Verità e Vita: Marzo-Aprile 1966 EP. La comunione gerarchica della Chiesa – [2] Dal primo dattiloscritto e che manca nella stampa – (E’ un brano quello sopra riportato che da una parte lascia intravedere la ricchezza e la forza del mistero che vuole esprimere e dall’altra denota la difficoltà di esprimere delle realtà che sono paradossali, come é umanamente paradossale un solo Dio in tre Persone.
I vescovi in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli ( e quando cessano di esserlo?) per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione,
ST 214 Vescovo 1966