Il Vescovo Carlo Ferrari
nei ricordi di un amico
Fu l’uomo dei prolungati interiori silenzi. Intuì che il silenzio non è il contrario della parola, ma il suo custode.”Beati coloro che custodiscono la parola”.Anzi, sperimentò che della parola il silenzio è l’habitat, la germinazione e all’occasione, I’espressione ponderata e sicura.
C’è un silenzio mistico che è colloquio con Dio in comunione profonda e crescente.C’è anche un silenzio funzionale che predispone alla parola non con il senno di poi, ma con il senno di prima.
Il primo ricordo di monsignor Ferrari risale per me agli anni del seminario (facevo la terza ginnasiale) e lo rivedo seduto in chiesa nel primo banco, mentre gli passavano dinnanzi alle sei e trenta per prendere il nostro posto in cappella. Gli occhi chiusi e l’anima attiva nell’affrontare la meditazione che ci dettava nel nostro primo incontro comunitario con Dio. La sua parola era chiara, ferma, scandita sicura e pratica nelle conclusioni.
La meditazione dettata a viva voce e raccomandata su opportuni manuali per il seminarista in vacanza, fu il chiodo fisso di don Ferrari quand’era direttore spirituale in seminario a Stazzano.
Risalgo a un altro ricordo di lui risalente al giorno della mia prima messa solenne cantata il tre luglio del quarantanove a Cornale dove volle offrirsi con mia grande gioia come presentatore al popolo del suo novello sacerdote.
E l’anno dopo (altra testimonianza affettuosa e indimenticabile) mente ero ricoverato all’ospedale di Voghera con un tifo persistente e refrattario alle terapie, don Carlo Ferrari veniva da Tortona ogni sera ad accertarsi (io ero in deliquio) presso i medici sul mio stato di salute.
Ma il ricordo per me più emotivo fu l’offerta dell’ospitalità che mi diede a Monopoli, quando ero convalescente di un penoso infarto. Venne lui a prelevarmi con la sua “spider rossa” e a trasferirmi in episcopio dove mi trattenne con se alcuni mesi con amorevole cordialità restituendomi, adagio adagio, alla distensione dello spirito rinfrancato dalla salute in via di guarigione.
Là mi affida alle cure del Professor Di Raimondo suo amico ordinando per me un vitto sobrio ed essenziale, e col mio vitto tutti si adattarono a un po’ di penitenza a tavola.
Provvide anche a svagarmi quando intuiva nel mio animo una qualche insorgenza di malinconia. Alla guida della sua macchina mi portò a visitare la sua diocesi e i territori circostanti. Cosi mi dilettai ad ammirare Acquaviva delle Fonti, Alberobello con la Loggia di Pilato, Polignano a Mare e poi Brindisi e Bari.
Pastoralmente il Vescovo a Monopoli si impegnò a trasformare la religiosità della sua gente in religione più autentica e vissuta, costituendo un presbiterio affiatato e catechizzato sul binomio: Bibbia e Liturgia.
Quando fu trasferito a Mantova, il suo episcopio divenne la mia seconda casa per la sua accoglienza (se ne accorsero anche suor Maria e suor Luisa oltre al suo segretario don Regis) desiderata e squisita.
Qui mi recavo abitualmente tre o quattro volte all’anno, specie in occasione della settimana per la pastorale che si teneva alla fine di agosto. Ebbi modo grazie a lui di aggiornarmi e di conoscere da vicino (si pranzava insieme) il cardinale di Torino, monsignor Pellegrino.
L’ultima volta che mi recai a Mantova, con la Palma, fu nel gennaio rigido di qualche anno fa. Trovai il Vescovo fisicamente depresso e cercai di sollevarlo con la mia loquacità intessuta dalle mie solite corbellerie.
Egli, uomo del silenzio, mi zittiva, dicendomi amabilmente: taci.
Eravamo così diversi, tuttavia così congiunti nell’armonia di un’amicizia che si consolidò fortemente sino alla sua fine. È la legge dei contrari e degli opposti estremismi, ove ognuno è se stesso, nella coerenza col proprio carattere e nella schiettezza di una sincerità per entrambi irriducibile. La vera amicizia penso si debba manifestare anche così.
don Teo Marchini sacerdote della diocesi di Tortona
“Il Popolo Dertonino”, 13 Dicembre 1992