1976: Mons. Carlo Ferrari stempera i suoi ricordi. Non parla di sé eppure in filigrana c’è tutta la sua anima. Il fluire delle sue parole risponde a quella segreta vena poetica, che dal suo spirito zampilla ogni qualvolta in libertà compone in unità i tasselli del vivere credente.
“C’è un filo della Provvidenza che lega le persone tra di loro e alle volte lo si scopre, altre no”.
Parole che acquistano oggi significati più ampi rispetto all’orizzonte entro il quale egli le incastonava. Nel 1976 infatti proponeva ai lettori del settimanale cattolico mantovano “La Cittadella” una figura di Vescovo, Mons. Augusto Bertazzoni, che dal Mantovano si era visto letteralmente catapultato a Potenza, in Lucania.
E Mons. Ferrari trae dalla sua viva esperienza l’incomunicabilità di quel fatto, che è accaduto anche per lui: “Chi non è stato nel Meridione non potrà mai farsi un’idea di ciò che significa là essere il Vescovo… Ti chiamano per nome, ti danno del tu, devi ascoltare lunghi racconti di fatti insignificanti, devi prender parte a tutto, devi arrivare a tutti, e se non ci arrivi non te ne fanno colpa, di te si fidano”.
“La gente sta a guardare e pensa al mondo da cui tu puoi venire, che deve essere tutt’altra cosa”.
Mons. Bertazzoni – scriveva ancora Mons. Carlo – “era un mantovano mandato a fare il Vescovo in Lucania, quando il fascismo vi relegava i confinati; io, in tempi del tutto diversi, ero un piemontese mandato in Puglia: forse per questo mi voleva bene … le considerazioni si affollano, è difficile dipanare ogni cosa”.
Bertazzoni amava rientrare alle proprie sorgenti mantovane: “Venire a Mantova non era un’evasione, era un ritorno alla sorgente”.
Mons. Ferrari amava tornare in terra pugliese: non era un’evasione, era un ritorno alla sorgente del suo episcopato.
Da Monopoli non si era sentito distolto. Mons. Bertazzoni aveva esultato per quella promozione alla sede vescovile di Mantova. Intuiva che al Sud il rodaggio era ad alta tenuta di spirito e di sicuro collaudo pastorale.
“Quando il 20 Settembre 1967 è stato annunziato il mio trasferimento a Mantova, si è letteralmente precipitato a Monopoli; era raggiante, ero il vescovo della sua Mantova, addirittura il “suo” Vescovo. Che cosa vedano poi questi uomini di Dio è proprio un mistero”
E’ mistero, che se è sicuramente nelle mani di Dio, è ugualmente affidato alla nostra capacità di intuizione e di rilettura umana, per rinsaldare quel passato al nostro presente.
E’ l’orizzonte di Mistero cui si affidava e al quale tutti richiamava, pronunciando, senza schemi, le parole di commiato da Monopoli, con destinazione Mantova.
Chi era Monsignore Ferrari?
“Chi era Bertazzoni?”: è la domanda che faceva rimbalzare ai Mantovani?
“Chi era Mons. Carlo Ferrari?”: è la domanda che riprendiamo per i Monopolitani.
Carlo Ferrari era uno dei Vescovi più giovani d’Italia: 42 anni! Proveniva dal Nord: Fresonara (Tortona). Lungimirante, la scelta del Pontefice Pio XII, che in terra di Puglia nel giro di pochi anni costellava la regione di Vescovi estranei del tutto alla tradizione meridionale. Un tentativo pastorale, che la storia deve ancora leggere nel contesto più generale. Anche in virtù di un mutamento avvenuto nel dopo-Concilio: privilegiando la teologia della Chiesa locale, si preferisce dare alle diocesi figure di vescovi più legati alla medesima area geografica.
Mons. Carlo Ferrari si staglia ancor più nel panorama di questa rilettura, tutta da inventariare, nel tessuto della non tramontata “questione meridionale”.
Con giovanile energica intelligenza intende guidare la diocesi verso una più convinta e matura cattolicità. E non vi rinuncerà mai. Più tardi, nel confidente discorso del commiato da Monopoli, riconoscerà di essere stato energico per giovanile età, ma consegna a tutti la genuina credibilità del suo operato pastorale.
Ma è il caso di riprendere un testo estremamente limpido di Mons. Carlo Ferrari: legge il retroterra della storia di Monopoli, quello più immediatamente vicino al suoi anni.
E risale alla eccezionale, robusta figura di Mons. Nicola Monterisi.
Monterisi: quanta utopia pastorale aveva accompagnato le albe e i tramonti nella “sua” marittima Monopoli, da secoli legata a quel mare aperto e all’intramontabile devozione alla Madonna della Madia, l’unica tradizione secondo Lui – che meritava legittimità di riconoscimento. E a ragione: c’è e permane nell’humus religioso di tale venerazione il senso di quel quadro, destinato a troneggiare nella Cattedrale, sin da quando provenendo inaspettatamente dal mare, recava i segni prodigiosi di celeste assistenza.
Probabilmente Monterisi intuiva in questo avvenimento-tradizione il ruolo-vocazione di terra-ponte tra l’Oriente ortodosso e Roma cattolica.
Un solco da seguire: trasformare la religiosità in soda fede cattolica.
Ferrari riprende quel solco sospeso per atavica incapacità a respirare lo Spirito, e tenta di trasfonderne anima e direzione, traccia e strumenti, mezzi e finalità.
Nel 1957, rivolgendosi ai Sacerdoti di Monopoli, risale indietro nel tempo sino ai bagliori pastorali di Monterisi, che “insisteva già sull’urgenza di lavorare al fine di trasformare la religiosità delle nostre popolazioni in soda religione cristiana cattolica”.
E fa rimbalzare quell’ansia sul terreno dei cinque anni già trascorsi dall’ingresso a Monopoli. Le iniziative volte al rinnovamento non sono mancate: “Santa Visita”, “Missioni”, “Settimane Liturgiche”, settimane “per la gioventù”, “intenso e organico lavoro parrocchiale”. Tutto per “suscitare in mezzo ai fedeli il senso di Dio, il senso del peccato e il senso del bisogno della Grazia”[1] .
L’ansia di un Vescovo, Mons. Monterisi dalle radici meridionali, ritrova la sua passione di “cattolicità” in un Vescovo dalle radici settentrionali, che cerca di coniugare il suo animo intelligente e la sua fondata spiritualità, con il calore della gente di mare, aperta come il suo porto e allo stesso tempo piegata a sciogliere le reti del vivere civile e religioso entro ristretti ideali.
Mons. Ferrari entra nel vivo della “questione meridionale” non da giudice, ma da lettore divenuto con-fratello. Se Monterisi aveva avvertito che ancor prima del popolo, il Clero era da convertire dalla “tradizione” alla “fede cattolica”, Mons. Carlo Ferrari opera la scelta di incidere sulla mentalità del Clero. Ad essi propone un obiettivo comune, un metodo serio, una proposta basata su contenuti.
Il clero ritrovi la sua identità rispetto a Cristo e alla chiesa.
L’obiettivo: innanzitutto superare la tentazione di continuamente passare a nuovi “piani”. “Dal giorno in cui abbiamo incominciato a lavorare insieme”, non si è legittimati a “passare ad un nuovo ‘piano’… non sarebbe serio pensare così proprio perché è troppo serio il nostro obbiettivo”. I primi comuni “sforzi hanno approdato a qualche cosa; però il più resta da fare: i lontani restano lontani, da coloro che ci stanno vicino abbiamo richiesto più lavoro che perfezione, alle persone responsabili più favori che competenza e onestà e per lo più non le abbiamo assistite come pecorelle particolarmente bisognose del nostro gregge; per i giovani e gli adolescenti si è fatto poco e per i bambini (che è il settore più curato) tutti siamo d’accordo che molte cose vanno fatte meglio… l’obiettivo della nostra campagna va perseguito ancora per molto tempo e con molta perseveranza metodica”[2].
Chiarezza di pensiero e chiarezza di richiami sfociano nella esigenza di centrare la sostanza dell’obiettivo, al cui servizio porre un “metodo”: “Quando il discorso cade sul metodo, noi preti facilmente siamo tentati di prestarvi poca attenzione. La trovata geniale, l’impulso estroso, la manifestazione più o meno imponente ci solleticano di più. In qualche momento viene proprio fatto di dubitare della nostra serietà: ci prefiggiamo di creare una mentalità, un modo di sentire, un costume di vita e poi c’illudiamo di poterlo fare con qualche cosa di sporadico, eclatante, superficiale”[3].
Il continuo sperimentalismo, affidato all’estroso e alla fantasia del momento, sganciato da un programma continuativo, può risultare meno “attraente”; ma “è indispensabile che ci sia nella nostra preparazione e nelle nostre disposizioni la novità delle idee schiarite, la consapevolezza della nostra strumentalità a disposizione di una Grazia onnipotente e perciò il senso ottimistico che nasce da una fiducia soprannaturale”[4].
In modo quasi ardito per noi avviati al terzo millennio, Mons. Ferrari osa dire: “Il mondo in cui viviamo – siamo nel I957, si badi bene – è ammalato di ‘novità’ e di ‘fretta’; noi, dobbiamo essere ‘serii’ e continuare a seminare pur sapendo che per raccogliere dovremo attendere per più di una stagione, sicuri che il nostro prodotto si affermerà perché è buono”[5].
L’obiettivo, il metodo, la continuità esigono un respiro di “organicità”. E per Lui questo significa: “prima di tutto rispettare la natura e le leggi di quell’organismo in cui nasce, si sviluppa e matura la vita cristiana: la Parrocchia come cellula della Chiesa o, se si vuole, la piccola Chiesa che è la Parrocchia. In essa troviamo un capo, delle membra, dei gangli vitali, ecc. E’ chiaro e logico che per la organicità e quindi la fecondità della vita parrocchiale, la prima condizione è che funzioni il capo, cioè che il parroco sia il centro in cui diventano coscienti tutte le percezioni periferiche e da cui partono gl’impulsi per tutte le membra.
Gesù diceva: ‘Cognosco oves meas’; il Parroco comincia a funzionare da capo a misura che acquista una cognizione esatta delle condizioni del suo gregge. Non è tempo perso quello impiegato dal Parroco a conoscere personalmente i propri figliuoli e le loro condizioni religiose, morali, sanitarie, economiche, politiche ecc.; anzi se il Parroco non ha il coraggio di affrontare subito questo compito, moltissimo del suo tempo sarà sprecato senza frutto”[6].
Se dovessimo rileggere le pagine storiche di Monterisi, ritroviamo in questa prospettiva concreta, ma non semplicisticamente pragmatica, il rinnovarsi segnaletico del cammino già da anni progettato, ma rimasto in abbozzo. Come Monterisi, anche Ferrari dalla cattedra della diretta visione delle cose, attraverso la visita pastorale, percepisce lucidamente che le Parrocchie devono tornare ad essere centri motori di vita pastorale, dove i parroci e i sacerdoti non la fanno da padroni assieme ai propri familiari, ma dove si impara a servire Cristo.
Mons. Ferrari non indulge su questa piaga del Clero, succube della famiglia e perciò non libero di essere pastore del popolo di Dio: “Una parte delle attività del Parroco, che lo fa assomigliare al burocrate e al funzionario, ha di molto diminuito nella considerazione del popolo il valore giuridico e morale della figura del Parroco, e un pericoloso amore di quieto vivere lo potrebbe in pratica ridurre al livello di quelli che seppelliscono i morti quando invece dovrebbe sempre mantenersi all’altezza di chi conduce dei vivi.
La tradizione cristiana ha sempre considerato chi presiede le comunità dei fedeli come uno che ci vede bene, che ha un patrimonio di saggezza, che governa una famiglia, e lo ha chiamato ‘episcopo, presbitero, padre, ecc.’ e i fedeli si sono rivolti a lui come ad una guida, a un esperto, a un padre”[7].
“Il primo punto” dunque per un diligente fruttuoso “metodo pastorale è che il Parroco sia il capo della sua comunità di fedeli”; “Il capo deve poi vagliare i bisogni che riscontra ed essere organico nello stabilire una gerarchia fra questi bisogni, per accertare quali sono i più fondamentali (non i più impressionanti) e quindi i primi da prendersi in considerazione. Così sarà in grado di intraprendere iniziative e trasmettere direttive adeguate ai bisogni”[8].
Direttamente collegato al primo, “il secondo punto”: il Parroco deve convincersi “che da solo non può arrivare a tutto e perciò ha bisogno di collaboratori, i quali svolgeranno un lavoro proficuo solo a condizione che esso sia organizzato”[9].
Emerge qui una costante caratteristica dell’episcopato di Ferrari: l’aspetto giuridico, chiaramente stabilito dal Codice, lo ritiene assodato e perciò quasi inutile da richiamare a persone che si reputino intelligenti. Lui preferisce “l’aspetto etico”, in questo caso, “della funzione” dei sacerdoti.
Il valore morale della collaborazione richiede qualcosa di semplice, ma non di scontato: “Messo chiaramente e insistentemente l’accento sul fatto che ogni loro attività deve sottostare al giudizio e alla approvazione del Parroco, non è errato affermare che la loro competenza, escluso l’ambito amministrativo-economico, è ampia come quella del Parroco.
Quindi i Vicari Cooperatori sono al loro posto quando si mantengono in un atteggiamento di piena disponibilità rispetto al Parroco; ciò che equivale ad esercitare con naturalezza l’umiltà, l’ubbidienza, la generosità. II Parroco a sua volta deve sentire il Vice-Parroco come un fratello, delle cui doti gode e ringrazia il Signore di poterle tutte impiegare per il bene dei suoi fedeli; e perciò deve guardarsi dal farla da padrone e da ogni sentimento di gelosia, e nutrire invece ogni sentimento che deve stare nel cuore di un buon fratello maggiore.
La conseguenza pratica è che il Parroco resta il capo della comunità Parrocchiale, ma dispone anche delle idee, delle iniziative e delle energie dei suoi Cooperatori, che mette a parte sempre di tutti i problemi della vita parrocchiale”[10].
Mentre Mons. Ferrari, da saggio Pastore – “Pastor et non percussor”, come da antica data richiedeva il Concilio di Trento – si cala dentro la situazione quadro di una porzione di Sud, che è poi fotografia paradigmatica dell’intero sud, coglie nell’isolamento dei sacerdoti, nel loro individualismo, un errore di metodo pastorale, oltre che di snaturamento degli obiettivi di Chiesa. A loro chiede di sganciarsi dalle influenze familiari, che creano il rischio di ridurre la parrocchia-clero a “congrega” di interessi di clan. Soprattutto li sospinge a rendere ragione del “talento-sacerdozio” da trafficare per il Regno e non per la terrestrità mondana: “Se Gesù è così geloso dei talenti non trafficati, sarà esigentissimo per il talento del sacerdozio. Inoltre nella vigna del Signore non c’è posto per il dilettantismo: bisogna lavorare con Lui (“qui non colligit mecum, disperdit”) e Lui lavora con la sua Chiesa e senza dubbio col Parroco che è Chiesa autentica” [11].
Non sia inutile rilevare l’intelligenza che Mons. Ferrari rispolvera la medesima citazione biblica utilizzata da Mons. Nicola Monterisi, per portare avanti la stessa “campagna” di risanamento morale del Clero, e risanare lo spirito delle comunità cristiane, oltre lo stallo devozionale, esteriore, attraente, superficiale delle statue da vestire, delle processioni da far sfilare, delle Confraternite da gestire ecc. Occorre risalire alla coscienza della dignità del Sacerdozio di Cristo, che coinvolge tutti i Sacerdoti, Parroci, Collaboratori e gli altri innumeri, perdentisi magari a far “bottega”: “Per quella porzione di fedeli tra i quali un Sacerdote svolge la sua missione, la Chiesa si riassume in lui, la Chiesa è lui. Egli non può esonerarsi da questo o quel dovere pastorale dicendo: ‘questo spetta al Parroco, questo è affare del Vescovo o del Papa’. il Papa, il Vescovo, il Parroco non arrivano a quei fedeli se non per mezzo di lui”[12].
Questa opera è comune e deve essere metodicamente portata nella medesima direzione del Regno con stile comunitario: “Celebrare, confessare, predicare senza tener conto delle direttive del Parroco, non è ‘colligere’ ma ‘disperdere [13].
I Religiosi e le Religiose, che cominciano ad essere più presenti in Diocesi, rispetto ai tempi monterisiani sono considerati anch’essi da Mons. Carlo Ferrari entro l’alveo della Chiesa, non da essa distaccati, in autonomia di carisma e di attuazione: “l’attività dei Religiosi, se deve raggiungere delle finalità specifiche consone ai fini del loro Istituto, le raggiungerà tanto più sicuramente quanto più sarà consona alle finalità che formano le preoccupazioni attuali della Chiesa, operante nel determinato settore di una Parrocchia[14]. Il che vale sia per i Religiosi che per le Religiose.
Per queste ultime riserva un richiamo per la responsabilità collaborativa del parroco: “E’ chiaro anche che il Parroco che vuole trovare da parte delle Religiose della sua Parrocchia la migliore collaborazione dopo quella dei Sacerdoti, deve convenientemente interessare le Suore alla vita della Parrocchia, e dare generosamente ad esse quanto è richiesto per una più efficiente vita religiosa”[15].
L’altra aderente proposta di Mons. Carlo Ferrari è quella di riportare la collaborazione dei Laici entro i giusti ambiti, quelli derivanti dal sacramento del battesimo, non quelli derivanti dalla buona individuale volontà, asservita a degli obiettivi, se non contrastanti con la fede perlomeno mediocri rispetto alla purezza della dottrina e della morale.
“La collaborazione dei laici – scrive – pone al Parroco due impegni: prepararli e Impiegarli convenientemente.
La preparazione implica una scelta e una cura. Mi pare che il Parroco nello scegliere i collaboratori del proprio ministero dovrebbe avere la stessa avvertenza che ha il Vescovo nella scelta dei candidati al Sacerdozio ammettere i più intelligenti e i più virtuosi. Quindi accogliere facilmente bambini e bambine, adolescenti nelle nostre associazioni; averne molta cura; ma quando sono nell’età da poter dare una collaborazione, ammettere solo chi sente la collaborazione col Sacerdote come un privilegio ed è in grado di darla, perché è intelligente, onesto e capace.
Mi pare che ci siamo circondati un po’ troppo di gente che vuol mettersi in vista ed è incapace di intenderci e di aiutarci.
Dobbiamo avere maggiore stima delle persone, per impedire che stiano a fare numero.
Perché poi ci sia davvero collaborazione, è necessario che i collaboratori sappiano con chiarezza ciò che vuole il Parroco; quindi che siano messi a giorno delle sue intenzioni; che abbiano un compito ben determinato e che si sentano continuamente assistiti da un effettivo interessamento del Parroco alla loro attività”[16].
L’accettazione di queste direttive è vincolata da Mons. Ferrari alla coscienza interiore dei Sacerdoti, che conoscono la mèta della propria attività pastorale: “destare nei fedeli il senso di Dio, il senso del peccato e il bisogno della Grazia. Qualunque punto della dottrina noi insegniamo, lo dobbiamo sempre riportare a questi postulati; qualunque punto della morale, lo dobbiamo giustificare e proporre per le ragioni e con i mezzi contenuti nei medesimi; tutta l’attività sacramentaria deve essere illuminata dalla presenza di Dio sommo bene e del peccato sommo male.
Gesù che ci rivela un Padre d’immensa maestà, che ci scopre che qualunque male ha origine dal peccato e che ci vuole riportare al Padre liberandoci dal peccato, comunicandoci una vita più piena, deve trovare una voce autentica, che parla a tutti nelle nostre Chiese, come Lui continua a parlare nella Chiesa”[17].
Quasi en passant, volgendo alla conclusione del suo itinerario propositivo, Mons. Ferrari accenna anche ad una diretta conseguenza dello stile nuovo da adottare: tradurre il “costume cristiano nella vita civile”: “Non ci può essere nulla di ragionevole nella vita sociale se non se ne vedono le origini e le ragioni in Dio; neppure le leggi degli uomini si giustificano se non per il peccato, e solo quel tanto di sacrificio con cui ci uniamo al sacrificio di Cristo ci assicura quella Grazia che è rimedio anche per i mali sociali”[18].
Sapendo di toccare sul vivo la comune sensibilità del Clero e del popolo diocesani Mons. Ferrari, fa appello alla devozione verso la Madonna, devozione esaltata dalla chiusura “delle manifestazioni di Fatima” e dalla apertura del “centenario di quelle di Lourdes”: “La Madonna ci dice di piangere i nostri peccati, di pregare, di confessarci e comunicarci per trovare la nostra salvezza in Dio. Ripetiamo le nostre cose nel nome di Maria: c’è Dio, lo dice la Madonna; i nostri mali sono il peccato, lo dice la Madonna; la nostra salvezza sta nella Grazia di Gesù, lo dice la Madonna a Lourdes e a Fatima”.
L’obiettivo di Monterisi tornava in cronaca con Mons. Ferrari. La storia, anche se tardivamente, è capace di rendere ragione a chi lavora nel tempo che passa, costruendo contenuti per il tempo che non tramonta: il Regno di Dio.
Così per Monterisi. Così per Ferrari.
don Stefano Siliberti