Mons. Carlo Ferrari: ho scritto in cronaca di lui, fino al giorno in cui, dopo le sue dimissioni da Vescovo di Mantova, le rassegnai anch’io dal settimanale cattolico “La Cittadella”. Lo sentiva ‘suo’ per la diocesi, questo strumento per la comunicazione e la comunione. Da lui avevo ricevuto l’invito ad assicurarne la continuità. A lui restituivo la mantovanità tutta intera di questo settimanale. Nessuna rassegnazione; solo la libertà di far gestire ad altri il suo ufficiale ‘commiato’ episcopale e la contemporanea libertà di preparare il saluto al Vescovo che il Papa avrebbe designato per Mantova.
Nel 1967 la gente che gremiva la cattedrale di Monopoli seguiva, commossa, il gesto così solenne e austero dell’amato Pastore mons. Carlo: il deporre il pastorale, simbolo del Buon Pastore, sull’altare del sacrificio eucaristico. Giovane chierico, vivevo quegli attimi con le lacrime dell’affetto e della devozione e della nostalgia. La Provvidenza, che si serve sempre di persone vive, e nel mio caso di mons. Carlo, ha piegato le vicende fino a portarmi a Mantova.
Ed ora, nell’aver sostato in raccolto silenzio dinanzi alla figura di un tale Vescovo lì, in sala di rianimazione a Verona, mi è risultato naturale, spontaneo accostarlo a quell’indimenticabile momento del 1967: Lui, Carlo Vescovo, m’è parso come pastorale adagiato sull’altare del sacrificio silente, dinanzi a Dio. Quel volto sereno non può vedere i volti, forzatamente distaccati, di chi vorrebbe farsi scrutare dai suoi occhi.
Non resta che parlare al suo silenzio, così come Lui aveva parlato nel silenzio della cappella del Seminario mercoledì 4 novembre, nel giorno del suo onomastico e del suo celebrato quarantennio episcopale; fargli giungere una impotente, eppur necessaria preghiera, soffio d’affetto; ascoltare l’amichevole invito dell’amico medico che sussurra: “daGli una benedizione” e timidamente tracciare il richiamo a croce dello sguardo di Dio su Chi di Dio ha sempre e soprattutto parlato. E mentre tracciavo la mia sacerdotale timida benedizione sul Vescovo Carlo tornavo alla notte di Natale del 1960, quando ricevetti la sua benedizione ai piedi della sua cattedra: “predica bene” mi disse. Contavo 12 anni: e la predica me l’avevano preparata altri; e declamai a memoria, col suggeritore alle spalle, la semplice umiliata Parola del Dio-Bambino. Non ho più dimenticato quella benedizione e quel “predica bene”; ho dimenticato se il Vescovo Carlo mi abbia elogiato; so però che il suo elogio era un sorriso rassicurante, era la gioia che si dipingeva sul suo volto. La stessa gioia l’ho rivista mercoledì sera, quando attorniato dai piccoli seminaristi delle medie, si sentiva dire da uno di essi: “Ho ricevuto la Cresima da Lei, Eccellenza”; e il sorriso ha acceso di luce i suoi occhi finemente scrutatori.
Lo sosteneva, quella sera da seminario, una forza interiore lungamente superiore a quella fisica; le parole dettategli dal cuore entravano in sintonia con le testamentarie parole di San Giovanni: “vogliatevi bene” e con dolcezza metteva in guardia dalle facili fughe verso individualismi pastorali, che si risolvono in evidente negazione del ‘comandamento dell’amore’. Sulla lunghezza d’onda di quella indimenticabile serata del Vescovo Carlo sostenuto a braccia da altri, nel momento stesso in cui egli spiritualmente era ‘sostegno’ rafforzato di fede e di impegni per tutti, rivivo oggi dentro di me la risonanza delle costanti che hanno caratterizzato il suo predicare nelle affollate celebrazioni in cattedrale a Monopoli, nelle affollatissime piazzate di gente, immediatamente dopo il Concilio, quando la forza timbrica della sua voce catturava sguardi e cuori. Riecheggiano in me i suoi messaggi nelle albe ancora buie di dicembre, allorchè nel porto approdava una zattera addobbata per Maria, la Madonna della Madia. E come Egli stemperasse “i colori del Mistero” nel trascolorarsi di queste albe processionali dal porto alla Cattedrale. Così via via lungo tutti questi anni mantovani, verso la compiuta sobrietà del ‘vogliatevi bene’, quasi a sfrondare da tutto, il nucleo che resta come bilancio sicuro e rassicurante per l’eternità.
E mi sia consentito dire di Lui e del momento sofferto per la morte di mia madre, quando Egli insisteva perchè lo ‘portassero’ e lo ‘sostenessero’ nel salire le difficili scale della mia casa; desiderava rendere omaggio alla mia mamma, tanto più sapendo che non ero stato in grado di raggiungere in tempo per celebrarne le esequie. E si era raccomandato che al mio arrivo, Lo andassi a trovare. Mi aspettava.
Ora l’attesa è mutata. Nella fede e nella preghiera attendiamo che il Signore sia il suo ‘sostegno’ in questo sofferto salire, più che semplici scale umane. Noi non possiamo far giungere la nostra voce al suo silenzio; possiamo però far salire al suo e Nostro Signore in ascolto la voce implorante e il Credo nel Vivente.
don Stefano Siliberti