Il commiato di Mantova al Vescovo Carlo
Da mercoledì mattina a venerdì in Duomo:
celebrazioni e visite ininterrotte
Folla commossa di fedeli al rito esequiale concelebrato da 8 vescovi e 200 sacerdoti. L’omelia a mons. Caporello. La salma di mons. Ferrari tumulata in Cattedrale.
Così, per l’ultima volta, lo ha visto la gente di Mantova: adagiato sul pavimento del Duomo, stretto in una semplice bara, rivestito degli abiti pontificali sul petto una piccola croce d’argento a lui cara tra tutte, opera dell’amico Cesare Lazzarini, al dito l’anello del Concilio, dono di Paolo VI a tutti i Padri che lo celebrarono, il viso sereno composto nella pace di una morte tranquilla, ancorché preceduta dalla pena di 25 giorni in stato di coma.
Così abbiamo pregato accanto a Lui dal mattino di mercoledì 2 dicembre, quando la salma giunta da Verona venne esposta nel Duomo di Mantova, fino al rito esequiale di venerdì mattina. Un passaggio ininterrotto di gente che sostava in preghiera, la celebrazione eucaristica di mercoledì sera presieduta dal provicario mons. Mantovani, la Messa celebrata dal Vescovo Caporello giovedì mattina e ancora, nel pomeriggio, particolarmente toccante, la veglia di preghiera dei piccoli ospiti della Casa del Sole, e la celebrazione Eucaristica capitolare presieduta da mons. Ciro Ferrari.
Poi, alle 10 di venerdì, la solenne commossa celebrazione esequiale, con otto vescovi, circa 200 sacerdoti diocesani (in pratica tutto il presbiterio), le rappresentanze delle diocesi di Monopoli e di Tortona, religiose e religiosi, laici impegnati nelle parrocchie e nelle associazioni e semplici fedeli, tutte le autorità cittadine e provinciali: per un rito che si è snodato lento, composto, solo in apparenza costretto entro le rigide regole liturgiche, libero in realtà di dilagare nella memoria e negli affetti di coloro che, preti e laici, per 19 anni l’ebbero pastore di questa chiesa e di numerosi altri che lo conobbero prima e dopo l’episcopato mantovano, aperto, il rito stesso, ai significati, anche i più intimi, di cui ciascuno ha potuto caricarne tratti, gesti, parole.
La morte illumina sempre qualcosa che era rimasto in ombra e, paradossalmente, lo ravviva. Per i credenti, la morte è momento di grazia tra i più preziosi e sacri, ed anche tra i più impegnativi per chi resta. Si tratta, come ha detto il Vescovo Caporello nell’omelia di cui riportiamo a parte un ampio stralcio, di ereditare questa morte, di prenderla in mano, per orientamenti e scelte di vita.
L’eredità del Vescovo Carlo non è difficile da cogliere, semmai è difficile da accogliere e da gestire. Alcune indicazioni sono già presenti nell’omelia del Vescovo, altre si possono cogliere nella estrema sintesi dell’epigrafe posta accanto alla salma, che riportiamo a parte. Ma si vedano ancora le testimonianze pubblicate nelle pagine centrali, da leggere non come tasselli di uno scontato elogio funebre ma come stimoli alla anamnesi di un’esperienza di chiesa e di pastorato diocesano che insieme, o anche solo personalmente, abbiamo vissuto.
Al termine del rito, la supplica che “penetra i cieli”, cantata dal grande coro di vescovi, sacerdoti e fedeli: “In paradisum deducant te angeli…” Quindi, con breve processione, la bara portata a spalle da sei sacerdoti ha raggiunto la cappella di Santa Caterina la seconda a sinistra di chi entra in Duomo, dove è stata tumulata. Un improvviso battimani durante il percorso, solo omaggio esplicito e spontaneo, non previsto dal rito. Omaggio a una testimonianza, a un’eredità spirituale, a una seminagione generosa compiuta con forza e con fiducia, a una persona di credente, che ora cade come seme nel solco per germogliare in vita nuova. “Vita mutatur, non tollitur”.
Verremo a questo solco, Vescovo Carlo, come a una fonte di ispirazione, di fede fiduciosa, di saggezza e di pace.
Don Regis Benito,
direttore del settimanale cattolico: “La Cittadella”
“La Cittadella”, 13 dicembre 1992