La prima volta che incontrai il vescovo Mons. Carlo Ferrari fu a un corso di Esercizi Spirituali, ad Ariccia (Roma).
Ero stato ordinato prete da pochi mesi, ero ancora studente al Pontificio Istituto Biblico. Lui era vescovo a Monopoli.
A Roma si celebrava il Concilio Vaticano II.
Più volte si sentiva parlare di mons. Ferrari per il suo piglio sportivo
(tutti allora ci meravigliavamo che guidasse una macchina veloce)
e per la totale apertura alle “novità” conciliari.
Anche il corso di Esercizi diretto da Lui fu “nuovo”: colloqui tra noi e il predicatore,
massima cura nella celebrazione liturgica erano elementi che, a quei tempi, suonavano come nuovi.
Fu una scoperta: noi studenti potevamo vivere accanto ad un vescovo che ci parlava di Dio fraternamente,
semplicemente, ma, con totale schiettezza e franchezza.
In quell’occasione conobbi chi doveva pochi anni più tardi diventare il mio vescovo.
Il suo ministero in mezzo a noi mi è sempre parso come un “corso di esercizi spirituali”,
non come un ‘governo’ nell’accezione amministrativo-politica che il termine può avere.
Un anno dopo, in occasione del viaggio degli alunni del Seminario Lombardo in Grecia, mons. Ferrari venne ad accoglierci al porto di Brindisi.
Sbarcati dalla nave, saliamo su un pulman al quale l’auto del vescovo sembrava fare da staffetta per guidarci fino all’episcopio di Monopoli,dove ci trattenemmo per uno spuntino con pane e salame, ma soprattutto con il buon vino di Puglia.
Era un vescovo amico che ci veniva incontro, senza tante parole, ma con la generosa disponibilità e l’accoglienza più aperta.
Ci fermammo a Monopoli anche in occasione di un viaggio turistico del Seminario Lombardo in Puglia.
Incontri brevi, ma pieni di umanità cordiale.
Poi seppi che sarebbe venuto vescovo a Mantova.
Allora scrivevo ogni settimana sul settimanale “La Cittadella” un piccolo commento alle letture domenicali.
Era una domenica di avvento in cui si leggeva un brano evangelico su Giovanni Battista.
Per il giorno del suo ingresso ufficiale in diocesi scrissi pressappoco così: il Vescovo è, come Giovanni Battista,
un ‘dito’ puntato che mostra la via per andare a Gesù Cristo.
Così infatti è sempre stato.
Nel luglio del 1969, si tenne a Coira (Svizzera) il primo incontro dei vescovi europei.
Partecipai anch’io, facendomi passare come ‘esperto’ teologo del mio vescovo.
Non appena arrivati al seminario di Coira, nel cortile, incontrammo mons. Poma che vestiva un clergyman nerissimo e piuttosto abbondante.
Di fronte a mons.Poma stavamo io, altri due preti mantovani e mons. Ferrari.
Ci salutammo e mentre eravamo tutti disposti in cerchio mons. Poma esclamò: «Vestiti così, sembriamo tutti dei pastori protestanti!».
Evidentemente si trovava a disagio in quella veste. Mons. Ferrari, invece, aveva già ‘assimilato’ la novità.
Non ricordo se fu in quell’anno o l’anno precedente che ebbi la percezione ancora più netta della spiritualità del mio vescovo.
Un tardo pomeriggio di gennaio, immerso nella tediosa nebbia padana, suonò improvvisamente il campanello della mia stanza in Seminario.
Come al solito, gridai: «Avanti!». Con mia grande sorpresa entrò il vescovo.
Senza tanti preamboli, mi salutò sorridendo, si sedette e si precipitò a dirmi subito il motivo di quella visita.
Avrebbe voluto scrivere una lettera pastorale ai cristiani della diocesi di Mantova.
Voleva prendere come tema il discorso della montagna, per far emergere soprattutto i temi della fiducia in Dio, della preghiera e della povertà.
Mi disse scherzosamente «Vorrei scrivere sulla teologia del disimpegno.
Prima del cosidetto ‘impegno’ pastorale, dovremmo imparare da Gesù ad affidarci a Dio,
a pregare e a condividere con gli altri per essere poveri».
Era il suo programma, che non trovò la forma della «lettera», ma riecheggiò insistentemente fino alla recente settimana pastorale.
Una pastorale evangelica, attinta direttamente al vangelo: questo è il tratto che accompagnò sempre il ministero del mio vescovo
Nei primi anni dopo il Concilio, mi capitò più volte di andare con il vescovo nei vicariati
per incontri di aggiornamento culturale sui testi conciliari o sulla Bibbia.
Una volta, in un vicariato della ‘Bassa’ mantovana, suscitai un putiferio di proteste e un vivace dibattito
perchè avevo sollevato il problema della storicità dei racconti evangelici dell’infanzia di Gesù.
Il vescovo assistette taciturno alla confusa diatriba e, alla fine, rivolto al prete che più si accalorava contro di me,
disse: «Daremo una tiratina d’orecchi a don Antonio».
Tornando a casa, in macchina con lui, parlai di altre cose e non si fece nessun cenno
alla questione della ‘storicità’ dei racconti dell’infanzia di Gesù.
Al mio vescovo era bastato un richiamo alla prudenza, una paterna tiratina d’orecchi
che mi lasciava ripensare responsabilmente la questione.
Forse ha fatto così tante volte, per molte questioni pastorali.
Non il silenzio imbarazzante, non l’intento autoritario, ma la sollecitazione amichevole-paterna a riflettere,
a procedere con cautela e prudenza.
È l’autorità del vescovo che guida senza imporre, che suggerisce senza comandare,
che sta vicino non indifferente ne semplicemente come ‘mamma’ superprotettiva.
L’amicizia profondamente umana e ricca del vescovo mi si rivelò in occasione della morte di mia madre.
Una triste mattina gli telefonai per informarlo.
Ed egli dopo venti minuti si trovava già a casa mia, dove abbracciò fraternamente mio padre
e si trattenne in preghiera. Voleva essere vicino e subito.
Mons. Ferrari è stato per me una guida discreta e saggia.
Un giorno andai da lui per chiedere che cosa avrei dovuto decidere su un certo problema mio personale.
Mi ascoltò attentamente, fissandomi intensamente come usa fare, poi disse:
«In questa circostanza, tu sei meglio in grado di chiunque di decidere. Dopo aver riflettuto, scegli».
E mi lasciò la piena libertà di decisione, non senza fare qualche considerazione che mi fosse utile tener presente.
Sono questi alcuni semplici ricordi di incontri simpatici e importanti per me.
Non bastano certo per fare un ‘profilo’ di Mons. Ferrari, ma ne fanno risaltare alcune caratteristiche e doti
che danno alla sua presenza in mezzo a noi il sapore di una testimonianza evangelica non priva di fascino.
Forse a lui, così riservato e a volte taciturno, potranno sembrare “parole di troppo”.
Lui ha scelto spesso il silenzio attento e riguardoso, la pazienza fiduciosa, l’ascolto accogliente.
Così è il vescovo che mi piace.
don Antonio Bonora
Mons. Carlo Ferrari “Un concilio e una Chiesa” pag 193-197