Ieri il solenne e commosso addio
della Chiesa mantovana.
Otto vescovi, sacerdoti mantovani, di Tortona e di Monopoli, autorità e fedeli per l’ultimo saluto.
L’hanno vestito come un vescovo dell’Alto Medioevo un tessuto che sembrava corda sottile con qualche striscia di rosso vecchio e di verde spento, intrecciate con una fede di secoli. Una semplice croce di metallo era posata sul petto proprio all’altezza del cuore, al dito l’anello che Paolo VI aveva donato a tutti i padri del Concilio sembrava chiedere alla mano destra ancora un attimo di vita. Ai piedi l’angolo quasi retto di una mitra bassa chiusa come una busta, a significare che il suo destino di vescovo era compiuto.
Così, nella tarda mattinata di ieri, monsignor Carlo Ferrari è sceso sotto il pavimento del Duomo, nella seconda cappella di sinistra dominata da una statua di Santa Caterina. Nella nuda terra, come aveva voluto per se Paolo VI, in una nicchia scavata in fretta e resa quasi preziosa dai resti di un antichissimo arco di pietre a vista che forse vide i passi di S. Anselmo. Mentre la bara si affidava alle viscere di Mantova, la grande campana suonava. Rintocchi lenti pesanti profondi, I’ultimo segno dopo le preghiere, i discorsi, i canti, le benedizioni. Tutte cose che mons. Ferrari aveva in parte vissuto quando sedici anni prima, nel marzo del 1976, lui e la Chiesa mantovana avevano celebrato i funerali di sua madre. Allora aveva fatto sapere di essere sorpreso e commosso per la larga e cordiale partecipazione al suo lutto. Sorpreso.
Aveva proprio usato questo sorprendente aggettivo e l’avrebbe usato anche ieri se avesse potuto ringraziare, alla maniera degli uomini, tutti coloro che l’hanno accompagnato nel brevissimo viaggio dalla balaustra dell’altare maggiore alla cappella con Santa Caterina.
Il primo discorso quasi furtivo fatto in seminario ben prima di entrare solennemente in città, l’aveva finito dicendo: «E adesso che vi ho visti, adesso che mi avete visto, non ditelo a nessuno». Un uomo schivo, quasi sussurrante, centrato sulla verticale della preghiera e dello studio.
Mentre monsignor Caporello, suo successore, cominciava la liturgia con un ampio segno di croce, fu come se per il vescovo Carlo si cominciasse a celebrare un giubileo senza anni ne date precise, eterno, davanti agli otto Presuli che erano arrivati a Mantova, tra cui Amari e Volta che lui stesso aveva consacrato, le autorità e i sacerdoti non solo della città e della provincia ma anche di Tortona e di Monopoli. Davanti a molti ragazzi della «Casa del Sole» a contatto dei quali aveva trascorso gli ultimi anni della vita.
«Per vivere e per ereditare questa morte…» così è cominciata l’omelia tenuta da mons. Caporello che ha tracciato un profilo dell’uomo e del vescovo intrecciati come i tralci alla vite secondo il Vangelo del giorno. «Dobbiamo proseguire sulla nostra strada – ha detto il presule – arricchiti dalla sua morte, la morte di una persona cara che fu e resta nostro vescovo».
Ma non era solo la voce di mons. Caporello che si spandeva tra le colonne della cattedrale ma anche quella del mai dimenticato mons. Arrigo Mazzali, che per la festa del 25° di episcopato di Carlo Ferrari, nel giugno del 1977, aveva tracciato questo significativo bilancio: «Ogni vescovo nel suo lavoro lascia una particolare impronta: Menna l’amore per il catechismo, Poma l’apostolato dei laici, Ferrari la meditazione della Parola di Dio e lo spirito comunitario»
Al canto del «In paradisum deducant te angeli…» la bara veniva infine circondata dai vescovi, ciascuno per una benedizione segreta e personale.
Con i paramenti a lutto, formavano una balaustra viola che per qualche minuto ha isolato i nove presuli. Poi il feretro è stato alzato da terra (erano a terra anche quelli di Paolo VI e di Giovanni Paolo I) e: portato verso la pietra e il marmo finali.
Ondeggiante sulle spalle di sei sacerdoti, tra un improvviso battimani, sembrava che emergesse l’inesorabile domanda: «Che ho fatto in tanti anni?» La risposta arrivò ancora da quel giugno 1977, la voce lontana di Carlo Ferrari diceva: «Ho sempre cercato di dire di sì allo Spirito di Dio, secondo il mio temperamento, così come sono fatto e certamente con limiti e pigrizie».
La bara è calata lenta, sfiorando l’antichissimo arco.
Cesare De Agostini
Dal quotidiano di Mantova “La Gazzetta” 5 Dicembre 1992