Mosè era colui che aveva visto e camminava come uno che aveva visto
Brescia Mercoledì, 15 Ottobre 1969 ore 16,15 incontro con i sacerdoti
Vi propongo il ritiro come tema del ritiro. Vi propongo quell’elemento della vita spirituale che è il raccoglimento. Possiamo rifarci alle grandi indicazioni che ci vengono dalla rivelazione stessa, dal modo con cui si è svolta la rivelazione.
Abbiamo il tema biblico del deserto.
Abramo parte dal suo paese e va in una terra lontana attraversando per lunghi anni il deserto.
Il popolo di Israele è costituito, come popolo, nel deserto e vive nel deserto l’ora più intensa e più forte della sua storia.
I Profeti, generalmente sono preparati alla loro missione attraverso un ritiro nel nascondimento del deserto.
Nostro Signore Gesù Cristo stesso dà inizio alla vita pubblica con il grande digiuno e il grande ritiro di quaranta giorni e quaranta notti nel deserto.
Cerchiamo di fermarci soltanto su alcuni punti per cogliere le espressioni essenziali di questo linguaggio della rivelazione.
Tutti coloro che sono stati chiamati ad attraversare il deserto, ad inoltrarsi nel deserto o a camminare nel deserto, vi sono stati condotti da Dio perché facessero l’esperienza intima della sua presenza e di ciò che Egli è capace di compiere per la salvezza del suo popolo.
Abramo avrà, ad un certo punto e in un certo qual modo, la visione di Dio stesso.
Il Popolo di Israele fa l’esperienza di Dio in diverse riprese. La più impressionante è quella che termina ai piedi del monte Sinai quando riceve la legge, quando è invitato ad entrare in alleanza con il suo Dio e sancisce il patto con Lui.
La chiamata a stare alla presenza di Dio, a vivere con Dio, a fare una esperienza di Lui comporta una lontananza fisica. Nei casi descritti dalla Scrittura comporta una lontananza dal mondo, una lontananza dalle cose che interessano comunemente la vita. E’ una lontananza che non vale principalmente come allontanamento fisico ma vale soprattutto come mancanza della presenza della creatura perché la creatura può dare il suo aiuto.
Questo è espresso molto bene dalla esperienza del popolo di Israele quando nel deserto prova fortemente la nostalgia della vita che conduceva in Egitto. In Egitto anche se era in stato di schiavitù, aveva da mangiare, aveva una certa sicurezza sociale, mentre nel deserto il popolo di Dio ha addirittura la sensazione di essere abbandonato a se stesso, di essere destinato ad andare incontro ad una morte sicura e questo: anche se può fare l’esperienza che Dio non gli lascia mancare niente e compie i grandi prodigi dell’acqua e del nutrimento e lo protegge di notte e di giorno per dimostrargli di essere con il suo popolo come Colui che lo conduce, come Colui che lo sostiene.
Questo è un momento molto interessante da riferire alla vita spirituale: una esperienza che fa costatare come ci si possa abbandonare totalmente nelle mani di Dio e alla sua azione quando si compie il distacco intero, incondizionato, dalle creature, quando si arriva a riporre in Dio, e in lui soltanto, tutta la propria fiducia con la certezza di essere salvati senza l’appoggio o l’apporto o il sostegno dei mezzi umani. Il cammino nel deserto o la vita nel deserto non è una condizione di vita, è un momento dell’esistenza.
Iddio non conduce il suo popolo nel deserto così come non conduce i suoi profeti nella solitudine, perché vivano nel deserto e nella solitudine. Li conduce nella solitudine del deserto in un determinato momento della loro storia e della loro vita, perché facciano l’esperienza di Dio e poi “vadano” a compiere la loro missione e a svolgere i compiti della vita e dell’esistenza anche comune. Così nostro Signore Gesù Cristo non protrae, per tutta l’esistenza terrena, la sua permanenza nel deserto ma ci si ferma per poco tempo e poi incomincia la sua attività pubblica.
E’ un fatto, dicevo, che noi non dobbiamo trascurare. E’ un fatto di cui Dio stesso ha l’iniziativa. E’ Dio che fa compiere quest’esperienza. E’ Dio che chiede questi momenti di lontananza dal mondo e di vicinanza intima con lui, di presa di contatto con lui, di ascolto più attento di quello che Egli vuole dire.
La liturgia celebra il digiuno di nostro Signore Gesù Cristo nel deserto per un periodo abbastanza esteso dell’anno liturgico. Cristo ce ne mostra la necessità in un modo più evidente e più decisivo. Tutta l’esperienza passata è ripresa da nostro Signore Gesù Cristo ed evidentemente è proposta a noi che crediamo a Lui, a noi che vogliamo essere i suoi discepoli.
Nostro Signore Gesù Cristo nel deserto ci porta al momento in cui uno diventa capace di fare le grandi scelte – oggi si dice l’opzione fondamentale – tra il pane e la parola di Dio, tra il meraviglioso e lo straordinario e lo stupefacente e la fiducia in Dio che manda i suoi angeli perché il piede non inciampi nel sasso e in definitiva, tra il servizio del mondo e il servizio di Dio. Questo, come conclusione della sua permanenza in una condizione di raccoglimento.
Ma nostro Signore Gesù Cristo – e questo è molto importante e da tenere presente – vive questo mistero della sua vita terrena non solo per essere il nostro modello, non solo per farci scoprire i valori che sono contenuti in questo mistero, che ha i precedenti nell’Antico Testamento ma perché diventa Lui stesso il contenuto e l’espressione del deserto o, in una parola, soltanto la grazia del deserto.
Il deserto è la possibilità di fare un’esperienza di vita con Dio, è il mettersi totalmente nelle mani di Dio e fidarsi di Lui, perché è Lui che difende e prepara l’acqua e il cibo. Tutto questo è nostro Signore Gesù Cristo in persona.
Con nostro Signore Gesù Cristo si compie veramente la conoscenza intima di Dio soprattutto attraverso la comunione con il suo corpo e con il suo sangue per mezzo dei quali egli continua la sua presenza nella chiesa.
Gesù Cristo è l’acqua viva: “Se qualcuno ha sete venga a me e beva”;
Gesù Cristo è il pane disceso dal cielo: “Il Padre vostro ha mandato la manna nel deserto “;
Gesù Cristo è la via, la guida, Colui che conduce,
Gesù Cristo è la luce che splende nelle tenebre, è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.
Questi pensieri ci aiutano ad entrare nel senso, nel significato, nella grazia di una grande proposta che ci viene dalla rivelazione, la proposta di una vita lontana dal mondo, di una vita distaccata dalle creature, distaccata quindi dall’appoggio e dal conforto che ci viene dalle creature. Tutto questo evidentemente comporta uno sforzo, del disagio, il sacrificio:
il sacrificio del popolo di Israele,
il sacrificio di Elia che cammina e non ne può più,
il sacrificio di Abramo che abbandona la sua terra,
il sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo che digiuna e ci dà la certezza di trovare in Lui tutti gli elementi della nostra salvezza.
Riprendiamo ancora il pensiero.
Il deserto non è una condizione di vita, ma uno dei momenti di vita: un momento dell’esistenza cristiana che vale per tutti. Tutti coloro che vogliono raggiungere la salvezza devono avere le disposizioni fondamentali di scegliere tra il valore del pane e il valore della parola di Dio, di scegliere tra il valore delle cose meravigliose del mondo – oggi siamo davanti a delle meraviglie stupefacenti – e la sicurezza o la certezza della salvezza che viene soltanto da Dio, di scegliere tra il servire al mondo -inteso bene- e il servire a Dio.
E’ indispensabile – è indicato così dalla rivelazione – che ci siano dei “momenti di deserto”.
Io mi permetterei di dire, che ci sia qualche angolo nella nostra vita, che ci sia qualche momento nella nostra giornata, che ci sia qualche tempo nella nostra settimana, nei mesi o nell’anno in cui noi mettiamo in opera tutti gli elementi costitutivi della vita del deserto, per essere in grado di fare, poi, le nostre scelte e quindi di essere autenticamente cristiani e tanto più di essere autenticamente sacerdoti.
Il cristiano. La nostra condizione di vita come battezzati, come cresimati, come membri del popolo di Dio è definita dalla fede, cioè, dalla capacità che noi abbiamo, per un dono di Dio, di conoscerlo, di scoprirlo e di acquistare una conoscenza delle cose – di tutte le cose – che è una partecipazione alla conoscenza che ha Lui delle cose, di acquistare una conoscenza delle persone che è una partecipazione alla visione che ha Lui delle persone. Il cristiano si definisce dalla sua fede e quindi dalla capacità di una visione soprannaturale dell’esistenza, del mondo e anche di Dio.
Questo deve essere operante in noi tutti. Questo non deve essere soltanto un momento della giornata ma qualche cosa che accompagna sempre il nostro modo di vedere e di giudicare. Questo deve guidare la nostra capacità di scelta, questo deve caratterizzare il nostro comportamento in un modo ininterrotto. Questo, già per principio, noi lo definiamo soprannaturale, cioè, che è al di sopra delle nostre possibilità, delle nostre capacità, delle nostre condizioni abituali.
Se noi ci lasciamo portare dalla nostra natura, così come siamo fatti, < tutt’al più arriviamo ad avere una visione naturale del creato, del mondo, delle creature e ci arriviamo per mezzo di uno sforzo di elevazione culturale, ma nella maggior parte dei casi andiamo avanti condotti dal giudizio degli altri. Pensate alla massa della gente che non ha una capacità di giudizio per comportarsi in un modo del tutto personale. Che cosa fa? Va dove vanno gli altri. Accetta le cose perché ha fiducia in alcune persone.
Già a questo livello di vita, quindi come membri del popolo di Dio, noi abbiamo un bisogno indispensabile di cultura ed una necessità assoluta di interrompere il nostro ritmo abituale di vita per fare delle esperienze forti che lasciano una traccia nella nostra persona, quindi nel nostro modo di vedere e nel nostro modo di giudicare, altrimenti poco per volta, non si può essere persone di fede.
Aggiungete a tutto questo guazzabuglio il peso del peccato originale e il peso dei nostri peccati e vi accorgete come tutto serve per allontanarci sempre di più da questa visione di fede. Vi accorgerete che si va sempre più lontano dalle esigenze del battesimo e della cresima.
Sacerdoti. Se poi teniamo conto che siamo insigniti di un altro carattere, quello del sacerdozio ministeriale, ci troviamo in una situazione molto impegnativa. Senza fare delle questioni, è certo che in noi c’è una partecipazione più decisiva, più profonda al sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo. A parte le difficoltà a fare delle distinzioni tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, non c’è dubbio che noi entriamo in una partecipazione più profonda del sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo. Vivere in modo cosciente tutto ciò che comporta una partecipazione al sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo, è essenziale per la nostra vita di sacerdoti, é la ragione per cui noi siamo sacerdoti.
Ma che cosa significa questo vivere cosciente la partecipazione al sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo? E’ trasferire nella nostra esistenza abituale la funzione profetica, sacerdotale, regale di nostro Signore Gesù Cristo, tanto meglio: è trasferire nella nostra esistenza la sua condizione. Egli é costituito dal Padre: Profeta, Sacerdote e Re.
Nostro Signore Gesù Cristo è posto veramente, per il mistero della risurrezione, padrone dell’universo, è posto ontologicamente non tanto tra Dio e gli uomini ma proprio come momento dell’unione più intima – direi indicibile – tra Dio e gli uomini e come elemento di coesione misteriosa, soprannaturale, degli uomini tra loro. Ora, proviamo a pensare che noi siamo partecipi di tutto questo! Si capisce che si devono fare le debite proporzioni ed è naturale che non si devono fare delle analogie tra il mistero dell’Incarnazione e la nostra unione con nostro nostro Signore Gesù Cristo e la nostra partecipazione al suo sacerdozio, tuttavia è certo che qui c’è qualche cosa di vero, di ontologico, che riguarda la nostra persona e che ci pone ad un certo livello con nostro Signore Gesù Cristo.
Ora, è possibile stare a questo livello senza quel momento che abbiamo ricordato e che comunemente chiamiamo raccoglimento? Vorrei essere capace di rendere molto concreto questo discorso.
E’ certo che noi accettiamo – mi pare pacificamente – che la nostra vita di battezzati e tanto più di sacerdoti, vale in proporzione della nostra unione con Dio per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. E’ pacifico che i nostri rapporti col prossimo debbano essere quelli di persone che realizzano veramente una unione particolare con Dio.
E’ pacifico che i nostri rapporti col prossimo debbono essere quelli di persone che debbono stare in mezzo ai loro fratelli per via di quella tal partecipazione che già c’è per il battesimo e per la cresima, ma dobbiamo ricordare che i nostri rapporti col prossimo debbono essere quelli di persone che debbono stare in mezzo ai fratelli come “alter Christus” per via della particolare partecipazione al sacerdozio di nostro Signore Gesù Cristo.
Ci vuole poco stare in mezzo agli altri come “alter Crhistus” quando si è ‘parati’ dei paramenti sacri o quando si fanno delle azioni specificatamente sacre. Diventa già più difficile quando si parla agli altri in nome di Dio, quando si dice agli altri di comportarsi in un determinato modo e si dice in nome Dio o di nostro Signore Gesù Cristo. Diventa tanto più difficile quando gli altri ci vedono, da povere creature, da persone di questo mondo, da uomini, da giovani e pur non non vedendo in noi nessun segno particolare, neppure il collare o la crocetta sul risvolto della giacca, devono cogliere qualche altra cosa. Se in noi non colgono niente, che cosa ci rimane di vero?
Prendiamo in considerazione lo svolgersi comune di una delle nostre giornate: i nostri pensieri, le nostre preoccupazioni, le nostre espressioni, le nostre sensazioni, i richiami che ci vengono da tutto quello in mezzo cui viviamo.
I monaci che vivevano negli antichi monasteri, in posizioni incantevoli, potevano benissimo distrarsi perché poi, tra la cella e il chiostro, in fondo al corridoio trovavano un crocifisso e in ogni lunetta una determinata raffigurazione, magari brutta ma alle volte anche bella, per ricomporsi nel raccoglimento. E poi avevano la vita ordinata, la liturgia, la lectio divina, la giornata scandita secondo le ore liturgiche. Se volevano servirsene erano molto aiutati.
E noi? La bicicletta, il telefono, il giornale, la radio la Tv, gli astronauti, la partita. E poi arrivano le preoccupazioni che ci vengono dall’esercizio del ministero: una persona che racconta il suo dramma o addirittura la sua tragedia o un’esperienza sconvolgente!
Come può diventare possibile la nostra vita se non seguendo la grande indicazione che ci viene da Dio?
Come può essere possibile la nostra vita senza questa pausa di raccoglimento più intenso?
Senza questa sosta di impegno di fede più profondo?
Senza questa permanenza di ascolto più attento della Parola di Dio al punto che questa diventi un’esperienza di vita spirituale, un’esperienza di Dio? Un’esperienza tale per cui il resto della nostra vita lo viviamo in forza di quest’esperienza, quasi in forza di questo ricordo che è ancora operante in noi?
Tutto l’Antico Testamento, dopo l’esodo, è sempre un ritorno all’esperienza del deserto, quel momento fortunato e straordinario. I profeti poco per volta ne mostrano gli elementi spirituali. L’alleanza é legata a quel ricordo storico. Nella storia della nostra vita ci devono essere queste esperienze. Mosè era colui che aveva visto e camminava come uno che aveva visto. Se noi non portiamo intorno a noi un’esperienza vera di vita spirituale, una vera esperienza di fede, come possiamo sostenere la nostra esistenza di preti e come la possiamo giustificare?
Come é possibile vivere gli impegni del nostro sacerdozio se non si ha un’esperienza di vita spirituale vera, autentica, profonda che sia stata il momento decisivo delle nostre decisioni e che sostenga sempre la decisione ad essere orientati in quel senso? Bisogna avere il coraggio di saperci fermare, di saperci fermare in una giornata anche più di una volta per acquistare poco per volta l’abitudine di stare “dentro”, anche materialmente. E’ così facile stare fuori! La disciplina che proviene da una certa preghiera metodica, dal tempo dedicato allo studio e alla riflessione, è una disciplina indispensabile.
Guardate che oggi più che ieri la tentazione é molto grave. Oggi gli ostacoli sono più grandi che nel passato. Oggi ci sono dei richiami molto insistenti che ci portano fuori. Se questa difficoltà non è compensata da una vita spirituale più intensa, se questa vita spirituale non é intensificata da momenti particolari di raccoglimento nella nostra giornata, é molto difficile vivere da preti.
Più o meno avete capito quello che avevo intenzione di dirvi ma cercate di capirlo molto meglio nel vostro raccoglimento, nella vostra riflessione di oggi.
OM 235 sacerdoti 69 – Mercoledì, 15 Ottobre 1969 ore 16,15
i ritiri dei sacerdoti bresciani