Bisogna affacciarsi alla finestra
Postfazione di mons. Giovanni Volta, sacerdote mantovano, vescovo emerito di Pavia
in fondo alla pagina si trovano gli articoli dell’Osservatore Romano
Il tempo come una leggera nebbia tende ad oscurare lentamente la memoria di persone e di fatti, fino a farli scomparire dall’orizzonte del pensiero e della prassi dell’uomo. Un pericolo che può correre anche un Concilio Ecumenico della Chiesa come il Vaticano II e ancor più l’esperienza e la proposta che ne ha fatto un Vescovo come monsignor Carlo Ferrari – che quest’anno compirebbe cento anni – nei suoi lunghi anni di episcopato prima a Monopoli e poi a Mantova.
Se si smarrisce la propria storia, ciò che l’ha animata, si finisce con il perdere la propria identità e col non comprendere neppure il presente. Questo può accadere nelle nostre parrocchie, nelle nostre diocesi, nella stessa Chiesa universale. E’ vero: per camminare, per vivere, dobbiamo aprirci al futuro, ma questo non cessa di avere le proprie radici nel passato. La Chiesa al centro della propria costituzione, nei suoi gesti, nelle sue parole, in particolare nella celebrazione dell’Eucaristia è costantemente memoria e annuncio del futuro.
Mi è parso che la pubblicazione del presente libro di “memoria” si inserisca in questa esigenza intima della Chiesa e anche di ogni uomo: ricordare, non per rimanere prigionieri del passato, ma per sapere guardare e camminare avanti. Alle volte nelle nostre comunità cristiane e anche nelle diocesi si ha l’impressione che nella successione del tempo ciascun nuovo lavoratore tenda a presumere di ricominciare come se lavorasse in un campo senza storia, senza continuità, senza precedenti orientamenti pastorali.
Chi ha progettato e composto questo libro l’ha voluto impostare come una polifonia nella quale si accompagnano e si confrontano più voci: quella del Concilio Ecumenico Vaticano II che faticosamente ha cercato una propria strada, quella variamente intonata dei suoi protagonisti, quella dei suoi osservatori e commentatori, e infine quella di monsignor Carlo Ferrari sia in qualità di “proponente”, sia come “osservatore” ed “evangelizzatore” delle parole e dello spirito del Vaticano II. Ai margini si è posto l’autore della “raccolta”, che ha voluto completare le informazioni trovate negli scritti di monsignor Ferrari con nomi, notizie, documentazioni, naturalmente rivelando implicitamente i propri gusti e le proprie scelte, analogamente a quanto in certi quadri classici facevano gli autori che raffiguravano se stessi in qualche personaggio.
Ne è nata un’opera storica composta da molti sguardi sul Vaticano II – vedi per esempio le frequenti citazioni di studiosi e testimoni del Concilio, tra cui Y. Congar, Chenu, Latourelle, Edelby – e da molte voci che si sono levate da parte dei suoi protagonisti: tra queste la voce di monsignor Ferrari, che era intervenuto durante i lavori conciliari e che insieme con diligenza aveva annotato i discorsi altrui, non solo dandone il resoconto, ma anche commentandoli con espressioni ora elogiative, ora ironiche, quali: si ripete, divaga, s’appassiona, insiste. Egli giunge ad annotare anche le proprie reazioni emotive, che traspaiono con toni alterni nella sua esperienza conciliare, ora entusiasta, ora prudentemente critica.
Il Concilio non fu fatto però solo di interventi, di confronti, di discussioni, ma anche di incontri con persone di cultura e di esperienze diverse. E monsignor Ferrari nel suo diario conciliare annota con frequenza questo avvicendarsi che lo stupisce e lo rallegra. Perfino le condizioni meteorologiche e l’umore delle persone egli ha segnato nel suo scritto: notava negli altri ciò che egli pure provava dentro di sé.
In questo quadro variegato prende risalto il particolare atteggiamento di monsignor Ferrari .
Diversi padri conciliari avevano pensato ad un Concilio rapido; s’aspettavano alcuni indirizzi pratici e qualche condanna per mettere in chiaro la dottrina cattolica; avevano nostalgia del lavoro pastorale nelle loro diocesi e non erano ben disposti a lunghe sedute con numerosi dibattiti.
Ricordo un santo vescovo che a quel tempo mi disse: il Papa doveva preparare lui i vari testi e poi noi in breve tempo li avremmo approvati, permettendoci di tornare presto nelle nostre sedi. Si trattava di una esperienza inedita della loro vita.
Il vescovo Carlo invece andò al Concilio fin dall’inizio con grande entusiasmo. Lo si rileva sia dalle molte sue proposte formulate in risposta alle domande che gli erano pervenute nella preparazione dei lavori conciliari, sia dalle parole che rivolse ai cristiani di Monopoli quando partì per Roma.
Anch’egli però, come del resto molti altri Padri conciliari, ebbe una “conversione” – come egli stesso ebbe a dire – ma solo chi gli fu vicino prima e dopo il Concilio è in grado di testimoniare quale fu l’entità del cambiamento provocato nella sua vita da quell’evento.
Per la verità egli era già predisposto alla sottolineatura di alcune esigenze della vita cristiana, come la cura dell’essenzialità, la centralità del mistero di Cristo nella vita della Chiesa, la sobrietà nei riti e nelle manifestazioni cristiane, la primaria attenzione alla sacra Scrittura. La sua prolungata esperienza nel Seminario di Tortona quale direttore spirituale dei seminaristi, le buone letture che aveva sempre coltivato, la passione religiosa per ciò che sta al cuore della vita cristiana e anche il suo stesso temperamento lo spingevano ad evitare il ripetitivo, ad avere attenzione e rispetto per le persone, ad avere fiducia in loro, e preoccuparsi meno degli aspetti giuridici e organizzativi, per i quali non mostrò mai una particolare inclinazione.
Sul piano religioso il suo costante riferimento, che esaltava queste sue predisposizioni, non erano le pratiche di pietà o i discorsi degli uomini, ma il rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Ciò spiega una affermazione che si andò accentuando negli ultimi anni della sua vita: quella del primato della mistica sull’ascetica, vale a dire della comunione con Dio rispetto all’attività dell’uomo impegnato a incontrarlo. Per questo da qualcuno era accusato di disimpegno; egli invece era fermo nella certezza che quest’ordine scaturisce dalla struttura stessa della fede cristiana, tanto da venir definito tra il serio e il faceto: padre Carlo della santissima Trinità.
Si comprende, di conseguenza, come trovò in lui un terreno ben disposto la presentazione della Chiesa quale comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con gli uomini (cf. Lumen Gentium), della rivelazione quale chiamata di Dio in Cristo per la comunione trinitaria (cf. Dei Verbum), e della Liturgia quale riproposizione storica dei gesti salvifici nei quali è Dio il protagonista (cf. Sacrosanctum Concilium).
Il Vaticano II non fu però semplicemente lo sbocco di una visione più matura della Chiesa, ma fu esso stesso un lungo e faticoso cammino. Un cammino del complesso dei suoi protagonisti, così che, nei primi tempi ascoltando le loro voci, pareva a noi fuori dell’aula sinodale di sentire, più che l’esecuzione di una sinfonia, il suono di una orchestra che provava i propri strumenti musicali; ma alla fine quelle voci trovarono una fondamentale armonia.
E anche per monsignor Ferrari l’esperienza del Concilio risultò un cammino. Basta leggere le sue proposte formulate in vista del Concilio e le sue osservazioni finali per renderci conto di ciò che l’esperienza del Concilio ha provocato nel suo animo, nel suo modo di vedere la Chiesa e il mistero cristiano.
Radicata in questo cammino, in questa esperienza va vista la sua pastorale dopo il Concilio a Monopoli e pochi anni dopo a Mantova. Un radicamento che non era semplicemente un tener conto, un tener presente un insegnamento, ma anzitutto un atteggiamento di vita. Mentre si presentava un po’ distaccato dagli aspetti organizzativi, altrettanto era intenso in questi fondamentali convincimenti.
Ricordo la prima settimana pastorale che volle celebrare a Mantova poco tempo dopo il suo ingresso nella nostra Diocesi. Allora gli invitati erano soltanto i sacerdoti e il tema che scelse fu quello del sacerdozio ministeriale. Voleva partire dai preti per approfondire insieme a loro la figura del presbitero presentata dal Concilio, la sua visione all’interno della Chiesa, a servizio di essa. Chiamò per questo a parlare un appassionato del Concilio, il cardinal Pellegrino, arcivescovo di Torino. Volle però che intervenissero anche dei giovani (allora) preti della nostra Diocesi (don Antonio Bonora, don Pompeo Piva e il sottoscritto), i quali, per prepararsi al Convegno diocesano, parteciparono durante l’estate con il Vescovo, da abusivi non invitati, al congresso promosso dai Vescovi d’Europa a Coira, in Svizzera, sul tema del sacerdozio. Avemmo modo in quell’occasione di informarci e confrontarci con le opinioni che circolavano in Europa sul sacerdozio ministeriale, frequentando sia gli incontri dei vescovi, sia quelli dei contestatori. Il Concilio ci aveva stimolati a guardar fuori della finestra per capire meglio ciò che stava in casa e monsignor Ferrari ci incoraggiò in questa impresa.
Cosciente poi che nella Chiesa i sacerdoti rappresentano i primi trasmettitori e organizzatori della vita ecclesiale, egli si prese cura particolarmente dei preti giovani, della loro formazione culturale sui grandi temi del Concilio. Per questo promosse ogni anno lunghi soggiorni con loro in montagna: non si accontentava di una rapida visita di saluto, di una benedizione, ma condivideva con i preti tutto quel tempo, tanto che qualche sacerdote anziano si lamentò che il vescovo avesse una cura eccessiva per i giovani. Ma Ferrari guardava al futuro e riteneva per questo fondamentale la formazione dei sacerdoti che iniziavano il loro lavoro pastorale.
Un altro tema che ben presto il Vescovo, reduce dal Concilio, coltivò nella sua azione pastorale – quando nella Chiesa italiana l’argomento ancora sonnecchiava – fu quello della famiglia. Per essa, lui che allora scriveva poco, scrisse una lettera pastorale e sulla famiglia dedicò una delle annuali settimane pastorali, e istituì come obbligatori i Corsi per i fidanzati in vista del matrimonio.
Per la verità il Concilio aveva insistito particolarmente sul matrimonio. Sarà poi Giovanni Paolo II che con il documento “Familiaris Consortio” completerà il discorso ecclesiale su questo sacramento.
Il Vaticano II aveva poi insistito sulla “communio” come qualità fondamentale della Chiesa: monsignor Ferrari volle per questo istituire il Consiglio pastorale diocesano, preparandolo attraverso molti incontri. Ancora una volta non era preoccupato semplicemente di fare, di istituire, ma di capire, di diventare. Questo tempo di preparazione fu perciò lungo, meditato.
Nel suo pensiero, nella sua predicazione un testo conciliare rimase particolarmente impresso: la Dei Verbum, per la dimensione trinitaria con cui vi viene presentata la rivelazione, per la modalità concreta con cui vi è descritta e per la dimensione storica e personalistica nella quale vi è configurata.
Al riguardo ricordo un episodio semplice, che mi manifestò lo spirito e le scelte del Vescovo di recente giunto in Diocesi. Al Collegio Redentore egli era stato invitato a partecipare al consiglio diocesano dell’Azione Cattolica: riunioni che facilmente risultavano un po’ noiose per i lunghi elenchi delle attività svolte e per la descrizione dei progetti da realizzare. Il Vescovo, poco incline alle lunghe riunioni organizzative, a un certo momento, con sorpresa dei presenti si assentò perché voleva scendere in salone ad ascoltare un sacerdote che parlava della Dei Verbum.
Monsignor Ferrari rimase sempre un entusiasta del Concilio Vaticano II, che fu costantemente ispiratore del suo magistero e delle sue iniziative. Non tutti però capirono che questo era il criterio che dettava l’ordine delle sue priorità e che egli non era un organizzatore. L’ispirazione del cuore, del suo cuore cristiano, più che le esigenze della programmazione, determinavano le sue parole, le sue scelte. Lasciava che fossero gli altri ad organizzare. Così chi lo conosceva da vicino vedeva e stimava questa sua passione. Chi invece guardava alla organizzazione delle attività e alla sua persona più da lontano lo giudicava poco attivo – e al riguardo vi furono polemiche anche sui giornali – ma egli rimase fedele al suo stile. Una fedeltà che si espresse anche nel grande rispetto delle persone maturato nell’esperienza conciliare, per cui anche quando si trovò a dissentire dalle scelte di preti e di laici, non per questo ruppe con essi i suoi rapporti.
Per un certo verso egli rimase anche da Vescovo un padre spirituale nel senso forte del termine: più vescovo del “magistero”, dell’annuncio, che del “governo”; più guida spirituale che “governatore” della diocesi.
Quando fui ordinato Vescovo (era ormai vicino alla rinuncia), una preoccupazione si portò nell’animo: quella di dire alla gente e ai vescovi che il compito primario di un vescovo è quello di annunciare il Vangelo. Il Concilio aveva sottolineato molto questo ruolo episcopale, contro la tendenza a frammentarlo in mille occupazioni diverse che avrebbero potuto oscurare la specificità del suo compito.
E per questo rinunciò ad essere lui ad ordinare alcuni sacerdoti mantovani la domenica precedente, per essere pienamente efficiente la domenica seguente, festa della Santissima Trinità, per poter sottolineare di fronte ai laici e ai sacerdoti e agli stessi vescovi, in occasione dell’ordinazione di uno di loro, che il compito primo di un Vescovo non è presiedere le inaugurazioni o dar lustro alle feste, ma l’annuncio della Salvezza. Il Vaticano II nella Costituzione sulla Chiesa afferma che questo compito “eminet” nel ministero dei vescovi.
Egli, che stava lasciando la cura pastorale della Diocesi di Mantova, in quell’omelia voleva tratteggiare l’insegnamento del Concilio riguardo ai vescovi e nello stesso tempo ribadire ciò che si era prefisso nel suo episcopato.
Una sottolineatura che egli ripeterà predicando un Corso di Esercizi spirituali ai vescovi lombardi: concentrate il vostro impegno nell’annuncio del Vangelo, però non come professori, ma come padri.
C’è una spiegazione del Concilio Ecumenico Vaticano II che avviene attraverso la lettura diligente dei testi, e ce n’è un’altra che si compie attraverso i comportamenti, nello stile di vita che si assume. Per questo – insieme alle parole di monsignor Carlo Ferrari e al suo diario – va tenuta presente anche la sua vita che mostra, e non solo dice, un tentativo di presentare l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II per meglio comprenderlo e viverlo.
Questa la sua eredità.
+ Giovanni Volta