Celebrazione del centenario della nascita del vescovo Carlo Ferrari e la intitolazione a lui del rinnovato centro diocesano pastorale
In una ricorrenza come questa che ci è dato di celebrare, il primo “rendimento di grazie” va al Padre “che è nei cieli”, ma che pure, nella realtà del mistero, si fa presente in noi e tra noi, con una risonanza in questo caso abbastanza particolare: la figura del Padre, infatti, è stata per il vescovo Carlo la stella polare del suo credere e del suo testimoniare, un riferimento centrale e performante, il più facilmente riconoscibile in tutta la sua vita: dagli anni del Seminario dove ci fu padre spirituale, a quelli che lo videro padre, vescovo come padre delle due comunità diocesane di Monopoli e di Mantova, agli anni per lui del tutto straordinari, incomparabili, che lo videro trai Padri del Concilio. E chi lo ha conosciuto un po’ da vicino, sa come tale paternità si riflettesse nella sua persona e nei suoi rapporti personali, con una semplice immediatezza che dava e otteneva fiducia.
Un grazie particolare, da parte mia e penso anche da parte vostra, al Vescovo che ha voluto una degna e significativa celebrazione del centenario con questa giornata sacerdotale, con le due pubblicazioni che conoscete e con la intitolazione al vescovo Carlo del rinnovato Centro diocesano di pastorale. A quasi 18 anni dalla sua morte, tutto questo ha il senso di un riconoscimento che diamo alla rilevanza del suo episcopato nella vita e nella storia recente di questa nostra Chiesa. In diverse occasioni, specialmente attraverso il settimanale diocesano, ho avuto modo di dire quali sono state – a mio avviso -le convinzioni portanti della sua spiritualità, della sua predicazione e delle scelte pastorali che quelle convinzioni hanno inteso concretizzare.
Molte altre testimonianze, raccolte nel volume che vi è stato offerto, ne danno una lettura più varia e partecipata. Qui oggi mi limito a segnalare un aspetto poco considerato, che pure è caratteristico della personalità e della comunicazione del vescovo Carlo, e ci viene suggerito dalle due letture della feria: la sua sintonia, la sua consonanza con la dimensione paradossale della fede. Dopo la morte di Stefano, dice il brano degli Atti, una violenta persecuzione infuria contro la Chiesa di Gerusalemme e disperde i discepoli nelle altre regioni. “Quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio”. Filippo in particolare predica con grande successo in Samaria, tanto che “vi fu grande gioia in quella città”. Paradossalmente, è lo Spirito che, attraverso la persecuzione, spinge la Chiesa al largo e la apre alla sua missione universale.
‘ il paradosso della Pasqua che si va attuando: la vita, e la gioia che è dono dello Spirito, vengono dalla sofferenza e dalla morte. Nel vangelo di Giovanni, espliciti o impliciti, i paradossi si accavallano: la Parola non è più soltanto Parola, poiché si è fatta Carne, ha preso forma e realtà umana in Gesù; con lui “si è attendata” nella storia e anzi ha dato origine a un nuovo e definitivo corso di storia. Il pane non è più solo pane, poiché nella cena con i discepoli, Gesù si identifica con il pane spezzato, e questo diventa il segno più forte della sua donazione “pro mundi vita”. “lo sono il pane della vita” dice il Signore, e pertanto la fede non è credere in qualche verità o semplicemente aderire a una visione del mondo e delle cose; è venire a Lui, è incontrarsi di persona con Lui, è riconoscere in Lui il Figlio nella sua relazione con il Padre, nella sua obbedienza e nella sua missione. E, ancora, la morte non è più quella di prima, è il suo completo rovesciamento, poiché chi davvero si è incontrato con Gesù possiede fin d’ora la vita eterna e dunque anche nella morte, e dopo la morte, vivrà.
Il vescovo Carlo – pur con i limiti e se si vuole, le opacità presenti in ogni creatura umana anche la più santa – non ha eluso i paradossi della fede, non li ha edulcorati, non li ha nascosti nelle pieghe del discorso. Anzi li ha posti al centro della sua meditazione e della sua testimonianza. Qui bastino alcuni riferimenti. Ha gioito intimamente – ci dice il suo diario – quando il Concilio, con un rovesciamento allora sorprendente per molti (Congar lo ha definito “copernicano”) rispetto a una persuasione inveterata, ha dichiarato che la gerarchia è dentro (e non sopra) il popolo di Dio ed è a servizio della coesione e della crescita di questo popolo. Ritornato in diocesi, ha fatto proprie con nuova forza di convinzione le parole di Paolo: “quando sono debole è allora che sono forte”. Le ha ribadite e praticate, pur sapendo che non da tutti sarebbe stato compreso. Ha quindi lasciato cadere per quanto gli è stato possibile – i segni esteriori dell’ autorità che è servizio,così come, senza aspettare il Concilio, si era tenuto lontano da certa supponenza che, quando c’è, altera e immeschinisce l’esercizio dell’autorità grande o piccola che sia – Nella vita pubblica si è attenuto a una presenza discreta e rispettosa degli ambiti di competenza delle comunità, civile e politica.
Per la comunità cristiana si è proposto di ridare ai laici quello che è dei laici, ma che, nel variare dei tempi e degli eventi, era stato riassorbito dai chierici e dalla Chiesa istituzione. Ha saputo riconoscere le vocazioni laicali, che poi significa chiamare i laici non solo ad ascoltare e a ubbidire, ma anche a valutare e ad agire rischiando in proprio, come singoli e come gruppi, nelle materie di loro pertinenza: quelle di cui tratta la seconda parte della Gaudium et spes: famiglia, lavoro, economia, politica, cultura. – Ha preso le distanze da certo attivismo e presentismo, più frequente in quegli anni ’70e ’80 che non in questi del nuovo millennio. Attivismo che gli appariva sbilanciato sulle cose da fare piuttosto che interessato alle cose da capire e da riorientare, di fatto un paravento a forme di clericalismo che si volevano giustificate dalle buone intenzioni. – Ha messo in guardia perfìno da certo “esercizio ascetico dell’impegno pastorale”, se improntato a una sopravvalutazione dei mezzi umani, in quanto di ostacolo più che di facilitazione all’ opera della Grazia. –
Sapeva di poter essere frainteso parlando di primato della mistica rispetto all’ ascetica, come di fatto avvenne, ma non per tutti. In ogni caso, egli non avrebbe mai rinunciato a proporre la sua visione del mistero cristiano solo perché diversa da altre più accreditate o più facilmente accessibili. Non per caso fu presto ribattezzato da qualche bello spirito: “P. Carlo della SS. Trinità, vescovo del disimpegno”: appellativo che peraltro non gli dispiaceva, purché ben inteso. Infatti anche qui è nascosto (non più di tanto) un duplice paradosso cristiano: quello del “già” (p. Carlo) che non rimanda semplicemente al “non ancora” della SS. Trinità, ma anzi vede il “non ancora” del Regno misticamente presente e operante nel “già” dei percorsi umani che, pur incerti e tortuosi, al Regno di Dio guardano e si tendono. E l’altro paradosso del disimpegno che è impegno: non solo impegno orante, contemplativo e di “ruminazione” della Parola di Dio, ma concentrazione di tutte le forze e le risorse sulle poche ma importanti, qualificanti scelte pastorali proposte alla diocesi: da quella del riannuncio del Vangelo agli adulti e in particolare alle famiglie (la più impegnativa delle scelte, ieri e oggi immaginabili), alla proposta di una “catechesi esperienziale” dove non si gioca con le parole ma ci si mette in gioco personalmente, o ancora alla scelta più chiaramente biblica di “andare al largo” partendo dalla forza “contagiosa” di un “resto fedele”, cioè da piccoli gruppi dove la fede e la fedeltà alle promesse facciano tutt’uno con la vita quotidiana.
Per concludere questo veloce riepilogo: a me sembra che anche un ricupero a tutto campo del profilo paradossale della fede completi e interpreti altri discorsi già fatti nei mesi scorsi intorno alla figura del vescovo Carlo. Discorsi da non ridurre a un semplice “amarcord” di un diverso passato, poiché descrivono una testimonianza d’interesse vitale e tanto svincolata dal tempo quanto radicata nella Parola di Dio che non passa e chiede di farsi storia di salvezza: per un popolo di persone. In ogni caso, è ovvio che l’ episcopato del vescovo Carlo non possa essere valutato a prescindere dall’ orma del paradosso evangelico a cui egli ha voluto improntarlo. Sarebbe, altrimenti, come pretendere di valutare un testo senza conoscere la lingua in cui è scritto. Per Carlo Ferrari il paradosso non è stato un vezzo (ci sono i funamboli del paradosso fine a se stesso ma ci sono anche i teologi del paradosso cristiano: a cominciare da un teologo del calibro e del rigore di De Lubac); era l’alfabeto di Dio divenuto leggibile in Gesù di Nazareth, che egli ha cercato di tradurre nello stile del suo ministero.
E noi, preti o laici che siamo, chiamati a riconoscere l’ alfabeto di Dio nel guazzabuglio delle vicende umane (non altro sono i “segni dei tempi” da interpretare), dovremmo anche più facilmente saperlo riconoscere, questo alfabeto, in un tratto abbastanza marcato della nostra recente storia di Chiesa diocesana. Penso in particolare che l’orma del Concilio, così netta e profonda, dal vescovo Carlo impressa nella vicenda di questa Chiesa, sia un bene prezioso da non disperdere e trascurare, un seme che “non sbaglia” e che anche nel terreno impervio dei nostri giorni può dare nuovi frutti di verità cristiana e di vitalità ecclesiale. Parola, questo anzi più Naturalmente, che questo avvenga di fatto dipende da fattori che tutti ben conosciamo: anche il seme della Parola, questo anzi più di altri, ha bisogno di fiducia senza riserve, di radicamento sicuro, di attesa paziente, di attenzioni e di cure, nonché di molta, molta invocazione dei doni dall’ Alto. Peraltro, considero un privilegio e una grazia anche solo l’ aver visto, alla scuola e nella famigliarità del vescovo Carlo, come germogliano intorno a noi per dirlo con S. Agostino – i “semi del Verbo”, e aprono a sviluppi sorprendenti che vanno aldilà delle pur legittime, o doverose, previsioni e programmazioni umane.
Don Benito Regis
La Cittadella, 21 aprile 2010