La parola del Vescovo a proposito del Clergyman
Carissimi,
stendo alcune note di commento alla notifica dell’Eminentissimo Presidente della Conferenza Episcopale Italiana circa l’uso della talare e del clergyman, che già vi avevo presentato a voce in occasione del ritiro mensile
Le disposizioni sono chiare e dettagliate e sono sicuro che voi le osserverete fedelmente. E’ importante che alla fedeltà alle disposizioni della notifica si accompagni una comprensione del documento che ne faccia risaltare non tanto la novità quanto il significato.
Gesù Cristo non ha stabilito abbigliamenti particolari per coloro cui ha affidato di continuare fra gli uomini i suoi undici di Profeta, Sacerdote e Re. La Chiesa nelle varie situazioni storiche e sociali ha accolto ciò che nel costume di ogni tempo si è manifestato di positivo e di adatto per esprimere nel modo più idoneo la condizione.
l dei suoi Ministri e si è sempre tenuta su una linea di equilibrio perché anche nel modo di vestire fosse evidente che essi « sono nel mondo, ma non sono del mondo » (cfr Gio. 17, 11-16). E’ nella natura delle cose che l’uno o l’altro dei due aspetti, a seconda delle circostanze, sia stato più rimarcato.
I nostri tempi, con la loro esigenza di autenticità di valori e di espressioni concrete ed efficienti, reclamano che nel costume del Prete sia evidente che egli non è un uomo astratto dal mondo in cui vive e che nello stesso tempo è lealmente ciò che dice di essere.
Indossare un abito simile a quello dei nostri contemporanei non è assolutamente una concessione alla mondanità, comporta invece un formidabile impegno che bene può riferirsi al « Doveva quindi in tutto assomigliarsi ai suoi fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele in ciò che spetta a Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo » (Ebr. 2, 17); « poiché il nostro sommo sacerdote non è incapace di compatire alle nostre debolezze, ma le ha i provate tutte a somiglianza nostra, escluso il peccato » (id. 4,15).
D’altra parte l’obbligo che ci viene fatto di indossare la talare per le funzioni più strettamente inerenti al nostro ministero viene a rimarcare il carattere sacro ed ecclesiale di queste.
Qui si tratta di mettere in evidenza e di garantire sia la dimensione verticale che quella orizzontale del nostro sacerdozio e di esprimere sia il senso della incarnazione che quello della trascendenza della Fede che noi predichiamo.
Questo però non coincide con i due tempi in cui indossiamo la talare o il clergyman; si deve attuare nell’unità della nostra persona e nell’autenticità sincera di tutto il nostro essere e del nostro comportamento. La somiglianza coi nostri fratelli non può ridursi alla giacca e ai pantaloni: è un calare la nostra esistenza, come si ama dire oggi, nella concretezza del mondo, un partecipare, non soltanto affettivo, sentimentale e facilmente retorico, ma per quanto possibile sinceramente effettivo, alle loro situazioni economiche, ambientali, sociali, culturali con le relative conseguenze di sofferenze fisiche e morali, di difficoltà molte volte schiaccianti, di ingiustizie di ogni genere, di sfiducia e di scetticismo. Si tratta di difendersi dall’aridità e di possedere ed esprimere una sensibilità più umana di quella degli altri perché divinizzata da una grazia più grande.
La nostra talare, che doveva costituire un segno di « morte a se stesso » e di « separazione dal mondo », aveva finito per indicare l’ appartenenza a un ceto sociale cui conveniva l’appellativo di « Don », ancora correntemente usato per indicare una persona socialmente elevata, economicamente al sicuro e in vario modo privilegiata. Il clergyman dovrebbe aiutare a liberarci in modo più evidente da queste attribuzioni borghesi, generalmente in fondate quanto alle singole persone, ma fortemente ancorate a una mentalità che nelle generazioni attuali non accenna a cambiare.
Capite quindi che indossare un abito che portano tutti ci impegna a
dimostrare nella verità della nostra condotta che siamo come tutti gli altri, a disposizione di tutti e specialmente degli umili che il Vangelo preferisce; così come ci impegna a testimoniare più autenticamente il Vangelo che predichiamo con una esistenza personale umilmente protesa a essere ciò che agli altri proponiamo di credere.
Il Regno dei Cieli deve apparire più di prima come movente decisivo per tutti gli aspetti della nostra vita con i quali noi professiamo di non appartenere al mondo. Quando esiste un segno esterno della dimensione trascendente o escatologica, ci si può illudere che gli altri ci debbano credere anche se dietro al segno ci sono delle deficienze; mentre invece se stiamo davanti agli altri allo scoperto, la nostra realtà sacrale ha come « sacramento » la sola nostra persona. E di conseguenza o dobbiamo ammettere che il mondo ci possiede e siamo « mondani » o dobbiamo impegnarci a qualunque costo ad essere di Cristo.
I motivi dunque che sostengono le scelte della nostra vita sono quelli che si riferiscono al Regno dei Cieli e questi diventeranno convincenti quando sia evidente che noi non facciamo dipendere la nostra sicurezza, il nostro impegno, la nostra gioia da ciò in cui il mondo ripone la sua fiducia. Il nostro distacco dall’ interesse economico, la sincerità della nostra libertà dai sensi e dal cuore, con la conseguente capacità di « farci tutto a tutti » è il vero segno a cui gli altri non possono non dare credito.
E’ chiaro che col cadere di certe difese esterne della nostra vita spirituale di Sacerdoti ci dobbiamo affidare con più fiducia e fedeltà ai mezzi che sostentano sicuramente la nostra vita: la Parola, la Grazia, la Carità. Sono tutti doni di Dio che passano quotidianamente per le nostre mani e dei quali siamo ministri per la edificazione della Chiesa; sarebbe assurdo che noi non « ci edificassimo » per primi per essere autenticamente maestri, santificatori e fraternamente padri.
Maria, Madre nostra, sia con noi.
CARLO FERRARI Vescovo
ST 172 clergyman 66- La parola del Vescovo
Stampa: Bollettino Diocesano Maggio 1966