Tra le priorità che più gli stavano a cuore c’era la formazione dei laici: “per educare a una fede adulta bisogna conferire delle responsabilità da adulti, dare ai laici la possibilità di prendere delle decisioni e delle iniziative da adulti”
Fare memoria di un Vescovo a sei anni dalla sua scomparsa, è, ad un tempo, bello e difficile, ma per me è doveroso ed edificante. Vorrei alzare il velo su qualche aspetto della personalità e della spiritualità di Carlo Ferrari.
Privilegiando la penetrazione di quest’anima di fanciullo, ricca di passione radicale per il mistero della inabitazione della Trinità nella vita del cristiano, cercherò di tratteggiare la figura accennando ad alcuni elementi che la caratterizzano: I’amicizia schietta “vedete che non mi preoccupo di insistere sull’obbedienza al Vescovo, se vi volete bene tra di voi, l’obbedienza al Vescovo è garantita”.
Lo ricordo piuttosto riservato, sobrio ma assai efficace nel parlare, forte e tenace nel proporre alcuni temi conciliari come la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e la formazione dei laici: “per educare ad una fede adulta, bisogna conferire delle responsabilità da adulti, bisogna dare ai laici le possibilità di prendere delle decisioni e delle iniziative da adulti”. La simpatia che spontaneamente suscitava era il riflesso della sua intima vita interiore e della sua profonda sensibilità umana.
La sua era una personalità schietta, libera da involuzioni,sostenuta da una tempra volitiva. Ha puntato molto sulla reciprocità: dava ciò che aveva e diceva ciò che pensava, ma ascoltava e sperava qualcosa dagli altri. Aveva una fede incrollabile unita a una grande speranza, virtù che venivano percepite da chiunque l’avvicinava. Soprattutto i preti giovani che I’avvicinavano trovavano in lui un cuore di padre che con dolcezza e fortezza portava a Dio. Mons. Carlo manifestava immediatamente la misura delle sue qualità spirituali: la tensione verso ideali di bontà e di santità, la comprensione del cuore, la volontà di unire in modo indissolubile valori umani e religiosi; un senso di stupore proprio delle anime trasparenti davanti alla bellezza del mondo.
Valori umani e virtù soprannaturali, fortezza e dolcezza, bontà e coraggio formavano in lui una sinfonia meravigliosa: di qui il fascino che esercitava e il rispetto profondo che riscuoteva, anche da parte di quelli che non condividevano il suo pensiero: “state tranquilli che sto attento e ascolto con rispetto, con interesse, ascolto le cose importanti e quelle che possono sembrare meno importanti ma che, se si dicono, è perché interessano, se una cosa interessa a una persona è sempre una cosa importante.. .” E’ una di quelle personalità che quanto più si immergono nei mistero di Cristo, tanto più appaiono vicini a noi, fratelli più che maestri, amici prima che dottori. Ha esercitato il suo mistero con il passo misurato e sicuro del contemplativo, dell’uomo per il quale il primato dello spirituale era un ‘esigenza imperiosa di uno spirito innamorato della vita interiore, della vita nello Spinto Santo.
Siamo di fronte a una bontà segnata dalla presenza del Signore e da una profonda, ininterrotta comunione con Dio. Quella del vescovo Ferrari è una spiritualità che può ben essere paragonata ad un prisma dalle molte facce, ma con un unico centro: Cristo rivelatore del Padre e datore dello Spirito Santo, anima della Chiesa. Tutto il suo mistero può essere ricostruito in modo concentrico: attorno ad un punto nevralgico possiamo disporre con estrema facilità e con ricchezza di risonanze tutti gli altri momenti della sua vita e della sua attività apostolica. Si tratta di una esperienza forte di tipo sapienziale. Quanto mai significative sono al riguardo le parole di Gesù: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (Gv. 10, 1415). Questa mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio indica la vita intima di Dio, è l’ineffabile comunione d’amore eterno e immenso che costituisce il mistero di Dio.
E’ la vita eterna che per grazia diventa la novità inaudita e sorprendente offerta all’ esperienza dell’uomo chiamato a parteciparvi e condividere la comunione d’ amore propria di Dio, a divenire figlio adottivo di Dio nello Spirito. Si tratta di una comunione che si nutre di dialogo incessante: la conoscenza si fa preghiera adorante e silenziosa. E la preghiera irrompe e dilaga nella vita e l’arricchisce del senso di Dio, ossia della percezione nitida e certa che Dio accompagna in ogni istante, illumina i pensieri e i giudizi, guida le decisioni e le scelte, sostiene le azioni, orienta l’uomo di fede a cercare, discernere, amare e fare sempre e solo la volontà di Dio. In una parola è questo il senso soprannaturale che fa da unità alla spiritualità e al mistero del Vescovo Carlo. Ad ogni questione grave amava dire: preghiamo Dio per vedere cosa c’è da fare! In tale abitudine mentale di fondere continuamente le decisioni e I’azione con la preghiera, in un contatto più alto, più puro, più onesto di quello che non sia, d’ordinario alle cose umane riviveva la lunghissima pratica di stimato direttore spirituale, cresciuto in quella saggia scuola di spiritualità “orionina” in cui tutto è ricondotto a servire “il Figlio dell ‘uomo nell ‘uomo”.
Pregava e governava pregando.
Solo tenendo conto della sua vita spirituale, rivolta ai sacerdoti mantovani il 14 dicembre del 1967: “Mi sono fatto questa norma: preferisco sbagliare nel dare fiducia piuttosto che pentirmi per non averla data. Per me è un principio che corrisponde a me stesso, e, mi pare, soprattutto al Vangelo. So che è rischioso e può preparare a delusioni. Ma accendere una scintilla di fiducia in una persona e alimentarla è il più grande aiuto che le si può dare”.
Mons. Egidio Faglioni
“La Cittadella”, Settimanale cattolico della Diocesi di Mantova, 29 Novembre 1989