MONSIGNOR Carlo Ferrari – vescovo di Mantova dal Dicembre 1967 al giugno 1986 – è deceduto ieri mattina verso le nove all’ospedale Borgo Trento di Verona dopo venticinque giorni di coma irreversibile.
Il vescovo era stato ricoverato nel reparto rianimazione il 6 novembre scorso, due giorni dopo aver celebrato il quarantesimo anno di episcopato. Il vescovo Egidio Caporello era rimasto in contatto con il primario e i medici dell’ospedale fino a tarda ora del giorno precedente.
I primi a giungere dopo la notizia del decesso sono stati suor Luisa, e poi il vicario generale, monsignor Ettore Scarduelli; il rettore del seminario don Paolo Gibelli, il ragioniere della curia Francesco Portioli e il segretario personale di Ferrari, don Regis, che è stato vicino al vescovo fin dall’inizio del suo episcopato, a Monopoli nel 1952
Addio Mons. Carlo Ferrari Vescovo dello Spirito
Lo videro camminare sotto i portici eretto, con il passo appena un po’ solenne di chi è abituato a convivere con le ragioni più profonde della vita. Era una tarda mattinata di dicembre, Mantova gli si stava offrendo con la faccia meno attraente del suo clima. Da poche ore aveva fatto il suo ingresso ufficiale in città e stava raggiungendo l’episcopio dopo aver presenziato alla mostra del litro cattolico ospitata al palazzo della Ragione. Era “in nigris” cioè vestito da semplice prete, ma portava le calze rosse.
E fu proprio questa la spia che lo rivelò ai passanti.
«È il vescovo» dicevano e restavano sorpresi. Qualcuno accennava a un saluto, a una riverenza, lui ricambiava con un leggero sorriso. Ecco, monsignor Carlo Ferrari cominciò così il suo episcopato a Mantova, la città dei Gonzaga, dei Martiri di Belfiore ma anche di Sant’Anselmo e di San Pio X, addirittura un suo lontano predecessore, con il nome di Giuseppe Sarto.
Prendeva il posto di Antonio Poma che aveva lasciato un’eredità difficile e un’impronta esclusiva.
Arrivò dal profondo sud, da Monopoli, una piccola diocesi della Puglia. Ma era nato a Fresonara, in provincia di Alessandria e diocesi di Tortona. Un piemontese quindi, cresciuto a quella religiosità rocciosa che aveva saputo esprimere tra i tanti don Bosco e don Orione. E di don Orione monsignor Ferrari aveva avvertito e profondamente aspirato il soffio dello spirito.
Non aveva potuto evitare l’ingresso solenne, ne la residenza ufficiale in piazza Sordello. Questo gli fece dispiacere.
l mantovani lo videro per la prima volta dall’alto della scalinata di Sant’Andrea mentre li benediceva e li salutava. Un’espressione severa, tutta tesa a puntellare con i muscoli del viso la commozione che certamente avvertiva. Era come se in quegli istanti sentisse su di se il peso di tutti i secoli di storia della sua nuova diocesi, che non era più a misura d’uomo come Monopoli. Quel dover rinunciare alla misura d’uomo forse gli avrebbe impedito il contatto diretto sacerdote per sacerdote, seminarista per seminarista e—quasi—fedele per fedele. Questo, lo preoccupava.
Sant’ Andrea era gremita di fedeli, di autorità e forse anche di curiosi perché l’esordio di un vescovo suscita sempre curiosità. Quando si appressò al microfono per parlare, ci fu un lungo momento di silenzio, poi cominciò:
«Ci sono dei momenti nella vita…».
Ci sono delle parole obbligate per un vescovo, dei pensieri che non possono essere elusi perché costituiscono l’essenza stessa del suo ministero. Di più: della sua vita. Alto, diritto, il gestire misurato, Carlo Ferrai sembrava raccogliere attorno a se tutti gli echi degli altri che l’avevano preceduto: Poma, Menna, Origo, Sarto, Berengo, Rota e Corti, il vescovo dei Martiri di Belfiore.
Ma non volle esaurirsi qui. Parlò di Mantova, se la sentiva già sua e d’improvviso accennò “al Mantova”, la squadra di calcio che proprio in quei momenti stava giocando.
«Speriamo che vinca» disse. L’accenno destò sensazione. Un giornale uscì titolando «Il vescovo parla di calcio». Era l’altra faccia di Carlo Ferraricapace di presentarsi la prima volta in seminano per restarvi a cena portando due bottiglie di vino sotto il tabarro nero (che non lasciò mai), capace di fulminare con una battuta il vicario generale della diocesi che gli aveva appena versato del vino: «Chissà quante me ne darà da bere…».
Alla prima riunione dei sacerdoti, gli chiesero se avesse lo «spiritus manendi», cioè se considerasse Mantova una semplice tappa in vista di altri traguardi. Rassicurò tutti: Mantova sarebbe stata la sua città. Alla fine, qualcuno gli chiese di mettere la sua firma su una sua foto: «Non sono Bartali».
Gli piacevano le automobili. Guidava personalmente la propria, una potente Alfa Romeo, anche durante le visite alle parrocchie.
«L’automobile è un mezzo utile» commentò. Ma sapeva fare dell’ironia anche su questo aspetto diciamo inconsueto in un vescovo. Raccontò che un giorno aveva ospitato un collega sulla sua macchina uno di quei vecchi vescovi dalle lunghe radici nella tradizione, non abituato a farsi trasportare da un «confratello nell’episcopato».
«Si consoli eccellenza -gli disse- pensi che nemmeno il Papa ha un vescovo per autista».
Apparve subito chiaro che il suo stile era completamente diverso da quello di Poma. Ma i tempi erano cambiati, c’erano stati Papa Giovanni e il Concilio, la Chiesa non aveva avuto paura di riflettere su se stessa e sul compito che da duemila anni un ebreo di nome Gesù le aveva affidato.
Furono anni definiti difficili ma promettenti quelli del post Concilio e mons. Ferrari li visse in pieno, condividendone lo spirito e i contenuti.Durante la visita pastorale a Castiglione Mantovano, il parroco di allora, don Luigi Bellini, gli fece vedere la collezione completa di tutti gli interventi pronunciati in San Pietro, divenuto aula del mondo cattolico e credente. Con interesse andò a trovare il suo intervento, puntualmente registrato.
Scrisse vari libri, fondendo fede, cultura e quello a cui si accennava prima: lo spirito di don Orione che aleggia soprattutto in quel “Da Dio a Dio”forse il miglior scritto del Vescovo Ferrari.
Nel 1985 raggiunse i 75 anni di età e come vuole la normativa canonica rassegnò le dimissioni. Ogni anno ritornava a Monopoli per Ie vacanze. Dei suoi antichi fedeli aveva voluto un ricordo vivo, portando a Mantova un sacerdote, don Stefano Siliberti, simbolo del sud e di valori che riteneva assoluti: I’intelligenza, la vocazione semplice, quasi dimessa mai ostentata.
Passava lunghe ore da solo in riva al mare, guardato da lontano da suor Luisa che gli è stata accanto sino all’ultimo respiro. Al suo segretario, don Regis, lasciò il difficile compito di far uscire tutte le settimane «La Cittadella» il settimanale dei cattolici mantovani.
In pace con se stesso, non volle mai lasciare Mantova, in nome di quello «spiritus manendi» sul quale aveva rassicurato venticinque anni prima i suoi sacerdoti. Era un uomo dai grandi, personali bilanci e se gli avessero chiesto che cosa riteneva di aver fatto di più giusto per la diocesi mantovana, forse avrebbe risposto: «Ho pregato».
Domenica 10 dicembre 1967 terminò il suo discorso in Sant’Andrea dicendo: «Vi benedico con l’anello di San Pio X». Ora è lui a voler essere benedetto con quell’anello.
Cesare De Agostini Giornalista
Dal quotidiano di Mantova “La Gazzetta” 2 Dicembre 1992