La Commissione per la preparazione degli statuti della Conferenza Episcopale Italiana si è trovata concorde nella decisione di fare precedere agli statuti un breve proemio dottrinale che inquadri con la dovuta chiarezza la natura, il ruolo e le finalità delle conferenze nell’ambito della vita e della missione della chiesa.
La presente esposizione vuole essere una specie di relazione che illustri con una certa ampiezza le affermazioni del proemio stesso.
Conferenze episcopali e collegialità
La collegialità dei vescovi è una realtà ecclesiale che ha diverse espressioni, da quella solenne dei concili ecumenici a quelle non solenni già previste dai vari documenti della chiesa o che, sempre con l’approvazione della suprema autorità, potrebbero sorgere a seconda della opportunità in corrispondenza del maggior bene della chiesa.
Queste diverse espressioni di collegialità comportano un diverso grado di potere: nelle forme di collegialità propriamente dette esso è primo e supremo, mentre negli altri casi è determinato dalla volontà del sommo Pontefice;
la ragione dipende dal fatto che la collegialità piena è di istituzione divina e le sue prerogative derivano dalla sua stessa istituzione, mentre le altre forme sono di istituzione ecclesiastica e di conseguenza hanno un ambito e dei poteri determinati dal Successore di Pietro, il quale possiede personalmente la pienezza del potere su tutta la chiesa.
In queste diverse attuazioni della collegialità dei vescovi sono sempre presenti due elementi, come avviene in ogni espressione di chiesa, la quale è nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, in modo che in lei l’umano sia ordinato e subordinato al divino e il visibile all’invisibile (cf SC 2): gli elementi di ogni forma di collegialità episcopale sono gli uni esteriori, gli altri interiori.
Gli elementi esteriori sono la giurisdizione, la sua determinazione canonica, il grado e l’esercizio del potere: è l’aspetto istituzionale, giuridico, divino o ecclesiastico; questo elemento nel tempo storico della chiesa entra nella sua stessa costituzione e non può mai mancare.
Gli altri elementi a cui i primi sono ordinati e subordinati sono quelli interiori costituiti dalle realtà divine, che stanno come contenuto alla sua espressione visibile.
E’ evidente che gli statuti di una forma di collegialità episcopale ecclesiastica sono di natura giuridica, cioè la espressione esteriore legittima di un contenuto che li trascende e che nello stesso tempo devono manifestare.
Impostazione del discorso
Noi ci poniamo in un atteggiamento di umile servizio dei nostri fratelli nell’episcopato per intrattenersi in una amorosa meditazione sulle realtà divine presenti in ogni forma della nostra collegialità perché liberi da ogni preconcetto o timore, possiamo aprirci incondizionatamente al valore salvifico di queste realtà di cui noi siamo i privilegiati e responsabili portatori.
Il discorso, per ragioni di chiarezza deve partire da alcune premesse:
a) il tema centrale del magistero del concilio ecumenico vaticano Il è la chiesa;
b) il punto focale delle realtà della chiesa è il mistero della sua unità;
c) la chiesa è il segno e lo strumento della sua unità;
d) l’essenza della vita e della missione della chiesa è l’unità nella carità;
e) il compito di edificare l’unità della chiesa nella carità spetta a tutto il popolo di Dio
f) l’ufficio di cui sono rivestiti i sacri ministri sono a un titolo unico, segni e strumenti dell’unità della chiesa e della sua edificazione nella unità.
Riprendiamo brevemente alcuni dei punti premessi, proponendoci di sviluppare l’ultimo.
Il proposito, quindi lo scopo del concilio è di presentare la chiesa come segno e strumento dell’intima unione degli uomini con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, affinché gli uomini, oggi più strettamente congiunti da vincoli sociali, tecnici e culturali, possano conseguire la piena unità in Cristo: questo compito i Padri del concilio lo sentono come il dovere che si impone con più urgenza (cf LG 1).
L’unità perseguita dal concilio è quella che corrisponde alla natura della chiesa di popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio nello Spirito Santo (cf LG 4).
Il concilio che ha orientato la ecclesiologia nel senso del mistero, il quale sempre sorpassa e condiziona l’aspetto istituzionale, ci propone la stupenda analogia tra il mistero della chiesa e quello della Trinità santissima e scopre il supremo modello e la sorgente del mistero della unità della chiesa nella unità della trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo (cf UR 2).
Inoltre questa unità delle divine Persone non è presentata nella prospettiva della staticità immutabile della divina natura, ma nel senso del dinamismo vitale della loro esistenza, che corrisponde a una ineffabile comunione di vita;
a questa comunione gli uomini sono chiamati a partecipare come amici e a realizzarla nell’unità dell’amore tra di loro (cf 1 Gio 1,2-3; DV 1 e 2).
Le varie immagini bibliche, che mettono in evidenza, in modo descrittivo, gli inesauribili aspetti del mistero della chiesa convergono tutte nell’accentuare il mistero della sua unità.
E’ precisamente per il fatto che la chiesa è un mistero che allo stesso tempo è soggetto oggetto e strumento del suo essere e del suo agire: le divine Persone e la persona degli uomini sono i protagonisti di tutta la realtà della chiesa;
essi sono gli attori, i quali con la loro azione congiunta rendono efficiente l’attività salvifica dei vari ministeri;
come sono i componenti della unità nella carità che costituisce la meta progressiva della vita della chiesa.
La chiesa quale segno e strumento di salvezza ha come principali agenti le divine Persone e come collaboratori le persone umane dotate, secondo una natura e un grado diverso, dei vari ministeri;
la sorgente della efficienza della sua azione e il senso vero cui tende è caratterizzata e giustificata dalla unità da cui nasce, quella delle divine Persone, e dall’unità verso cui tende, quella degli uomini.
E’ l’unità già attuata ed evidente tra i membri del popolo di Dio che acquista il ruolo di segno e la forza di strumento; quanto più questa unità sarà autentica e manifesta tanto più efficiente sarà la sua azione misteriosa tra gli uomini.
Tutto il popolo di Dio porta la responsabilità della azione salvifica della chiesa (cf LG 17; id 30) e l’anima di ogni apostolato nella chiesa è la carità che opera l’unità (cf Gio 17, 21; LG 34; AA 3);
tuttavia Cristo signore per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il corpo (cf LG 18) tra questi tengono il primo posto i compiti di cui sono dotati i vescovi, i quali continuano fino alla fine dei secoli la missione divina che Cristo ha affidato agli apostoli (cf LG 20).
La natura il senso e la finalità dei compiti episcopali
Dopo questa specie di inquadratura, guidati dallo Spirito Santo che introduce nella pienezza della verità, maestri e discepoli nella chiesa, siamo posti davanti alla inesauribile ricchezza del contenuto di una realtà divina che si inserisce nel vivo della nostra persona fino a modificarla ontologicamente e a darle un nuovo radicale orientamento esistenziale.
La più alta espressione del magistero della nostra chiesa afferma per noi: “insegna…il santo concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che dalla consuetudine della chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, somma del sacro ministero.
La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare, i quali però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio”(LG 21).
Ricordiamo ancora una volta che lo scopo della presente riflessione é quello di chiarire il contenuto teologico della realtà del corpo episcopale, pur riconoscendo incondizionatamente il valore e la finalità della sua espressione giuridica.
Anzitutto è chiaro che:
-la consacrazione sacramentale che configura ontologicamente a Cristo Profeta, Re e Sacerdote Capo della chiesa viene da Dio attraverso il ministero della chiesa;
-gli uffici di santificare, insegnare e reggere il popolo sacerdotale, regale e profetico, sono conferiti in forza del sacramento
Ciò che di conseguenza preme rilevare è il fatto di una partecipazione personale nuova all’essere, alla vita, agli uffici di Cristo Capo;
-una grazia di conformità a Cristo unico e sommo sacerdote del Padre: tutto dal Padre, tutto nel Padre, tutto per il Padre nella potenza della pienezza dell’amore dello Spirito Santo;
-come nessun altro al mondo siamo costituiti religiosi di Dio; ” in his quae patris mei sunt” (Lc 2,49).
L’altro aspetto della nostra partecipazione a Cristo Capo della sua chiesa è una grazia unica di amare e di dare tutto noi stessi, come ha fatto lui, per la sua chiesa, per renderla santa e senza macchia davanti a Dio e agli uomini (cf Ef 5,2 e 25): la nostra conformità a Cristo capo è paradossalmente una partecipazione vitale, e non solo morale, alle disposizioni di Gesù che è venuto a servire e non per essere servito (Mt 20, 28; Fl 2,7).
Gli uffici episcopali traggono tutti la loro origine dalla forza del sacramento e, per l’impegno della fedeltà di Dio ai segni a cui egli ha legato la sua azione, il loro esercizio è accompagnato dalla grazia che possiede la più alta efficienza salvifica nell’ambito della missione della chiesa: la pienezza della capacità di santificare, la più forte manifestazione dello Spirito che opera nel ministero della Parola e la grazia più forte di avviare legami di carità che uniscano in un solo popolo i dispersi figli di Israele sono garantiti da una certezza di natura istituzionale divina che sta alla base dell’esercizio del ministero dei vescovi.
Indole e natura collegiale dell’ordine episcopale
A questo punto il discorso si fa più specifico e più impegnativo.
Gli uffici episcopali per loro natura non possono essere esercitati, se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del corpo episcopale: gli uffici sono quelli di santificare, di insegnare e di governare.
Il giurista incomincerebbe con tutta naturalezza dalla così detta giurisdizione particolarmente connessa con il compito di governare;
la sua preoccupazione, del tutto legittima, consisterebbe nel determinare la misura e l’ambito di un potere derivante dalla consacrazione o dall’autorità che Cristo ha istituito nella sua chiesa.
Notiamo solo di passaggio che i concetti di potere e di giurisdizione, in certi periodi storici, hanno subito una tale deformazione da essere definiti secondo le categorie delle istituzioni civili piuttosto che secondo la natura della istituzione divina della chiesa, al punto di essere attribuiti indipendentemente dalla consacrazione sacramentale e, ancora oggi, non fa difficoltà, per sé paradossale, della pienezza della giurisdizione in un semplice presbitero e della pienezza del sacerdozio senza la giurisdizione.
E’ del tutto diverso l’atteggiamento di chi è preoccupato di scoprire il valore, la funzione e il senso delle realtà divine, di cui sono segno e strumento le istituzioni giuridiche.
Quando il concilio specialmente ai numeri 21 e 22 della “Lumen Gentium” parla di comunione gerarchica che soggiace alla collegialità dei vescovi, pur avendo la preoccupazione di precisarla per ciò che riguarda il potere e il suo esercizio, ci pone dinanzi a un fatto di presenza e di azione delle divine Persone, con la esplicita intenzione di spingerci anzitutto nella profondità della ricchezza traboccante del mistero, per disporci a trovare più agevolmente la nostra posizione e il nostro giusto atteggiamento nei limiti connaturali alla istituzione.
Motivazione eucaristica
Il punto di partenza per la retta comprensione della natura e del senso della comunione gerarchica, nella quale si devono esercitare gli uffici episcopali, è il mistero eucaristico, sorgente e culmine di ogni attività nella chiesa e quindi di ogni ufficio salvifico.
Forse non è neppure nella intenzione del concilio di affermare al numero 21 della “Lumen Gentium” che l’ufficio di santificare debba essere esercitato in comunione col capo e con le membra del corpo episcopale; ma se questo non fosse affermato a questo punto lo è in modo inequivocabile e con insistenza in altri punti del suo magistero.
La tradizione tramandata sia dai Padri apostolici, come dai testi liturgici primitivi e dai canoni più antichi ha sempre fatto coincidere la comunione ecclesiale con la comunione eucaristica: la separazione dall’unità della fede e la divisione nell’unità della carità era sancita dalla esclusione dal partecipare alla unica eucaristia; come il ritorno,cioè la conversione nel piano della fede come su quello della condotta morale aveva come traguardo la comunione eucaristica.
Il concilio, anche se non propone questa antica disciplina, riconosce ampiamente il valore della celebrazione liturgica in genere e della celebrazione eucaristica in ispecie, come fonte ed espressione della edificazione della chiesa, come comunione nella unità della carità (cf LG 17; Id 26; PO 5; id 6; SC 47; LG 11; Id 13; UR 2).
Tutti i sacramenti e tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato sono strettamente legati e ordinati alla eucaristia. Infatti in essa è racchiuso tutto il bene spirituale della chiesa: si presenta come fonte e culmine di tutta la evangelizzazione per mezzo della quale è convocato e costituito il popolo di Dio (cf PO 4); non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione eucaristica (cf PO 5 e 6).
Balza evidente che per il concilio gli uffici di santificare, insegnare e reggere il popolo di Dio, dei quali Cristo ha dotato la sua chiesa e della cui pienezza sono investiti i vescovi, in virtù della consacrazione sacramentale, sono radicati nella celebrazione eucaristica e ad essa sono ordinati.
Per questo il concilio è convinto “che c’é la principale manifestazione della chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo Presbiterio e dai ministri (cf SC 41).
Motivazione ecclesiale
Questo apice della manifestazione della chiesa che si attua al momento della pienezza della comunione della chiesa particolare, richiama un’altra dichiarazione del concilio estremamente esplicita: “I singoli vescovi…sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro chiese particolari formate ed immagine della chiesa universale e in esse e da esse è costituita l’una e l’unica chiesa cattolica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria chiesa e tutti insieme col Papa rappresentano la chiesa in un vincolo di pace, di amore e di unità (LG 23).
Queste affermazioni del concilio sul rapporto inscindibile tra la consacrazione sacramentale e la comunione gerarchica è, a nostro modesto avviso, il punto più innovatore del magistero conciliare e quello più carico di conseguenze sul piano pastorale.
Sono due gli elementi che concorrono a costituire il vescovo: la consacrazione sacramentale e la comunione gerarchica: la prima conferisce la pienezza dei poteri salvifici, la seconda li qualifica nel senso ecclesiale dell’unità nella carità.
Ai fini del nostro discorso l’attenzione va rivolta al contenuto della comunione gerarchica per chiarire due aspetti: la comunione come elemento costitutivo dell’episcopato e la necessità dell’esercizio effettivo e abituale di questa comunione.
La consacrazione episcopale non conferisce soltanto dei poteri salvifici, ma inserisce il vescovo in un corpo preesistente come membro di questo corpo, non semplicemente per un legame giuridico o affettivo, ma per una ragione istituzionale divina e quindi costitutiva e ontologica (cf “nota praevia” 2: per essa (comunione gerarchica) non si intende un certo vago ‘affetto’ ma una ‘realtà organica’, che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità”).
Questa realtà organica della comunione gerarchica, di sua natura, ha bisogno di entrare nella concretezza sociologica del corpo episcopale e nella psicologia personale di ogni vescovo, perché diventi un costume di chiesa, un elemento fondamentale della vita spirituale del vescovo e di conseguenza un atteggiamento ispiratore della sua azione pastorale.
Più in alto abbiamo affermato che la comunione definisce gli uffici episcopali.
Il senso è questo:
la comunione gerarchica è una realtà nella quale l’azione dello Spirito è attiva nel più alto grado e col massimo di efficienza perché, si tratta dell’animazione della carità dell’esercizio dei più alti ed efficienti compiti salvifici istituiti da Gesù Cristo;
l’azione dello Spirito Santo in questo vertice della vita dell’azione della chiesa porta con se necessariamente il senso della sua missione salvifica, analogo al suo esistere intratrinitario:
come in seno alla Trinità santissima lo Spirito Santo è il vincolo infinito ed eterno dell’amore infinito del Padre e del Figlio, così la sua missione è quella di fare l’unità nella carità tra coloro che sono invitati ed ammessi alla comunione con Dio (cf DV 2).
Inoltre nella chiesa, la comunione gerarchica è istituzionalmente il modello più alto e la sorgente più feconda della unità nella carità per tutta la chiesa.
Tutto ciò che è divinamente istituito nella chiesa ha un carattere sacramentale di segno e di strumento della grazia salvifica connessa con la istituzione;
conseguentemente poiché i poteri episcopali hanno come loro prima ragione e ultimo fine la edificazione della chiesa nella unità della carità (senso dell’azione pastorale), essi sono radicati nella sorgente ultima della unità delle divine Persone di un solo Dio e in quella ecclesiale mediatrice della comunione con il capo e le membra del corpo episcopale.
Quando esistesse una chiara coscienza di questo elemento costitutivo dell’essere episcopale, la vita spirituale del vescovo e i suoi atteggiamenti pastorali sarebbero naturalmente proiettati verso un effettivo esercizio di comunione gerarchica.
Senso della comunione
Questa comunione ha una duplice dimensione, una verticale e una orizzontale: una va dalle membra al capo e dal capo alle membra, l’altro circola tra le membra del corpo episcopale.
Però queste affermazioni non si possono prendere alla lettera, sia perché ogni espressione umana non può definire adeguatamente una realtà connessa col mistero della salvezza, sia perché trattandosi di un corpo soprannaturale e analogicamente organico ogni distinzione non può mai precisare in modo assoluto il confine del significato di una espressione, senza rischiare di diventare un taglio che si inferisce in un corpo vivo o un intoppo che ne paralizza la vita.
E’ pacifico che la comunione gerarchica esiste solo a condizione che abbia come perpetuo e visibile principio e fondamento Il successore di Pietro; ma è altrettanto vero che il romano Pontefice non “presiederebbe” alla carità di tutte le chiese qualora mancasse questa concreta realtà della comunione nella carità delle membra nel corpo di cui egli è capo.
La garanzia della autentica comunione gerarchica è la unione con il vescovo di Roma, la mancanza però di comunione con tutti i vescovi non può conciliarsi con quella del Papa, il quale, per divina istituzione è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità dei vescovi (cf LG 23), anch’essa costitutiva dell’essere episcopale (cf LG 22).
La pienezza della comunione gerarchica richiede allo stesso titolo tanto quella verticale col capo come quella orizzontale con le membra.
La divina condiscendenza sa conciliare i limiti umani e le inesprimibili realtà divine: la sua più alta manifestazione è costituita dal mistero della Incarnazione;
analogamente accade nella divina costituzione della chiesa, dove il mistero della pienezza dei poteri salvifici è contenuto nei limiti degli elementi istituzionali;
nella costituzione della sacra gerarchia chi è il primo è anche il capo in senso giuridico e ha personalmente la pienezza dei poteri, che competono anche ai membri del corpo di cui è capo (tutti conoscono quale rompi capo costituisca il tentativo di conciliare la suprema potestà del sommo Pontefice e quella del collegio episcopale nel quale egli è sempre presente!
Queste tensioni hanno la loro soluzione vera nella contemplazione e nella adorazione amorosa del mistero di cui sono espressione, cioè il supremo modello e la sorgente dell’unità nella carità nella chiesa: l’unità delle divine Persone di un Dio solo.
Il Padre è il principio e il termine assoluto della esistenza del Figlio e, con il Figlio dello Spirito Santo, ma né il Padre, né il Figlio, né lo Spirito Santo sono uno maggiore dell1altro;
il cammino verso la esperienza interiore della partecipazione al mistero dell’abisso dell’amore in Dio, meta della vita della chiesa, in particolare dei primi responsabili delle sue sorti, è la chiave di soluzione per animare e rispettare gli spazi e i limiti delle istituzioni, sempre, tanto nel senso verticale che in quello orizzontale.
Mentre quindi è giuridicamente indispensabile la determinazione canonica della comunione gerarchica, al fine di definire l’ambito dei poteri dei vescovi che attuano una qualche forma di comunione tra di loro e col Papa, è teologicamente essenziale che questa comunione sia vera come contenuto ed evidente come manifestazione.
Manifestazione della comunione
La determinazione giuridica dipende dal semplice concorso della volontà umana e ha il suo valore indipendentemente dalla realizzazione esistenziale del contenuto teologico:un atto del Pontefice o del Concilio o di una conferenza ha il valore sacramentale, dottrinale o giurisdizionale corrispondente al potere e alla volontà debitamente espressa di chi lo pone.
Gesù Cristo stesso ha garantito certi atti come atti della sua chiesa o con la immediata istituzione o con il potere dato alla sua chiesa di istituirli.
Però tanto la natura della chiesa (popolo adunato nella carità, corpo vivo e organico, tempio edificato con pietre vive), come la natura e la finalità di questi atti esige che essi attingano alla sorgente della unità nella carità e ne siano la manifestazione nella chiesa e nel mondo.
In altre parole i compiti della gerarchia hanno una loro grazia e una loro efficienza salvifica che coincide con l’intensità di carità che anima la comunione gerarchica e con la evidenza con cui è espressa concretamente.
La comunione gerarchica è costitutiva dell’essere e dell’agire dei membri del corpo episcopale e va concepita come un’attitudine permanente che si attua e si manifesta come un suo stile di vita e di azione.
Un vuoto di comunione gerarchica è un impoverimento incalcolabile nell’azione salvifica della chiesa.
Questa attitudine quando diventa effettiva pare che debba corrispondere ad un principio di ecclesiologia che si può esprimere così: la chiesa nasce dall’alto per l’azione delle divine Persone ma si edifica dai basso per la risposta della persona degli uomini al Piano di Dio che si compie nella storia.
Considerata nella manifestazione del suo mistero la chiesa universale si costruisce nelle chiese particolari, da un punto di vista storico e concreto, invece, essa si costituisce per la comunione delle chiese particolari, a cui presiede quella del successore di Pietro (cf LG 23).
L’autentica chiesa universale è quella che ai legami esteriori istituzionali e giuridici unisce l’attuazione sempre più piena dei legami interiori costitutivi della sua unità ontologica, la quale ha la sua sorgente primaria nell’attuazione e nella manifestazione dell’unità organica del ministero episcopale che Cristo ha conferito prima a Pietro e poi agli apostoli con lui: l’unità della chiesa esige l’unità nel ministero.
Responsabilità morale
Vista così la comunione gerarchica, prima di costituire una fonte di potere e di diritti, appare come la ragione più profonda dei doveri specifici del vescovo.
Essa può impegnare la sollecitudine vicendevole dei vescovi in atti di concreta collaborazione, senza che essi siano atti di giurisdizione (cf LG 23) .
Quando il concilio dichiara a più riprese: nella persona dei vescovi il Signore Gesù è presente in mezzo ai credenti; sedendo alla destra del Padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici (cf LG 21), il richiamo naturalmente evoca la presenza di Gesù in mezzo ai discepoli come la descrive Giovanni ai capitoli 15,16,17, del suo vangelo.
Essa richiama una analogia di rapporti nell’amore ripetuta col moltiplicarsi delle espressioni, propone una novità di vita (cf 15,1-11;17,23) caratterizzata dal precetto dell’amore vicendevole (cf 13,34; 15, 12, 17), il quale diventa il segno più autentico della missione di Gesù e quindi della chiesa: “e la gloria che tu hai dato a me io l’ ho data a loro, perché siano una cosa sola come noi” (17,22).
Lo stesso Giovanni spiega il significato di questa gloria :” Ciò che abbiamo veduto e udito lo annunziamo anche a voi affinché anche voi abbiate comunione con noi e la nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”(I Gio 1,3).
La conclusione ci immerge nell’abisso dei rapporti di vita delle divine Persone, dei nostri rapporti con loro e tra di noi e delle nostre responsabilità di testimonianza salvifica di fronte al mondo:” io in loro, tu in me, affinché siano perfetti nella unità, e il mondo creda che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (17,23).
Suggestioni concrete
La natura sacramentale della chiesa, istituzione visibile di salvezza, la quale si costituisce e si sviluppa intorno al visibile principio e fondamento della sua unità che è il vescovo, orienta verso forme di comunione che per essere concrete esigono di essere attuate secondo dimensioni di spazio personali.
In altre parole la comunione gerarchica universale, per risultare una realtà giuridica sostenuta e animata da una realtà soprannaturale organica di unità nella carità, deve essere costituita da “comunioni di base” aperte e intercumunicanti tra di loro.
Secondo il diritto vigente si dovrebbe partire dai vescovi suffraganei col loro metropolita, poi dalle conferenze episcopali regionali a quelle nazionali e internazionali fino al concilio ecumenico.
Queste attuazioni si riferiscono al corpo episcopale, entità indivisa e vivente e sono condizionate sul piano esistenziale dalla vitalità delle singole parti.
E’ auspicabile che si moltiplichino le comunioni di base e diventi sempre più intensa la loro vitalità nell’unità della carità perché, a modo di gangli vitali, contribuiscano all’unità in tutta la chiesa di Cristo.
Queste sono le forme di comunione che cadono sotto la esperienza. dei sacerdoti e dei fedeli e acquistano un valore e una funzione esemplare, senza contare il contenuto di grazia, il quale costituisce l’anima che suscita dall’interno l’unità nell’ambito della chiesa tra le chiese e le comunità ecclesiali da essa separate.
MN 308 Conferenze episcopali 1968