Castello di Urio
17-20 Luglio 1968
Da quanto è stato detto fino a questo punto del nostro convegno e soprattutto dalle reazioni che sono emerse, io sono arrivato ad una considerazione che a qualcuno potrà sembrare più dottrinale che pastorale.
Quando però la dottrina equivale al contenuto della Rivelazione e questo contenuto non è ridotto alle « verità », ma a tutto ciò che Dio ha compiuto e compie per la nostra salvezza, non si dà più luogo alla distinzione tra ciò che è dottrinale e ciò che è pastorale, e tanto meno alla distinzione tra teorico e pratico.
In questo caso, il mio intervento ha un netto riferimento alla pastorale della penitenza appunto perché riporta a ciò che sta a monte della virtù e del sacramento della penitenza e ne prospetta le ultime conseguenze.
Si è creata in mezzo a noi, in questi giorni, una certa preoccupazione per eventuali innovazioni nella pratica della penitenza.
A me pare che ci dovremmo seriamente preoccupare di arrivare noi stessi e di introdurre i nostri fedeli a vedere a quale punto preciso si colloca la penitenza e quale sia la funzione del sacramento.
Per scoprire questo punto è indispensabile collocare noi stessi e la nostra vita spirituale nel piano di Dio.
Ne troviamo una affascinante descrizione specialmente nella lettera agli Efesini.
In Gesù Cristo e per Gesù Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo, noi siamo stabiliti in una nuova creazione, che ci pone in rapporti del tutto nuovi con le Divine Persone, con l’umanità e l’intero creato.
Siamo figli del Padre, membra del Corpo di Cristo, dimora dello Spirito Santo e fratelli fra di noi: tutte le creature attendono la loro liberazione come conseguenza della nostra glorificazione.
Questo piano ha la sua origine dal libero beneplacito del sovrano amore di Dio ed ha come fine di rendere nota (glorificare) la incontenibile potenza della grazia di Dio.
Due fatti devono stare chiaramente davanti alla nostra attenzione:
a) la nostra esistenza è definita da un rapporto interpersonale con Dio e con gli uomini e da un rapporto di responsabilità religiosa (riferire tutto a Dio) rispetto a tutto il creato;
b) questo rapporto è definito a sua volta dall’amore: dall’amore delle Divine Persone verso di noi, dal nostro amore vicendevole il quale ha la sua motivazione e le sue origini in quello di Dio e che pone Dio sopra tutti e sopra tutto, in tutti e in tutto.
La scoperta, la coscienza, l’attuazione, il perfezionamento operante di questo rapporto interpersonale d’amore costituisce la vita cristiana nelle sue diverse tappe di maturità: da una parte Dio che interpella, che propone, che offre il suo amore salvifico, e dall’altra la risposta sempre più cosciente e impegnata dell’uomo.
Il peccato si colloca a questo punto come un rifiuto a una vocazione all’amore: una rottura che si opera nel piano di Dio, una chiusura alla comunione con le divine Persone e con i fratelli, un disimpegno verso le creature che attendono di essere ordinate a Dio per essere con noi ricapitolate in Cristo.
Ciò che importa, da un punto di vista pastorale, è che non si dia per acquisito ciò che si conosce o si presume di conoscere dottrinalmente e non è invece esistenzialmente attuale.
Il piano di Dio non è la cornice, più o meno rilevante, dell’impegno dell’amore o del rifiuto del peccato; importa una presenza attuale, operante, avvertita dall’abitudine della fede, delle divine Persone in vitale rapporto con il credente.
Soltanto nella prospettiva personalistica di questo piano e possibile cogliere il senso della penitenza e la funzione del sacramento.
La penitenza nasce dalla constatazione di essere usciti dalla casa del Padre, di non essere più nella comunione con i fratelli, di subire la padronanza delle creature; di essere poveri, soli, impotenti, schiavi.
Da questa constatazione nasce una nostalgia, un desiderio di liberazione, di uno che dia una mano, di sicurezza, di amore;
quanto più questo sarà forte, maturerà la decisione di rompere anche dolorosamente i legami della schiavitù, di uscire dalla solitudine dell’egoismo, di ritornare con umiltà nella casa del Padre, tra i fratelli;
la decisione sarà accompagnata dal bisogno di riparare e di mettersi con una saggezza maggiore in istato di difesa dalle suggestioni del demonio, del mondo e della carne.
Questo abbozzo di dramma interiore che si verifica in ogni vera penitenza non è un semplice processo psicologico, ma una risposta tanto più valida quanto più cosciente all’azione del Padre che per mezzo del Figlio e nello Spirito si china su ciascuno di noi per offrirci nuovamente la sua salvezza:
per ristabilirci nella dignità di suoi figli,
per ricondurci nella comunione con i fratelli,
per restituirci nella libertà di signori del creato.
L’azione di Cristo che ci salva attraverso il paradosso del dolore e della gioia della penitenza è adeguatamente espresso e mirabilmente efficace nel sacramento della confessione.
Il Concilio insegna: « I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e a rendere il culto a Dio » (S.C. 59).
La pastorale del sacramento della confessione deve avviare i penitenti a realizzare questa triplice finalità a cui è ordinato ogni sacramento.
In che cosa consiste la santificazione primo effetto del sacramento?
Il penitente deve fare il suo passaggio dall’ordine delle nozioni astratte di grazia santificante, di grazia sacramentale, di merito, ecc. all’ordine dei fatti concreti che accadono e che hanno come protagonisti le divine Persone, lui stesso, i propri fratelli e tutto il creato in cui si muove la sua esistenza.
E’ un momento forte della storia della sua salvezza: il Padre santifica il penitente perché lo introduce nell’adozione di figlio suo a cui lo ha predestinato in Gesù Cristo, nel quale abbiamo la remissione dei peccati per mezzo del suo sangue, per l’azione attuale che compie lo Spirito attraverso i segni del pentimento.
Dalla iniziativa del Padre alla manifestazione responsabile e impegnata del pentimento, non si tratta di uno scatto automatico di congegni a cui potrebbe indurre la formula ex opere operato, ma è tutto un avviarsi, uno svolgersi, un perfezionarsi di rapporti di persone che ha origine e si conclude nell’amore.
I sacramenti sono destinati alla edificazione del Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Quanto è stato detto in questo convegno ha portato quasi alla scoperta della dimensione ecclesiale della penitenza.
A me preme di mettere in evidenza come questo è voluto da quel piano di Dio in cui essa prende il suo vero senso e la sua propria funzione.
Il Padre ci destina alla adozione di figli nel suo Diletto, nel quale vuole ricapitolare ogni cosa e lo vuole dare come Capo della Chiesa, la quale diventa così il suo Corpo.
Sappiamo come san Paolo sviluppi questa figura del Corpo di Cristo nelle sue implicazioni di organicità vitale, di interdipendenza funzionale delle membra del Corpo di cui Cristo è Capo;
si tratta di una fra le tante immagini di cui la Scrittura si serve per manifestare la ricchezza inesauribile del mistero della Chiesa;
ciò che però è comune a tutte queste immagini bibliche è la nota dell’unità nella carità che deve contraddistinguere le membra del Corpo di Cristo, le pietre viventi che si edificano in Tempio santo nello Spirito, i tralci di una stessa vite, le pecore di un unico gregge, ecc.:
si tratta di quella unità nella carità senza della quale non ci può essere salvezza, ciò che la tradizione ha espresso con la famosa affermazione extra ecclesiam non datur salus.
Non v’è dubbio che la pastorale si trova davanti a un impegno molto serio per far compiere il salto da una mentalità e da un atteggiamento individualista a una disponibilità sinceramente comunitaria, come esige la vera natura della Chiesa e un autentico cristianesimo.
L’ultimo fine a cui sono ordinati i sacramenti è quello del culto a Dio.
E’ lo scopo di tutto ciò che compie Iddio: la sua gloria.
E’ una delle tante cose che per essere risaputa, in pratica finisce per essere tanto sottintesa da rimanere dimenticata.
Qualsiasi attività religiosa che non tenda esplicitamente a dar gloria a Dio non ha senso.
Una certa preoccupazione moralistica di evitare il peccato, di conservarsi in grazia di Dio ha reso talmente individualista la vita cristiana da renderla quasi estranea alla vera dimensione religiosa, che è quella di dar gloria a Dio.
La gloria di Dio non va intesa come una specie di idolatria … come se fosse geloso delle sue prerogative; è piuttosto una inebriante partecipazione e una festosa proclamazione delle stupende meraviglie che Dio ha compiuto nell’amore infinito a favore degli uomini.
I “mirabilia Dei”, le manifestazioni della gloria di Jahvè, Cristo glorificatore del Padre nei misteri della sua vita, la “lode della gloria” come è descritta in san Paolo e nell’Apocalisse non sono temi marginali della Rivelazione, ma ne costituiscono la profonda motivazione.
Tutto nell’opera della Creazione e della Redenzione è ordinato alla gloria di Dio, perché tutto testimonia la sua presenza, tutto testimonia ciò che ha compiuto nella ricchezza traboccante della sua sapienza e del suo amore a nostro favore;
non evidenziarlo con insistente chiarezza, non farlo entrare nella coscienza, produce un impoverimento estremamente dannoso della vita spirituale, la rende meschina, priva dei veri orizzonti e delle sicure basi di un gioioso entusiasmo che deve accompagnare la meravigliosa avventura della nostra salvezza: strappati dal regno delle tenebre e trasferiti nel regno della luce.
Nell’azione liturgica « con la quale viene resa gloria a Dio e gli uomini vengono santificati, Cristo associa a se la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di Lui rende il culto all’eterno Padre » (S.C. 7).
Nel sacramento della Penitenza il Padre innesta nuovamente questo membro del Popolo di Dio nell’ufficio sacerdotale del suo Cristo e lo costituisce lode della sua grazia.
Quanto più si prenderà coscienza che le azioni sacramentali non sono atti privati, ma atti di tutta la Chiesa, tanto più facilmente si comprenderà che la Chiesa non può essere estranea a queste azioni e che chi ne è il soggetto non può non sentirsi membro della Chiesa e che perciò deve fare sue le finalità della Chiesa che sono quelle di santificare gli uomini per dare gloria a Dio.
A conclusione di questo intervento (che forse non corrisponde al titolo che lo annunciava, ma che propone ciò che è fondamentale per disporci a intraprendere una fruttuosa pastorale della penitenza), mi permetto di proporre alla riflessione di tutti un pensiero che ho dentro, ma che non ho ancora avuto modo di approfondire e che per conseguenza non so esprimere con chiarezza.
I nostri rapporti con le divine Persone, con i fratelli e con il creato hanno la loro origine dall’amore di Dio e il loro culmine nell’amore per Dio.
Il peccato e la penitenza allentano o ricompongono, rompono o riallacciano, diminuiscono o intensificano questi rapporti.
Ecco la riflessione in cui mi pare estremamente utile impegnarci:
i nostri rapporti con le divine Persone sono condizionati da quelli che siamo capaci di stabilire con la persona dei nostri fratelli;
i nostri rapporti personali con i fratelli sono condizionati dal tipo di rapporto che abbiamo con il creato.
La persona umana è il vertice di una evoluzione cosmica ascendente (non ci si riferisce necessariamente alla concezione di Theillard de Chardin); per essere al suo posto deve averne coscienza e deve svolgere questo compito di vertice: è un compito sacerdotale di possesso, fatto di conoscenza, di valutazione, di apprezzamento, di compimento, ecc., che produce ammirazione, godimento, gioia, gratitudine; il possesso sacerdotale ordina tutto a Dio come a fine ultimo, e nell’ adempimento del piano di Dio che vuole che tutto sia a servizio dell’uomo.
Ciò richiede un’effettiva disposizione e rende operanti le esigenze della Croce in opposizione alla tendenza della sete di dominio che è insita nel peccato e nelle sue conseguenze: la mortificazione e la penitenza come indispensabile rimedio all’egoismo che tende a monopolizzare le creature a danno dei fratelli.
Chi è sacerdote del creato lo ordina a Dio e lo gode in comunione con i fratelli; chi non gode di sedere alla mensa del creato a pari diritto con tutti i fratelli, non è più sacerdote delle creature, cioè loro vertice cosciente e ponte tra loro e Dio, ma diventa loro schiavo e si preclude ogni rapporto di amore con il prossimo.
I testi della Rivelazione sono molto più espliciti nel dichiarare che i nostri rapporti di amore con Dio sono condizionati da quelli che attuiamo con i nostri fratelli.
Non è il caso di spendere parole: è sufficiente leggere il discorso di Gesù al capo 25, 31 ss. di san Matteo, le lettere di S. Giovanni e di S. Giacomo.
A questo proposito è decisivo concepire la persona umana come un “essere per”, analogamente alle Persone divine che si definiscono per una relatio ad.
L'”essere” della persona è una esigenza e un impegno a crescere, a sviluppare tutte le proprie doti ad arricchirsi (parabola dei talenti); non in vista di se stessi, ma ” per ” i fratelli.
Si pensi quale dinamismo di dedizione genera questa concezione veramente biblica della persona.
Quando noi saremo in grado di arrivare a una visione chiara della coincidenza dell’ordine del creato con l’ordine dell’incarnazione e della redenzione, diventerà pastoralmente normale condurre il penitente a un esame sui suoi rapporti con le creature e con i fratelli, perché sia in grado di assumere i suoi giusti rapporti con Dio.
Non che si voglia affermare che tutto è semplice; tutto è possibile e anche semplice, purché sia chiara la situazione che Dio ha assegnato a ognuno nel suo piano.
Stampa:“La penitenza, riconciliazione con Dio e con la chiesa.
Edizioni ARES- Milano, in Biblioteca:Autori Vari
ST 201 Urio 69 fotocopia della stampa
MN 429 Urio 69 dattiloscritti dal registratore con correzioni manoscritte del vescovo:
appunti della omelia MN429
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dalla stampa
“schema della omelia di Mons.Carlo Ferrari”
Dal Vangelo secondo Luca (9, 51-56): « Avvenne che, avvicinandosi per Gesú il tempo di essere tolto dal mondo, si diresse risolutamente verso Gerusalemme, e mandò dei messaggeri davanti a sé.
E questi, andati, entrarono in un villaggio dei samaritani a fare i preparativi per lui.
Ma non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme.
Vedendo ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dai cielo e li consumi?”.
Ma egli si voltò e li rimproverò.
E si avviarono verso un altro villaggio ».
Il mistero.
La Parola che Dio ha rivolto alla sua Chiesa, in questo momento da noi rappresentata in modo singolarmente espressivo, è un fatto carico di salvezza: è Cristo in persona che propone ed esige un atteggiamento nuovo di vita.
Giacomo e Giovanni propongono a Gesù di far scendere il fuoco dal cielo sugli abitanti del villaggio samaritano i quali si sono rifiutati di ospitare il loro Maestro.
Gesù invece li disapprova e li rimprovera.
Adoriamo Gesù che perdona ed insegna a perdonare.
Il contenuto del mistero.
Come ogni parola e ogni gesto del Salvatore, questo mistero ha un contenuto che lo giustifica (verità), una proposta esemplare (via) e una grazia (vita).
La verità che Gesù annuncia è quella che deriva dall’incontro dell’amore di Dio con gli uomini in stato di peccato: il perdono.
Gesù sconvolge la logica dei discepoli, il loro criterio di giustizia e il loro impulso di vendetta.
La misericordia che Gesù annuncia al mondo e di cui vuole animati i suoi, è l’onnipotenza dell’amore di Dio che si manifesta di fronte alla malizia che ha bisogno di perdono.
Gesù, nostra via, è stato l’esemplare incarnato della misericordia di Dio e ha proposto ai discepoli di perdonare « settanta volte sette » e di essere misericordioso come è misericordioso il Padre nostro (cf. Lc. 6, 36).
Ma ciò che più importa è la capacità che Gesù comunica a noi di essere misericordiosi.
L’onnipotenza dell’amore di Dio che perdona, incarnata in Gesù nostro Salvatore, è una realtà operante in ogni credente che accoglie l’azione dello Spirito Santo il quale diffonde nei nostri cuori una capacità ontologicamente nuova di amare.
Traduzione esistenziale del mistero.
C’è da stabilire una comunione di pensieri tra quelli di Gesù e i nostri, entrare nella mentalità di Gesù: è il primo frutto dell’ascolto, della meditazione e della contemplazione della Parola di Dio.
Una lunga comunione con Gesù misericordioso.
In questa comunione, dare luogo a una circolazione di grazia: metterci e mantenerci totalmente disponibili all’azione dello Spirito Santo.
Una lunga pausa orante.
Abbiamo bisogno di vedere in concreto e convincerci di quanta misericordia; dare pienezza di senso al nostro ministero di dispensatori della misericordia di Dio.
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Seguono:
* programma del convegno e dei relatori
* trascrivo la fotocopia della cronaca dall’osservatore romano, oggi quasi illeggibile.
* trascrivo la fotocopia della cronaca su l” Avvenire del 25. 7. 69
* non trascrivo la cronaca del “L’ordine” perché = a quella di Avvenire
* lettera di ringraziamento del prof. Cesare Cavalleri direttore della rivista “Studi Cattolici”: 7 Agosto 1969
Programma del convegno al castello di Urio
Nel suo terzo convegno di teologia pastorale, la rivista << Studi cattolici>> ha affrontato un tema di grande momento nel quadro del rinnovamento conciliare: << La Penitenza riconciliazione con Dio e con la Chiesa>> considerando la Penitenza sia come sacramento che come virtù.
Un motivo centrale ha percorso tutti i lavori del convegno, ed è la riscoperta e la valorizzazione della dimensione ecclesiale del sacramento della Penitenza, che spesso viene ridotto esclusivamente a << confessione>> delle colpe o addirittura a semplice sfogo devozionale.
Da qui l’importanza delle celebrazioni comunitarie del sacramento della Penitenza, intorno alle quali sono state raccolte esperienze e suggerimenti.
<< Dimensione personale e comunitaria del sacramento della Penitenza » è stato il tema specifico della relazione del card. Lercaro, che è servita di base e di animazione per il lavoro dei convegnisti.
P. Carlo Braga, del Consilium per l’applicazione della Costituzione Liturgica, ha esaminato l’evoluzione storica dell’istituto ecclesiastico della Penitenza, che si svolge dalla Penitenza << canonica >> del periodo paleocristiano, alla Penitenza << tassata >> del medioevo, fino alla Penitenza
<< privata » dei giorni nostri.
La terza relazione fondamentale è stata tenuta dal prof. don Bruno Maggioni, del seminario di Como, che ha considerato la chiamata alla conversione e alla penitenza nella prospettiva biblica.
Intorno a queste tre relazioni si sono volte tavole rotonde e discussioni che, raccolte in questo volume, costituiscono un decisivo contributo dottrinale e pastorale per l’aggiornamento dell’organismo penitenzia!e nella Chiesa.
prospettive teologico-pastorali
– dimensione personale e comunitaria del sacramento della penitenza (card. Giacomo Lercaro)
– contenuto penitenziale della celebrazione eucaristica e degli altri sacramenti (Rinaldo Falsini o.f.m.)
– occasioni, forme e contenuti della predicazione penitenziale (don Luigi Olgiati)
– I’educazione penitenziale dei fanciulli (don Felice Rainoldi)
prospettive liturgiche
– l’istituto ecclesiastico della penitenza (p. Carlo Braga)
-dimensioni comunitarie del peccato e della penitenza (don Eliseo Ruffini)
– esperienze e proposte liturgiche della celebrazione della penitenza (don Luigi Agustoni)
-esigenze pastorali nella ce!ebrazione della penitenza (mons. Carlo Ferrari)
prospettive bibliche e ascetiche
– chiamata alla conversione e alla penitenza (don Bruno Maggioni)
– il <<sensus ecclesiae>> nella vita del cristiano (mons. Carlo Manziana)
– dal pentimento alla ricerca della santità personale (don Mario Cociancich)
– educazione alla carità e all’apostolato (don Mario Lantini)
preghiera liturgica e omelie
(card. Lercaro, mons. Ferrari, mons. Manziana)
Osservatore romano, 26 Luglio 1969
“Il Sacerdote nella società secolarizzata”
Conclusi i lavori ad Urio del Convegno di teologia pastorale
Il prete deve agire nella comunità dei fedeli in << persona Christi>>
– Sincera disposizione di fraternità
– Spirito di servizio per diffondere la parola di Dio
Il Prete sospeso tra chiesa e mondo, tra gerarchia e fedeli , tra fermento culturale e verità permanente si trova in una situazione storica che getta le sue radici nel paradosso teologico. Dopo secoli di una teologia e di una mentalità tutta impegnata a distinguerlo nella sua originalità egli é oggi gettato al centro di quella che viene definita una << crisi di identità >> e deve riscoprire se stesso. Questo uno dei rilievi di fondo emerso con un vasto corredo di analisi filosofiche, teologiche e pastorali, al termine del convegno di teologia pastorale organizzato da “Studi Cattolici” presso il castello di Urio sul tema “Il Sacerdote e la società secolarizzata”
Per uscire da questa strana impasse ha detto don José Luis Ileanes, professore di teologia all’università di Navarra e relatore principale dell’ultima giornata con il brillante contributo su “missione e culto nella vita del sacerdote”” bisogna portare a fondo l’impostazione data dal concilio a tutta la teologia del presbiterato. Talvolta infatti si é considerato il prete come realtà intermedia fra cristo e la comunità, si é definito il sacerdote come separato dalla comunità dei credenti e si é posto poi il problema, sul piano teoretico, di dedurre dalla definizione il suo rapporto con essa. Se ne é fatto n singolare mediatore che non riesce a comunicare con nessuno dei due poli di ciò che lo dovrebbe costituire come sacerdote, perpetuando l’equivoco teologico di un sacerdozio che, in quanto separato, non si riferisce pienamente ne a cristo ne alla chiesa.
Dopo le esplicite dichiarazioni conciliari appare chiaro come in realtà la fondazione della teologia del presbiterato va centrata in cristo, e che esiste un nesso inscindibile fra cristo e la comunità.
Cristo é vissuto e continua a vivere per la chiesa. Ed é proprio il concetto di vita cristiana che illumina il sacerdozio ed esplicita nel giusto senso il carisma dell’autorità.
Cristologia ed ecclesiologia sono intimamente unite. La comunità, perciò, non é innanzitutto un’insieme di raggruppamenti sociali che stanno di fronte al prete, capo della comunità come un campo estraneo; essa é fondamentalmente la famiglia nata da Dio ed edificata su Cristo, il cui esempio dimostra che l’esercizio dell’autorità é servizio.. E, il sacerdote deve agire “in persona Christi”
Nella giusta considerazione dell’unione esistente fra cristo e la comunità cristiana, ha proseguito il prof. Illanes, scompare ogni tentazione ereditata da una mentalità da privilegio, e prima di ogni altra tentazione del “Clericalismo” teologico ed ecclesiastico.
Parole dure, forse, ma esprimono una presa di coscienza senza dubbio coraggiosa della situazione attuale ed un tentativo di superamento…Rispunta qui il paradosso: il “vero prete é anticlericale”.
Ciò significa che ha capito che deve rinunciare a considerare se stesso come categoria sociologicamente separata dal resto dei fedeli e non si deve servire del laico come se si trattasse di un cristiano di seconda categoria. Una opportuna teologia del laicato aiuta a comprendere la vera natura del sacerdozio, a mettere in luce, contro tutti gli allettamenti di un inserimento emotivo del prete nel mondo laico, poiché non esiste separazione di mondi, perché tutto é chiesa, dovunque si vive vita cristiana.
Può così risaltare la specifica funzione del sacerdote, che é quella di essere ministro della parola e del culto.
Se la secolarizzazione permette di sgombrare il campo da una concezione burocratica del sacerdozio, essa racchiude anche il pericolo di un maggior isolamento del prete che, credendo di rendersi più accettabile, diventa uomo di mondo: si laicizza..
La soluzione dei sui problemi parte quindi essenzialmente dalla fede nella missione che é chiamato a svolgere. in servizio della comunità dei credenti. Il richiamo alla fedeltà non esime però da sincere posizioni di revisione nei confronti di atteggiamenti autoritari che si ripercuotono negativamente sulla vita dei fedeli. Particolare rilievo acquista in tal senso lo studio delle motivazioni psicologiche che talvolta inducono il sacerdote a mantenersi su posizione di scarsa disponibilità di servizio.
Questo aspetto é stato preso in esame dallo psichiatra ,prof Giacomo Dacquino. L’aspetto umano, in definitiva, del sacerdozio é al centro di un vivo dibattito di idee e di un alternarsi di esperienze contraddittorie che lasciano però sempre emergere un sicuro punto di riferimento soprannaturale, come ha rilevato don Carlo Bello nella sua comunicazione sulla mediazione umana nella missione pastorale.
I lavori del convegno di sono conclusi con le relazioni di Mons.Carlo Ferrari, vescovo di Mantova e di mons.Giovanni Catti, direttore dell’ufficio catechistico di Bologna, secondo i quali una corretta impostazione teologica ed umana del problema del sacerdote, secondo lo spirito del Vaticano secondo,, aiuta nel momento della predicazione ad assumere un atteggiamento di profonda umiltà, di sincera disposizione di fraternità e a diffondere così nel modo più appropriato la parola di Dio.
Avvenire 25 Luglio 1969
Al Convegno teologico di Urio
Per i sacerdoti quasi un esame di coscienza
Conclusi i lavori con una riflessione comune sulle esigenze della vocazione pastorale.
GUIDO BOSSA
da Urio
URIO, 24 luglio
Con un approfondito esame della missione che nella Chiesa hanno i detentori dei carisma dell’autorità e dei mezzi pastorali con cui questo carisma si esplica nel mondo, si è concluso oggi il convegno il teologia pastorale per sacerdoti organizzato dalla rivista « Studi cattolici ». Giunti alla conclusione dei i lavori, quindi, i convegnisti hanno messo da parte li discussioni sulla secolarizzazione, per compiere, in un certo senso, un esame di coscienza, per riscoprire il loro posto nella chiesa e nel mondo, per superare quella che, con espressione oggi di moda, viene chiamata la “crisi di identità” del sacerdote, l’incapacità, cioè, di distinguere se stesso e di mettere i suoi specifici doni al servizio degli altri.
L’equivoco – detto nella relazione del mattino don José Luis Illanes, professore alla università di Navarra – ha una radice nell’errata impostazione dei rapporti tra presbiterato e comunità cristiana. Per un complesso di ragioni storiche e teologiche, il clero si é trovato ad essere un ceto a se stante nella chiesa, si é isolato dalla comunità, si é confinato in un compartimento stagno, assumendo come suo compito esclusivo quello di “occuparsi delle cose della chiesa”, lasciando ai laici la responsabilità delle “cose del mondo” considerate profane e quindi estranee al piano di dio.
A Questa errata impostazione dell’ecclesiologia ha reagito il concilio, alle cui dichiarazione il relatore si é riallacciato, per indicare nella comune chiamata alla santità e nel comune impegno nella vita cristiana, la radice dell’unità della chiesa. Il carisma proprio del sacerdote si esplica nel servizio della comunità cristiana, ella predicazione della fede, nella trasmissione, a tutti gli uomini e in ogni circostanza, del messaggio di salvezza. Ogni altra soluzione che non tenga conto di questa realtà o che tenti di confondere il compito del sacerdote con quello del laico porterebbe altri equivoci, genererebbe nuove confusioni, farebbe soprattutto perdere al sacerdote il senso soprannaturale della sua vita.
A idee non dissimili aveva richiamato ieri l’attenzione dei convegnisti il cardinale Frings, che, in una breve visita al castello di Urio, sede dell’incontro, aveva preso la parola per ricordare che l’amore infinito per gli uomini ha contrassegnato tutta la vita di cristo sulla terra, e che questo stesso amore che si deve tradurre in opere di servizio, deve contraddistinguere la missione del sacerdote.
Ieri pomeriggio, a conclusione del lavori, si é svolta una tavola rotonda sulla predicazione e la catechesi, i due momenti fondamentali dell’attività pastorale del sacerdote. Mons Carlo Ferrari, vescovo di Mantova, ha sostenuto che nel mondo moderno si manifesta una esigenza di essenzialità e di autenticità, che richiede da parte del predicatore uno sforzo notevole per raggiungere il nucleo centrale del messaggio cristiano e riproporlo fraternamente, senza ricorrere ad atteggiamenti autoritari od accademici.
Mons Giovanni Catti direttore dell’ufficio catechistico della diocesi di Bologna, ha rilevato che l’insegnamento della dottrina cristiana richiede oggi, da parte del catechista, un atteggiamenti di dialogo, una disponibilità all’ascolto delle questioni poste dagli allievi, che spesso non si accontentano della semplice esposizione della dottrina, ma ne richiedono una chiara applicazione ai loro concreti problemi personali.
E’ stata infine letta una comunicazione dl professor Carlo bello …. non si capisce più…mediazione umana nella missione pastorale.
Avvenire 25.7.69
L’Ordine, 25.7.69
Concluso al CASTELLO di URIO il convegno di teologia pastorale. di Flavio Capucci
Non copio in quanto ripete ciò che, sull’Avvenire, scrive Guido Bossa. Chi ha copiato?
Milano, 7 Agosto 1969.
Eccellenza Rev.ma
Desidero rinnovarLe i più vivi ringraziamenti per la sua preziosa collaborazione alla buona riuscita del nostro convegno di Urio su: “Il Sacerdote e la società secolarizzata”.
Le accludo qualche ritaglio di stampa che Le ricordi il convegno e mi auguro che voglia conservare la sua stima e la sua attenzione anche alle nostre future attività.
La ringrazio ancora e le porgo gli ossequi più de- voti.
(Dott. Cesare Cavalleri)
Rev. Mons. Carlo Ferrari
Vescovo di Mantova
OM 429 Urio 69 – Castello di Urio 17-20 Luglio 1968