Tentare di conoscere a fondo Monsignor Ferrari è come cercare di sciogliere un enigma. Puoi pensarci a lungo senza cavarne fuori niente. O puoi avere il lampo improvviso della intuizione, favorita da un’occasione fortuita e allora la riflessione che ne segue è come il sasso caduto nello stagno, il cui tonfo ti dilata allo sguardo solcate di cerchi concentrici che risalgono dal profondo e si rincorrono all’infinito.
Se poi ti accade di avere avuto, come ho avuto io, il dono ravvicinato e assiduo della frequentazione e la gioia dell’amicizia e il conforto dell’affetto e forse (perché no?) una certa affinità di temperamento e di carattere, tutto ti diventa più facile e più comprensibile e più vicino allo scioglimento dell’enigma.
Certo il portamento e il comportamento di Mons. Ferrari sono spesso schivi ed elusivi, per non dire erratici e contraddittori e conseguentemente devianti dal consentirti, di primo acchito, una reductio ad unum. I valori di mons. Ferrari non sono scoperti, ma sempre da scoprire; non sono visibili al primo accosto e tanto meno al secondo: sono qualche volta contraddetti da una segnaletica che ritenevi giusta e che magari proprio lui ha avuto il ghiribizzo di invertire, mescolandoti le carte e rendendosi inconsciamente (o intenzionalmente?) inafferrabile. Sono i ritorni e le rivalse del temperamento, che anziché temperarsi qualche volta fa sprizzare la nostra singolarità e originalità, in quel continuo alternarsi tra l’uomo comune che è dentro di noi e l’individuo unico e irripetibile che in noi emerge e ci configura.
Proprio la singolarità e l’originalità del suo carattere non hanno mai consentito a Mons. Ferrari di essere un vescovo modellato sugli stampi oleografici o stereotipi, o addirittura mitizzati e stilizzati entro cornici barocche, come forse nel lontano 1952 I’avrebbero desiderato i suoi devoti fedeli di Monopoli che alla fine, in un coro unanime gli vollero un bene dell’anima.
Fin d’allora (e per sempre) credo che uno degli impegni più precisi di Mons. Ferrari sia stata la decantazione e la demitizzazione della figura del vescovo, operata in se stesso, come in corpore vili, con ogni rischio e pericolo, ma con l’intento di offrirsi alla sua gente vescovo- come -uomo, spoglio di paludamenti e di pomposità. Ecco perché nel giorno della sua ordinazione episcopale, quando di solito si fanno le opzioni fondamentali, ricordo che al levar delle mense dopo un pranzo che si era prolungato fino all’ora dei vespri, non per l’abbondanza delle vivande ma per i lunghi discorsi di circostanza, il vescovo novello, con un senso estremo della misura, nel silenzio attento di tutti i commensali, stracciò dalla memoria il discorsetto che aveva approntato tra le pieghe dell’anima e ringraziò con una sola parola: amen.
In questa uscita tempestiva e perentoria, intelligente e arguta e forse un po’ spregiudicata c’era già “in nuce”, anche per il futuro, la libertà dell’uomo che non si lascia avviluppare e condizionare da nessuno. E sempre in quella circostanza, ai chierici che dopo il pranzo gli si erano stretti attorno chiedendogli di baciargli l’anello, con molta immediatezza il loro ex-padre-spirituale se lo sfilò adagio adagio dal dito e lo porse sorridendo a quei simpatici importuni. Evidentemente per lui, (come per sant’Agostino) essere vescovo voleva dire continuare tuttavia ad essere uomo, vale a dire-essere estremamente se stesso e possibilmente il meglio di se stesso.
Del resto, per quanto ricordo, il leit-motiv della sua predicazione al seminario di Stazzano dove l’ebbi direttore spirituale nel curriculum ginnasiale, come anche in seguito a Tortona, fu la famosa frase della teologia tomistica: la soprannatura non distrugge la natura, ma la perfeziona. Che è come dire: più faccio spazio al sacerdote (e al vescovo) che è in me, e più ritrovo pienamente me stesso! Ecco perché, salvo nelle cerimonie ufficiali, non dico oggi che è diventato di moda, ma già venticinque anni fa mons. Ferrari abitualmente vestiva di nero e non portava insegne e contrassegni. Anche il clergyman gli riuscì subito congeniale per la sua praticità specialmente in viaggio, salvo tornare a rivestirsi da prete quando l’uniformità con l’ambiente o l’attenzione alla demopsicologia lo consigliavano in questo senso.
Tra le passioni moderne la macchina veloce e l’aereo superveloce hanno fatto di lui un vescovo dinamico e uno spirito onnipresente e cosmopolita. Di qui le automobili-sprint, e i voli in India e in Palestina, sulle orme del Papa in un’epoca in cui il tempo ci sfugge di mano e le distanze anche spaziali si sono fatte estremamente ravvicinate, la macchina veloce consente spesso a mons. Ferrari di assolvere con puntualità e talora senza autista agli impegni anche molteplici del suo ministero; come gli ha permesso in passato, di tornare ogni tanto da Monopoli a Novi e a Fresonara in una sola giornata (-e allora non c’erano le autostrade) per rivedere i suoi; o di salire alla Selva di Fasano tra gli olivi secolari, per scendere poi da Altamura a Noci nel monastero dei benedettini a ossigenarsi i polmoni e l’anima. Questo bisogno di immergersi tutto solo con la natura e con Dio si ripete anche a Mantova, dove è dato di vedere il vescovo camminare lungo la riva del Mincio, con passo sciolto e spedito e con gli occhi mobili e vivi a cogliere (ultimo figlio di Virgilio) l’incanto dei paesaggi agresti o il ritorno ai ricordi della sua fanciullezza tra i contadini.
I suoi viaggi puntuali all’estero, in sintonia e in sincronia con gli spostamenti ecumenici della chiesa che cerca spazi e approcci ovunque è possibile un servizio di fratellanza e di evangelizzazione e di promozione umana, sono, penso, per Mons. Ferrari un segno del suo desiderio mai pago di farsi esperto in umanità. Di qui poi, tornato a casa, il raccordo pensoso con i problemi pastorali della diocesi, visti nell’orizzonte più ampio del mondo e conseguentemente ripensati e ridimensionati in ordine di priorità e con le scelte (oltre ogni pretestuosa e demagogica contestazione) di ciò che è possibile in concreto, vale a dire di ciò che è fattibile tra la sua gente e di ciò che è duraturo.
Di qui la lenta partenza (perché meditata e ponderata); di qui la concatenazione di quella pastorale organica e programmatica che trova nella settimana di fine agosto di ogni anno a Mantova il suo momento originante e fontale in comunione con tutto il clero e con i rappresentanti di tutta la chiesa locale. Indubbiamente mons. Ferrari è più amico del silenzio che della demagogia; della lunga maturazione che non dell’ improvvisazione; del filtro critico e pensoso che lo fa poi provveduto e deciso nel momento delle risoluzioni.
Penso che a nessuno dei suoi sacerdoti può essere sfuggito “il cuor ch’egli ebbe” e che continua ad avere per i seminari, perché al seminario egli ha consacrato tutta la sua vita di sacerdote fino alla sua elezione a vescovo.
Quando mi accade di tornare a Stazzano nel piccolo seminario ora abbandonato e deserto e rievoco i miei anni del ginnasio, la figura del mio direttore spirituale mi ricompare immediatamente dinnanzi, con la sua presenza amica acquietante e rassicurante, con le sue uscite argute e disincantanti, coi suoi rientri seri e pacati entro l’alveo delle meditazioni che ci dettava ogni giorno con parola sempre attraente e convincente, perché sempre nuova e sempre persuasiva. Il dono della parola “centrata” nel cuore della liturgia, e della parola giusta al momento giusto nei colloqui confidenziali, espressa magari dopo lunghe pause di silenzio e con un affettuoso sberleffo di congedo, è, a mio avviso, un momento e un atteggiamento tipico della sua originale espressività.
Oltre essere indice di un amore profondo che ha solo il torto di essere riservato e controllato e pudico, ma che all’occasione sa trovare puntualmente il suo senso comunicativo con una presenza improvvisa, o con una telefonata e comunque con una testimonianza sollecita e generosa, che te lo rendono, proprio per questo, profondamente amabile e caro.
di don Teo Marchini sacerdote tortonese
“La Cittadella” 12 Giugno 1977