Venerdì 24 Aprile 1970 ore 9 seminario vescovile
Mons. Carlo Ferrari in una casa parrocchiale
L‘obbedienza per essere cristiana, deve essere vista nella luce della fede e vivificata dall’amore. Adesso vi faccio una presentazione dell’obbedienza che può lasciare un certo senso di vago perché, come il solito è molto dottrinale. Lascio poi a voi di formulare le deduzioni in modo da entrare nel concreto di questoargomento. Parto da una certa definizione dell’obbedienza in senso cristiano. Non vado a cercare nell’ambito psicologico o altrove. Prendo l’ambito della fede.
L’obbedienza, secondo l’insegnamento della rivelazione, è una libera adesione al disegno di Dio ancora nascosto nel mistero ma proposto dalla sua parola e accolto dalla fede, che dà la possibilità all’uomo di fare della sua vita un servizio a Dio e di entrare nella comunione dell’esistenza di Dio.
Qui vedete si abbandona – non perché non sia vero – ogni concetto filosofico di Dio assoluto, della creatura contingente e quindi della dipendenza della creatura dal suo creatore – ripeto – non perché questo non sia vero ma, la rivelazione ci porta in un ambito infinitamente superiore di rapporti con Dio.
La rivelazione, Dio, ce lo propone non soltanto come nostro creatore, cioè come una potenza infinita che trae dal nulla tutte le cose, ma ci propone soprattutto un Amore infinito che comunica qualcosa di se stesso ad ogni essere esistente. Perciò si entra in un altro ambito, che è appunto l’ambito della fede. E questo è il primo aspetto dell’obbedienza cristiana che ci deve interessare. Non si giustifica l’obbedienza, come vedremo, se non c’è una motivazione di fede, perciò è essenzialeper intendere e praticare l’obbedienza, di mantenersi in quest’ambito dove si muove Dio e dove siamo chiamati a muoverci noi con tutti gli atti della nostra vita, della nostra persona.
Prima di tutto è l’ambito dove si muove Dio.
La cosa unica, veramente caratteristica del cristianesimo è Dio che va verso l’uomo. In una concezione naturalistica della religione è l’uomo che va in cerca di Dio, invece nella concezione cristiana della religione è Dio che va in cerca dell’uomo. Dio va in cerca dell’uomo per stabilire dei rapporti con lui. Di sua libera iniziativa! Non è, che sia spinto da una necessità, da un interesse, da qualche cosa d’altro che non sia Lui che liberamente si muove.
L’impulso che muove la sua iniziativa ad andare, – di sua iniziativa – verso l’uomo è il suo amore. Allora tutto ciò che esiste, e particolarmente le nostre persone, è un dono gratuito di Dio. Se Dio non è obbligato, se Dio non è spinto da una necessità, ciò che egli fa è frutto del suo amore di cui nessun ha diritto, perciò qualunque suo gesto, qualunque cosa lui compia è sempre un dono gratuito.
Qui si spiega, qui ha la radice la povertà di cui si parla qualche volta a proposito e qualche altra volta meno a proposito. Tutto è dono gratuito di Dio. Questo dono gratuito di Dio va infinitamente al di là, ineffabilmente al di là, in un modo indicibile, inconcepibile e inesprimibile al di là di qualsiasi pensiero, di qualsiasi desiderio. Il dono di Dio supera tutto quello che noi potremmo aspettarci da lui. Perciò il suo dono è una realtà ineffabile e inesprimibile.
Noi, quando pensiamo a Dio, e soprattutto quando vogliamo stabilire dei rapporti con lui, dobbiamo sempre difenderci da un certo antropoformismo cioè, di concepirlo come noi. Si, come qualche cosa di molto grande e infinita ma che assomiglia a noi. E non diciamo niente! Qualunque pensiero noi possiamo avere, qualunque categoria noi possiamo usare per esprimere la realtà di Dio, non dicono niente. Dio rimane sempre infinitamente “al di là” e “al di sopra” e quindi nel mistero. Rimane nel mistero non solo perché “realtà nascosta”, ma perché qualunque limite, qualunque profondità possa raggiungere il nostro pensiero anche illuminato dalla fede, Iddio è sempre qualche cosa di infinitamente distinto.
Anche parlando del suo amore, parlando di ciò che produce il suo amore, cioè di quella realtà che siamo noi, e di quelle realtà di cui ci fa dono, noi non arriveremo mai a comprendere quanto queste sono “ricche” in tutti i sensi. Una misura della libera iniziativa di Dio, e del dono gratuito del suo amore, e della ineffabile realtà che egli ci comunica, ci è data da nostro Signore Gesù Cristo: il Figlio di Dio, fatto uomo, dono del Padre: “così Dio ha amato il mondo da dare il suo figliolo unigenito”.
Si fa presto a stabilire dei paragoni. Un padre che per salvare tutti gli altri figli ne sacrifica uno, fa una cosa umanamente eroica ma il dono che il Padre ci fa del Figlio suo supera infinitamente il sentimento che ci può essere in questa generosità sovrumana di un padre che faccia dono del proprio figlio. Questa è la misura del dono di Dio come ci è assicurato dalla rivelazione, sia nel fatto dell’incarnazione del Figlio e della sua morte in croce, sia perché esplicitamente il vangelo, in S. Giovanni , ci dice: “così Iddio ha amato il mondo da dare il suo figlio unigenito”.
Gesù Cristo, a sua volta, diventa un dono che si dona. San Paolo esprime questa realtà: “dilexit me et traditit semetipsum pro me”: ha amato me e ha dato se stesso per me. Questo è vero in un modo sconvolgente. Fin tanto che si parla in un modo astratto si dice: l’amore di Dio arriva fino a dare il suo figliolo per mondo. Gesù Cristo arriva fino al punto di dare se stesso per “me”! Ma non si pensa sufficientemente al rapporto strettamente personale che esiste tra Dio e me! Noi quando ci mettiamo di fronte a Dio, ci mettiamo come “uno dei tanti” che sono esistiti, che esistono ed esisteranno ancora. Ma, quando un rapporto è personale, è totalmente rivolto alla persona individualmente considerata come se gli altri non esistessero, perché tutto quello che uno è, tutto quello che uno fa è rivolto in un modo unico ed esclusivo a quell’altra persona.
Vediamo i nostri rapporti con i genitori, con i nostri fratelli e sorelle. Possiamo essere figli di uno stesso padre ma non è detto che il rapporto di ciascuno sia uguale a quello degli altri fratelli. Sostanzialmente sì, ma poi c’è una differenziazione che rende il mio rapporto unico, molto distinto. Quando questa realtà del rapporto personale noi la trasferiamo in Dio, è qualche cosa che supera ogni nostra capacità di pensare e diventa unica. Non è quindi esagerato quello che la rivelazione ci fa intravedere e che l’esperienza particolarmente dei santi esprime con l’affermazione: “Dio avrebbe fatto tutto quello che ha fatto anche se al mondo ci fossi stato soltanto io”.
Ecco il personalismo cristiano come va inteso, è quindi Gesù Cristo che muore per me, Gesù Cristo che dona tutto se stesso per me. Questo è l’ambito della fede. In questo ambito della fede noi troviamo un disegno di Dio. Dio vuole raggiungere uno scopo particolare: ci vuole introdurre nella comunione di vita con sé. La via, il mezzo attraverso il quale Dio vuole raggiungere questo traguardo è: costituirsi una famiglia ed essere padre in mezzo a una moltitudine di figli. Questo è il disegno di Dio che la rivelazione esprime in tanti modi.
L’espressione ultima nella storia della rivelazione è di costituire tutti i suoi figli, membri della sua chiesa, come coloro che si adunano nel suo nome e nel suo amore. La realtà della chiesa è espressa in tante figure e una di queste é il popolo di Dio.
Dio si costituisce un popolo suo. Sapete la storia dalla costituzione di questo popolo. Sapete che i preamboli della costituzione di questo popolo vanno dalla creazione ai patriarchi fino a Mosè. Sapete che questo popolo raggiungerà la pienezza della sua realtà costitutiva con l’entrata nel mondo di Gesù Cristo. Sapete che con la Pasqua di Gesù Cristo si compie il grande passaggio dalla schiavitù del peccato, dalla dispersione che ha operato il peccato, all’unificazione in nostro Signore Gesù Cristo con il suo sacrificio, con la sua risurrezione e ascensione al cielo.
Cristo è costituito Capo del suo corpo che è la Chiesa e noi siamo le membra di questo corpo. Le membra nel corpo, rispetto al capo, sono quelle che ricevono la vita dal capo, sono quelle sottoposte al Capo, sono quelle che dipendono dal capo. Ma in questa immagine biblica è necessario tenere presente non tanto la funzione di Cristo capo quanto la reciprocità delle membra: una non può stare senza dell’altra; una è espressamente collegata con tutte le altre, ognuna è in funzione di tutte le altre, come tutte sono in funzione di una in particolare; quindi c’è questa complementarietà vitale: una non vive senza le altre e tutte vivono ricevendo qualche cosa da ciascuna di esse.
E’ in questo senso che viene a giustificarsi l’obbedienza: ognuno al proprio posto copie la propria funzione per il bene di tutto il corpo.
Altra immagine che esprime il disegno di Dio è il tempio: il tempio di un unico Spirito costituito da pietre viventi. Le pietre, in un edificio non sono ammucchiate le une sopra le altre ma sono disposte secondo un disegno e soprattutto sono legate le une con le altre. Anche qui il legame è la radice dell’obbedienza.
Ripeto ancora: nella pratica della obbedienza cristiana la visione della fede è estremamente importante, è qualche cosa che non solo non si può ignorare, ma non si può sostituire. Inoltre – lo abbiamo già detto- l’obbedienza si giustifica unicamente nell’amore.
Aderire al piano di Dio che vuole introdurci nella comunione di vita con sé, per il grande amore che ci porta, non può essere giustificato se non dall’amore stesso. Uno può obbedire per molti motivi: di ordine, di convinzioni sociali o familiari, eccetera, ma la giustificazione che è sempre valida in ogni circostanza è soltanto quella dell’amore.
Qui dobbiamo intenderci bene: non dobbiamo mettere in primo piano il nostro atto di adesione al disegno di Dio per amore, come un atto di amore. Il nostro atto di amore presuppone ed è giustificato, ed è motivato anche dal punto di vista razionale, dall’amore di Dio: prima dall’amore di Dio e poi dal nostro amore.
Alle volte la vita cristiana è concepita, sotto l’aspetto ascetico, come sforzo di fare tutto per amore di Dio. E’ vero. Tutti noi dobbiamo fare tutto per amore di Dio, ma ad una condizione, se non vogliamo essere degli irrazionali, che questo nostro amore abbia non solo la contropartita -sarebbe interessato – ma abbia la sua ragione, la radice del suo essere che è appunto l’amore di Dio.
S. Giovanni lo esprime nelle lettere dicendo “diligamus Deum quoniam ipse dilexit nos”: amiamo Dio perché lui per primo ci ha amato.
Non può nascere un amore in una creatura se non ha un origine, se non ha una sorgente che sia “prima” e che sia inesauribile perché, altrimenti, l’amore umano si esaurisce sempre.
Qualunque amore umano è destinato ad esaurirsi, qualunque amore umano e particolarmente l’amore che si esprime nella obbedienza, che molte volte vuole dire rinnegamento di se stesso, non può sostenersi se non c’è questo fondamento dell’amore che Dio ha per noi.
Quindi è soltanto la fede nell’amore di Dio, è soltanto questa sicurezza che si acquista a mano a mano che ci rende possibile l’amore per Dio e quindi l’adesione al suo piano.
Qui è molto importante tenere presente che non è sufficiente avere, con i dati della rivelazione, la sicurezza che Dio ci ama. L’amore è qualche cosa di concreto, di esistenziale. Bisogna avere una certa esperienza dell’amore che Dio porta a noi. Stiamo attenti a non appoggiarci a delle esperienze sensibili, che hanno la loro ridondanza nella nostra sensibilità.
Ci possono essere esperienze autentiche anche in questo campo, ma facilmente può essere frutto di entusiasmo, di esuberanza di sentimento, di un’euforia particolare in cui uno si trova in un momento della sua vita spirituale.
E’ attraverso un lungo impegno di contatto con Dio che si realizza specificamente nella preghiera che uno può arrivare a questo senso di sicurezza. San Paolo ci parla di una testimonianza che lo Spirito ci dà che Dio è nostro Padre. E’ lo Spirito Santo che produce in noi il senso di sicurezza che Dio è nostro Padre.
Guardate che, nel cammino della vita spirituale viene un momento critico. Non tutte le esperienze umane sono uguali. Ogni esperienza è veramente personale ma, più o meno, può capitare di sentire un bisogno estremo di risolvere il problema dell’amore. Ci sono dei periodi in cui questo bisogno è veramente un problema. Allora sorgono i contrasti, le crisi, le difficoltà.
Queste difficoltà come si risolvono? Come si superano queste crisi? Come si attutiscono questi contrasti? Con una coraggiosa costanza nella fedeltà alla propria vita spirituale, fino al giorno in cui si capisce che l’amore di Dio non si contrappone all’amore umano e non esclude l’amore umano.
Sono stato direttore spirituale per molti anni. Certe crisi di coloro che si prefiggono ostinatamente di essere totalmente di Dio, di amare Dio in un modo esclusivo…! Intanto non è giusto concepire l’amore di Dio come un amore esclusivo. Dio vuole che noi lo amiamo ma, vuole che amando lui, amiamo tutte le sue creature. Tanto è vero che il nostro amore per le creature deve essere un amore che parte da lui, che non va alla creatura per se stessa. E’ un po’ complicato da dire, comunque… E’ vero che il nostro amore di creature, di persone che vogliono consacrarsi a Dio, per essere autentico, deve nascere dall’amore che portiamo a lui e per l’amore che portiamo a lui vogliamo bene a tutti in un modo indiviso.
Non dico: in un modo indistinto, perché se nostro Signore Gesù Cristo ha avuto le sue preferenze, ha avuto le sue amicizie, anche noi siamo autorizzati ad avere le nostre preferenze e le nostre amicizie. Però, prima che queste diventino proprio chiare, ci vuole anche del tempo. Non può avvenire da un giorno all’altro a meno che non si sia favoriti dal colpo di grazia che spazzi via tutti i problemi. Normalmente bisogna viverli faticosamente, bisogna entrare in crisi.
Non credo e non ho mai insegnato, che si devono affrontare i problemi di petto e uscirne sanguinolenti. No. Il Signore è più buono. A noi tocca la fedeltà a Dio, il desiderio di fedeltà a lui, il compiere tutti quei sacrifici, quei piccoli distacchi che sono indispensabili, per essere fedeli al suo amore, il vigilare sulla libertà del nostro cuore.
Il nostro cuore i nostri sentimenti, i nostri affetti non siano mai condizionati da niente e da nessuno. Questa è una grazia che consegue al nostro sforzo di mantenerci in questa disposizione di animo. Qui è il momento della grande maturazione della nostra personalità cristiana, qui è anche il momento della maturazione della vocazione. Ripeto e insisto: andare sempre a cercare le manifestazioni dell’amore di Dio nell’Antico e nel Nuovo Testamento e rendersi familiare questo tema dell’amore di Dio.
L’esperienza che può essere considerata straordinaria, che vale per la chiesa, che ritengo profetica per i tempi nostri, è quella di S. Teresa del Bambino Gesù. Di questa santa se n’è fatta, molto, una caricatura, come è capitato in altri tempi per il nostro S. Luigi. La sua esperienza, per i tempi moderni, ha importanza straordinaria ed ha anticipato molte cose che poi sono state maturate nel concilio: il primato dell’amore di Dio, la paternità di Dio che giunge a quella espressione: “io sono certa che se diventassi la più grande peccatrice che sia mai esistita nel mondo Iddio mi amerebbe come sono sicura che mi ama in questo momento”. Questo è amore di Dio che non dipende dalla nostra bontà, dai nostri meriti, ma che è Lui, al quale noi possiamo aprirci ma al quale possiamo anche chiuderci.
Non è da trascurare, nelle manifestazione dell’amore di Dio per noi un aspetto particolare. Abbiamo già detto che, Dio manifesta il suo amore donandoci il Figlio suo. Gesù Cristo si dona a noi con il suo sacrificio: “factus aboediens”. E’ nell’obbedienza al Padre che egli manifesta il suo amore. Poiché il Padre ama egli si sottomette a tutta la volontà del Padre per raggiungere la manifestazione più alta dell’amore col dono di se stesso. Il dono di se stesso è donazione, nei nostri riguardi, è sottomissione al Padre. S. Paolo lo esprime nella lettera i filippesi: “essendo Figlio di Dio non è stato arbitrio suo quello di essere e di ritenersi simile a Dio, ma ha voluto annientare se stesso facendosi uomo, e si è umiliato fino alla morte di croce.
Gesù questo lo esprime in termini diretti, personali, concreti nel grande momento della decisione e della scelta: “non mea sed vuluntas tua fiat”. E’ un atto supremo di obbedienza. E’ ciò che Paolo nella lettera agli ebrei esprime con le parole: Cristo entrando nel mondo dice al Padre non hai più voluto ostie ed olocausti, mi hai dato un corpo, ecco che io vengo, Padre, per fare la tua volontà. Quindi Gesù Cristo pone il suo amore per noi come l’esemplare massimo della obbedienza, ma della obbedienza per amore verso il Padre che è sottomissione per amore verso di noi, che è donazione di tutto se stesso.
L’obbedienza per essere cristiana, deve essere vista nella luce della fede e vivificata dall’amore.
OM 283 Chierici 70 – Pompilio, Venerdì 24 Aprile 1970, ore 9 -propedeutica