educare i nostri rapporti con Dio ed
educare i nostri rapporti con i fratelli
è la stessa cosa
Dice Gesù: il Regno dei cieli è simile al lievito che una donna prese e nascose in tre misure di farina finché tutta la massa fermentò” (Lc. 13,20-21), ancora:
Il Regno dei cieli è simile ad un chicco di senape, che un uomo prende e semina nel suo campo. E’ il più piccolo di tutti semi, ma quando germoglia diventa un grande arbusto e poi un albero, così che gli uccelli possono farvi il loro nido” (Mt. 13,31-32) ancora:
“Il Regno di Dio è simile alla vicenda di un uomo che getta il seme nella terra. Che egli dorma o vegli, di giorno e di notte, il seme germoglia e cresce, ed egli non sa come”. (MC . 4,26-27).
Miei cari direi quasi, trepidiamo di fronte a queste poche ore che ci rimangono per il nostro incontro con il Signore che ci cerca, che ci potrebbe raggiungere nel modo più impensato proprio in questi ultimi istanti, trepidiamo per tutto quello che il Signore ci ha fatto comprendere e per quello che vuole fare comprendere ai nostri fratelli per mezzo del nostro ministero.
Quella della vita cristiana, senza nessuna retorica e senza nessuna esagerazione, è l’avventura più impensata e più gravida di conseguenze, nella quale uno può essere coinvolto. Si tratta della paternità di Dio da realizzare quotidianamente nella nostra figliolanza, perché Dio, per ognuno di noi, intanto può essere Padre in quanto noi accettiamo di essere i suoi figli.
Questo dono di Dio è come il seme, è come un lievito. Il seme va seminato, va curato perché sviluppandosi cresca bene e, se diventa albero, diventi albero diritto. Il lievito non può rimanere inerte, ha bisogno di essere elaborato insieme alla farina per fare pasta, perché diventi pane. Questo è per noi personalmente e per i nostri fratelli.
Dedicheremo questi ultimi nostri incontri al terzo dei nostri ministeri, il ministero della grazia, il ministero che oggi si dice molto opportunamente e appropriatamente ministero della carità, dove la carità verso i fratelli, da parte nostra, si esprime nel modo più concreto, più impegnato e più faticoso. Un certo concetto giuridico del compito di pascere gli agnelli, di guidare le anime, addirittura di governare una comunità deve essere reinterpretato alla luce della realtà rivelata, alla luce di quello che ci dice Dio, di quello che, in particolare, ci dice nostro Signore Gesù Cristo.
Abbiamo già accennato come il nostro compito anche nel presiedere le azioni liturgiche è quello di fare l’unità, non tanto intorno alla nostra persona se non in quanto è segno e strumento della presenza di nostro Signore Gesù Cristo. E sappiamo a questo proposito che dobbiamo prendere l’atteggiamento di Giovanni: “illum oportet crescere, nos autem minui”, noi dobbiamo scomparire il più possibile, perché emerga nostro Signore Gesù Cristo.
Questo ministero è un ministero di grazia. Indubbiamente è anche un ministero di autorità, in quanto esprime in mezzo ai nostri fratelli la presenza di Cristo Capo. Ma Cristo è capo, non tanto perché vuole dominare e sottomettere, ma in quanto vuole incorporare, assumere, prendere in sé, prendere sopra di sé tutto il nostro essere, l’intimo della nostra persona e il peso della nostra stessa vita. Cristo è capo in quanto è sorgente della nostra vita nuova. Cristo é capo in quanto ci fa partecipare ad un’unica natura divina e ci comunica, attraverso lo Spirito, un’unica capacità di animazione e quindi di azione.
Noi deriviamo da Lui nel senso della vita che, attraverso Lui e per mezzo di Lui, noi riceviamo dal Padre. E’ un concetto ben diverso di autorità, da quello che si concepisce comunemente nell’ordine civile, nell’ordine giuridico e un in tutti i campi. Non per niente nostro Signore Gesù Cristo ha detto di non essere venuto per essere servito, ma per servire e ha raccomandato agli Apostoli e ai discepoli di non fare come coloro che signoreggiano. E’ una raccomandazione che Pietro riprenderà per i presbiteri, per gli anziani. E’ un atteggiamento che Gesù esprimerà nel modo più profetico e impensato, col gesto proprio degli schiavi, inginocchiandosi dinanzi ai suoi apostoli, per lavare loro i piedi. Dopo questo gesto, Gesù Cristo dice: “Exemplum dedi vobis”. Voi mi chiamate maestro e signore e lo sono. Se io, maestro e signore ho lavato i piedi a voi, voi dovete lavarvi i piedi vicendevolmente. Ecco l’autorità!
Oggi si dice tanto correntemente: l’autorità è servizio, ma bisogna intendere anche il senso di questo servizio. Il nostro è un servizio di grazia, è il metterci a disposizione di nostro Signore Gesù Cristo Capo, perché possa far fluire nei credenti in Lui e che ci sono affidati, la vita soprannaturale. E’ un ministero di grazia è un servizio attraverso cui si comunica la grazia. Noi non abbiamo soltanto la grazia di comandare nel senso di essere illuminati su cosa comandare. Noi abbiamo la grazia che, se siamo fedeli a nostro Signore Gesù Cristo, se abbiamo l’umiltà di essere fedeli interpreti della volontà di Dio, quando noi esprimiamo la sua volontà, questo nostro esprimere la sua volontà è accompagnato da una grazia, come è accompagnato dalla grazia un gesto sacramentale.
Noi veramente aiutiamo a crescere non in forza di un’autorità concepita in qualche modo, ma in virtù della forza che Dio dispiega in Gesù Cristo nello Spirito per la nostra salvezza, per la salvezza dei fratelli. Questa forza, questa grazia ha un significato che raggiunge le persone, proprio in quanto sono persone e in quanto sono persone che debbono attuare i loro rapporti di esistenza, con Dio e con i fratelli.
Il documento conciliare sui Presbiteri, dopo aver detto del loro dovere di predicare la Parola del Signore e di santificare gli uomini con i mezzi della grazia, dice che debbono essere dei “formatori di coscienze”. Io spero di interpretare bene, almeno globalmente, il significato di questo compito che è proprio del presbitero e lo è tanto più del Vescovo. Noi dobbiamo essere educatori di coscienze.
Noi dobbiamo essere lo strumento di cui si serve lo Spirito Santo per sensibilizzare le coscienze nel senso della realtà nuova dell’essere personale di ciascuno. Lo Spirito Santo rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio (Rom. 8,15). Noi dobbiamo essere i ministri di questa azione che lo Spirito Santo compie nell’intimo dei cuori, per dare la coscienza del dono di Dio. Ecco, l’educazione della coscienza non è semplicemente un fatto pedagogico, un fatto di ordine psicologico o di altro genere, è che lo Spirito Santo illumini la coscienza di ogni persona di una certezza quasi sperimentale, di essere figlio di Dio.
Dobbiamo essere educatori delle coscienze in un senso profondo, radicale, quindi il nostro compito oltre a comportare l’insegnamento di tutto ciò che il Signore ci ha comandato di compiere, presuppone l’insegnamento di ciò che siamo, di ciò che ognuno di noi è in conseguenza della salvezza, in conseguenza del beneplacito della sovrana libertà dell’amore di dio che ci ha fatto figli nel suo Figlio. Non ci può essere un’educazione cristiana della coscienza, un’educazione morale della coscienza, se non c’è questo fondamento.
Senza questo fondamento rischieremo sempre di andare a finire in un certo moralismo, soprattutto oggi che, per via di una certa letteratura, ci si appella al giudizio della propria coscienza nei confronti della Parola di Dio, ci si appella al giudizio della propria coscienza nei confronti del magistero, ci si appella al giudizio della propria coscienza nei confronti di un’indicazione data dai superiori, intesi come ho detto.
Va bene, ed è giusto dire: la coscienza rettamente illuminata, ma non deve essere illuminata semplicemente su un particolare del nostro comportamento, perché deve essere illuminata sulla radice da cui promana ogni espressione del nostro comportamento. Se ogni espressione del nostro comportamento corrisponde al nostro essere nuovo, al nostro essere nato da Dio, a questo nostro essere di figli di Dio, allora ci sarà un parametro, un punto di riferimento per giudicare rettamente. Altrimenti ci saranno degli atti staccati, non organici, quindi non vitali, non costitutivi di una vera personalità cristiana.
Educatori e quindi coltivatori di quel seme di cui abbiamo parlato: ecco qui il senso di trepidazione.
Quando voi amministrate un santo Battesimo ponete in quella piccola creatura il seme di Dio: Dio stesso.
Quando il Vescovo impone le mani perché lo Spirito Santo scenda su di loro, essi divengono portatori dello Spirito: lo Spirito che i profeti hanno assicurato che sarebbe stato dato nei tempi nuovi, lo Spirito che avrebbe costituito nuove tutte le cose, lo Spirito che avrebbe costituito un nuovo Israele, un nuovo tempio, lo Spirito Santo alla cui venuta Gesù prepara con tanta cura gli Apostoli, Lo Spirito che inizia la sua missione con tanta imponenza, e tanta solennità – possiamo dire con tanto fracasso- ma che pure è il personaggio più nascosto, più misterioso, più intimo.
Attraverso il nostro ministero noi diamo questo Spirito. Attraverso il nostro ministero è dato a loro questo Spirito e divengono portatori dello Spirito. Il Vescovo nella celebrazione della cresima quando impone le mani sul capo dei battezzati cambia il destino delle persone. Come del resto, è per il Battesimo. Se il destino delle persone cambia, possiamo abbandonare a se stesse queste persone?
Penso alla Chiesa santa di Dio, penso a quel problema, affrontato non si sa perché, del ridimensionamento delle diocesi. Pensate al Vescovo che impone le mani ai candidati al sacerdozio e che poi per la vastità della diocesi non li può seguire, pensate al vescovo che ha cambiato il destino della loro esistenza e poi li lascia andare per loro conto perché fisicamente non può essere con loro! Che cose tremende!
Ognuno di noi lo pensi per i propri battezzati, per i propri cresimati che, se anche sono cresimati dal Vescovo, sono affidati alle vostre cure.
Ognuno di noi pensi come dobbiamo essere pastori in mezzo al nostro gregge, come dobbiamo essere servi di Cristo, come dobbiamo essere servi dello Spirito perché il dono di Dio non sia soltanto custodito.
Si diceva: stare in grazia di Dio. No! La grazia di Dio, i doni di Dio sono vita. Il dono di Dio è qualche cosa che si muove e si sviluppa ed è destinato a crescere. Niente di tenero e di delicato anche se divino cresce e si sviluppa senza avere la cura paterna e materna. Dio non cambia l’ordine delle cose, lo trasferisce ad un livello più alto, lo rende più responsabile ed anche più efficace. L’efficacia della nostra paternità e maternità soprannaturale è qualche cosa di indicibile quando noi siamo fedeli servitori dei nostri fratelli e docili strumenti nelle mani di Dio.
Educare la persona è aiutarla a sviluppare i propri rapporti personali con Dio e con i fratelli.
Che cosa vuole dire sviluppare i rapporti personali? Abbiamo ricordato più di una volta che il modello della nostra esistenza e la sorgente da cui deriva la nostra esistenza di cristiani è il mistero trinitario, dove la persona del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo si attuano infinitamente. Abbiamo già detto che la nostra persona è configurata alla persona del Figlio di Dio.
Il Figlio che cosa è nei confronti del Padre? Il Figlio è colui che restituisce tutto al Padre, è Colui che ha tutto in comune con il Padre: “omnia mea tua sunt” e allora, la nostra persona nei confronti di Dio è accoglimento di tutti i suoi doni e restituzione dei doni. È essere aperti ad accogliere tutti i doni di Dio, è essere disposti ad accogliere Dio che in un atteggiamento di amore paterno, continuamente crea nel senso di portare a compimento ciò che ha iniziato, di rendere perfetto ciò che ha fatto.
L’atteggiamento dell’ascolto della parola, la preghiera, è accoglienza di Dio, dei doni di Dio, della paternità di Dio. Il Canone Romano, ma anche molte altre preghiere del nuovo messale, esprimono questo concetto: noi offriamo a Dio, noi ci offriamo a Dio, in quanto siamo stati dati e donati: “de tuis donis ac datis offerimus”; per restituirci a Dio, mentre Dio dice: “filius meus es tu; ego hodie genui te” Noi potremmo dire: “filius tuus sum ego” in quanto vengo a te, vado al padre. Dovrebbe essere il movimento della nostra vita religiosa, della nostra vita spirituale, per giungere ad una comunione.
Se il Padre ci ha dato il Figlio suo, come non ci darà ogni altro bene? Tutto ciò che è del Padre è nostro, quindi é nostro il comunicare a una stessa vita: comunicare in un modo misterioso alla stessa natura di Dio, alla stessa vita di Dio, alla stessa esistenza di Dio. Educare ai nostri rapporti con Dio ed educare ai nostri rapporti con i fratelli, sono la stessa cosa. Guardate che nei confronti dei nostri fratelli siamo padre, madre, fratelli, sorelle. Siamo tutto. Tutto riceviamo. Nei confronti di Dio dobbiamo chiederci: che cosa ho che non abbia ricevuto. Ma anche nei confronti degli uomini, nei confronti dei fratelli, è molto più quello che riceviamo di quello che diamo.
Pensiamo a quello che danno i genitori, a quello che danno gli altri membri della famiglia, a quello che danno i membri della comunità alle volte senza saperlo, altre volte loro malgrado e pensiamo in un senso molto più vasto a quello che danno tutti coloro che esistono, tutti coloro che troviamo nella nostra esistenza e nella creazione che sono doni di Dio. Quando poi i nostri rapporti si stringono, come noi dobbiamo coltivare questo atteggiamento di accoglienza!
Particolarmente nell’esercizio di questo ministero dobbiamo essere delle persone capaci di ascoltare, di accogliere, di accogliere bene, con rispetto, con delicatezza, con pazienza, sacrificando noi stessi, il nostro tempo, la nostra voglia di fare altre cose. Noi siamo dei grandi chiacchieroni, noi abbiamo la presunzione di sapere tutto, alle volte abbiamo la presunzione di aver già capito tutto e invece non abbiamo capito che una persona ha bisogno “di parlare”. In questo siamo tutti meridionali, che hanno bisogno di sfogarsi. Come lo dicono bene, adesso mi sono sfogato!
Si perde tempo? Ma perché Iddio ci ha dato il tempo? Perché formiamo la nostra e l’altrui persona. Ne viene di conseguenza, naturalmente, la donazione di noi stessi. Cristo che ci ha amato è Cristo si è donato.
Cristo è tutto del Padre e per essere tutto del Padre è tutto dei fratelli. Cristo non si appartiene. Il suo tempo, le sue energie, le sue capacità, tutte le invenzioni del suo amore fino donazione totale sono, nei nostri confronti, per fare comunione.
E’ qui dove la persona attua veramente se stesso comunicando con Dio e comunicando con i fratelli. Qui prende risalto il posto preminente della carità nella vita teologale e morale della persona cristiana.
OM 356 Loano 71