ed esperimentiamo la sua misericordia
Lettura di S.Paolo come nei giorni precedenti. Non c’é nessuna paura per il castigo che ci possa mettere sulla strada della conversione. Se la conversione e la penitenza si pongono al punto di incontro in cui si attua il piano di Dio cioè, tra la sua paternità e la nostra figliolanza -nella situazione in cui ci troviamo che é una condizione di peccato – é naturale che il discorso sulla conversione e la penitenza abbia uno svolgimento continuo
durante tutta la storia della salvezza tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento.
La predicazione dei profeti é insistente sul richiamo a riconoscere la propria colpa, sulla necessità del pentimento per il ritorno a Dio. La predicazione dei profeti é insistente al richiamo della preghiera perché Dio “si converta” cioè, ci mostri ancora la sua faccia, ci dimostri ancora di essere il nostro Dio, ci accolga ancora come suo popolo. Queste espressioni segnano tutta la storia del popolo di Israele intessuta di infedeltà e di misericordia di Dio.
Questa azione di Dio: di richiamo alla salvezza del suo popolo, di liberazione dalla schiavitù del peccato per il ritorno a Lui del suo popolo e di chiunque é chiamato alla fede, trova il suo culmine nella persona di nostro Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio in persona che si china sull’uomo e lo raggiunge in un modo mirabile, misterioso, sorprendente, impensabile. Nello stesso tempo l’uomo, in Gesù Cristo, ritorna a Dio. San Paolo ci dice che Dio fa del suo Figlio “il peccato” perché noi diventiamo “i giusti”. Gesù é costituito dal Padre come sorgente e forza del movimento del nostro ritorno a Dio.
Abbiamo appena terminato di leggere in quale modo Gesù é ritornato al Padre. E’ ritornato al Padre carico dei nostri peccati, annientato fino a prendere la forma di schiavo, e, diventato il peccato degli uomini, umiliò se stesso divenuto obbediente fino alla morte di croce. Noi che siamo diventati figli di Dio in nostro Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio morto in croce, nella fede dobbiamo accogliere Dio che ci viene incontro, che ci raggiunge con il suo amore e la sua misericordia, che manifesta la potenza del suo amore prendendoci così come siamo, immersi nel peccato, superando il peccato.
La conversione ha inizio a questo momento, cioè da quando noi scopriamo e riconosciamo l’amore di Dio ed esperimentiamo la sua misericordia. Non c’é nessuna paura per il castigo che ci possa mettere nel movimento del ritorno a Dio, nel movimento della conversione. E’ soltanto l’amore di Dio che ci muove a conversione. La conversione, questo grande impegno della vita cristiana, non può avere altra giustificazione o motivazione se non l’amore di Dio. La conversione non può essere operante in noi e diventare l’atteggiamento abituale della nostra vita se, non é chiara e non risplende la forza dell’amore di Dio per noi, la forza dell’amore di un padre per noi. Soltanto dalla condizione di sapere che Dio ci cerca con un amore infinito, noi ci convertiamo a Dio. Soltanto alla condizione di scoprire questo amore per noi , in noi nascerà la decisione di seguire nostro Signore Gesù Cristo che ritorna al Padre attraverso il mistero della croce. Soltanto a questa condizione si decide di essere i seguaci di nostro Signore Gesù Cristo. Chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce, tutti i giorni, e mi segua.Rinnegare se stessi, prendere la croce, seguire nostro Signore Gesù Cristo é il movimento, l’impegno, la fatica della conversione.
Partiamo dalla nostra situazione di peccato di idolatria perché nella nostra vita al posto di Dio, é entrata la creatura per se stessa e non più la creatura come segno della presenza di Dio nel mondo e di ciò che é Dio per noi. Deve operarsi necessariamente un distacco da questi idoli che abbiamo messo, in qualche misura, al posto di Dio e il distacco é doloroso.
Oggi si parla molto di povertà. Va intesa nel senso giusto. Non é questo il momento di definire un atteggiamento così complesso. C’é una povertà materiale nel senso evangelico quando c’é il distacco dalle cose, quando le cose non ci dominano, quando le cose non sono la preoccupazione principale della nostra vita. Ma dobbiamo tenere presente che l’attaccamento alle cose materiali é la forma più umiliante di idolatria. Nell’ordine della creazione, le cose stanno all’ultimo posto. In particolare noi sacerdoti, che dobbiamo esprimere qualche cosa di autentico della vita cristiana,dobbiamo essere preoccupati di tenere il cuore distaccato dalle cose materiali. E’ più avvilente l’attaccamento alle cose, -l’avarizia,- di quanto non siano avvilenti altri peccati gravi che squalificano il nostro sacerdozio dal momento che c’é un impegno di consacrazione a Dio. L’attaccamento alle cose é una idolatria più grave dell’attaccamento alle persone.
Il distacco deve raggiungere l’intimo di noi stessi. L’idolo intimo é il nostro io, che si intrapone tra noi e il nostro creatore e salvatore. L’orgoglio e la superbia con tutte le loro manifestazioni si possono insinuare in tanti modi nel nostro essere. E’ necessario un lungo calvario per metterci davanti a Dio con lealtà e riconoscere altrettanto lealmente che tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo ci viene da lui, tanto nell’ordine della creazione come nell’ordine della salvezza. Che cosa abbiamo che non abbiamo ricevuto da Dio? Tutto quello che siamo, lo siamo per il suo amore, per la sua sapienza e per la sua potenza operanti in noi. E non possiamo stabilire confronti con i nostri fratelli perché, se in noi fossero evidenti delle qualità superiori, queste importano responsabilità più grandi e non mettono al di sopra degli altri. Ci rendono più responsabili.
Il distacco importa sofferenza e ripugna alla nostra natura. La sofferenza é contraria alle esigenze della nostra persona. Gesù dinnanzi alla sofferenza si é comportato come é naturale per noi. Egli conosceva la sofferenza cui sarebbe andato incontro e, appunto perché la misurava, ha avuto ripugnanza, ha provato sconforto, ha sentito il bisogno sincero di pregare il Padre se fosse stato possibile allontanare il “calice”, per avere la forza di compiere fino in fondo non la sua ma la volontà del Padre. Non dobbiamo, quindi, nascondere a noi stessi che il convertici comporta abbracciare la croce e perciò portare sofferenze di ogni genere. Essere discepoli di nostro Signore Gesù Cristo importa essere coinvolti nella sorte che é toccata a lui.
Non sibi placuit. E’ un impegno assurdo se non ci fosse l’amore di Dio e noi non fossimo nella condizione di peccato. E noi, in tanto conosciamo l’amore di Dio, la paternità di Dio, in quanto accettiamo di entrare nel mistero del Figlio suo che é il mistero della croce, che é il mistero della penitenza che accompagna il nostro cammino verso Dio.
C’é un punto sul quale dobbiamo fermare la nostra attenzione. Non so se lo esprimerò esattamente. Cerchiamo di capire insieme. Noi siamo abituati ad identificare il peccato con i peccati, con certi atti che riteniamo contrari alla legge di Dio. Noi non abbiamo tolto il peccato dalla nostra vita fin tanto che non abbiamo raggiunto la misura di grazia, destinata a ciascuno di noi, per realizzare la nostra vocazione di figli di Dio. Il peccato non é tanto il fare qualche cosa di male. Il peccato é non fare il bene che siamo chiamati a compiere nella qualità di figli di Dio, quindi nel non realizzare noi stessi.
La parabola dei talenti é un punto dell’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo che sconvolge il nostro modo di vedere e le nostre misure della moralità. Chi ha ricevuto un talento e non lo spreca facendo il peccato, ma lo nasconde, é condannato perché non fa fruttificare il talento. Il talento, se così possiamo esprimerci, non é il non fare il male, ma é il non amare Dio con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze, é il non amare i fratelli come Gesù Cristo ci ha amati. La nostra conversione quindi, é lo sforzo della nostra penitenza per compiere il distacco da tutto ciò che non é, per realizzare tutto ciò che é.
La nostra penitenza deve avere un aspetto eminentemente positivo di adempimento della legge di Dio. Dio, essendo padre, non può volere che i suoi figli lo amino per forza e non può volere che amiamo per forza i fratelli come li ha amati Gesù Cristo. La morale che abbiamo studiato era la morale dei peccati e non dell’amore di Dio. Praticamente, si mettevano certi limiti all’adempimento dell’amore di Dio e del prossimo che si riducevano a non odiare Dio e a non odiare i fratelli. Era un insegnamento morale proprio negativo. Tutta la ricchezza dell’amore di Dio, della redenzione, del mistero della croce, tutta la grandezza di figli di Dio e la nostra vocazione ad amare i fratelli erano ridotti al niente. Questo ha influito nella formazione che abbiamo dato ai fratelli.
Certe iniziative di apostolato come le “missioni”, gli esercizi spirituali, i ritiri di perseveranza si riducevano al fine – interpretando molto male le parole di nostro Signore Gesù Cristo “ut vitam habeant” – di portare i nostri fedeli ad un livello di “non peccato mortale” . Avevamo espresso il nostro insegnamento catechistico con le parole: essere in grazia di Dio significa non avere peccati mortali nell’anima. Il resto lo abbiamo chiamato “perfezione”, cioè qualche cosa che si aggiunge come ornamento.Non ci poteva essere impoverimento più grave della vita cristiana. E’ proprio tradire in pieno il senso della nostra vocazione, l’opera che compie Dio per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo, nella potenza dello Spirito, che é pienezza di amore, che é perfezione nell’amore e quindi qualche cosa di positivo.
Questo ha anche influito nel modo di concepire la nostra vita spirituale, per cui é stato trascurato l’amore di Dio e l’amore del prossimo con tutto ciò che comporta di impegno, di finezza nell’amore, di profondità di vita spirituale. Anche la conversione e la penitenza hanno rischiato di non avere più senso, perché per essere “convertiti” bastava non commettere il peccato mortale. Credo che si possa ripetere una espressione che non ho inventato io: il vero peccato é il peccato veniale: é la disposizione a non amare Dio con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze. Qui si deve operare la conversione. La conversione deve essere una disposizione abituale che non riguarda tanto l’elenco degli atti, quanto l’ atteggiamento della nostra persona nei confronti di Dio e delle sue creature.
Questo atteggiamento deve essere abituale, quindi noi siamo in uno stato di conversione permanente. Non termineremo mai di operare la nostra conversione e più ci avvicineremo a Dio, più avremo la coscienza di essere lontani da Dio. Perché nelle vite dei santi troviamo delle espressioni che noi consideriamo esagerazioni? I santi si dichiarano i più grandi peccatori, i più indegni di stare i mezzo ai propri fratelli perché carichi di tanti peccati.
Si attribuisce, per esempio, a san Luigi il piangere perché aveva commesso qualche sciocchezza da bambino. San Luigi non ha pianto per questo. Piangeva perché misurava la sua distanza da Dio, perché misurava il cammino che doveva ancora compiere per raggiungere quell’amore che doveva esserci in un figlio di Dio. Quelle dei santi sono espressioni sincere, piene di verità. I santi hanno la percezione di quanto sono lontani dal realizzare la loro vocazione di figli di Dio. Il mistero e la santità di Dio sono così profondi e così alti che, a mano a mano che si percepiscono ci danno la misura del nostro nulla, della nostra miseria, della nostra imperfezione.
Poiché la distanza da Dio é sempre in rapporto al nostro attaccamento a noi stessi, alle persone e alle cose, deve sempre essere operante il nostro distacco e quindi la mortificazione e la penitenza. Ricordo una persona a cui ho voluto bene, ma che si era invischiata in alcune forme mistiche. Lei e il suo “enturnage” ritenevano di non avere più bisogno di penitenza. Di fatti si concedevano certe soddisfazioni perché oramai erano stabliti nell’amore di Dio. E’ un indice di ciò che si può insinuare nel nostro spirito per non avere capito in quale mistero noi siamo coinvolti. Noi siamo coinvolti nel mistero della paternità di Dio, nel mistero dell’amore di Dio per noi, tale da essere diventati figli di Dio.
Il senso della nostra conversione deve realizzare in noi stessi la figliolanza adottiva di Dio per mezzo di una conversione in senso positivo, per mezzo di una conversione ininterrotta. Sarebbe interessante mettere in evidenza la funzione del sacramento della penitenza nella vita cristiana. Il sacramento della penitenza é segno e strumento della nostra conversione in quanto in noi ci sono i segni evidenti della penitenza, in quanto per l’atto terminale del sacramento che si conclude con l’assoluzione, diventa efficace la grazia di Dio, e la grazia di Dio opera nel senso della conversione.
Il momento dell’assoluzione dovrebbe essere il momento conclusivo di una penitenza già in atto, che possibilmente si é già protratta nel tempo e per un tempo adeguato, in modo che sia segno moralmente sicuro che c’é una conversione in atto, che viene assunta dalla grazia di Dio per essere coinvolta nella corrente di ritorno, con nostro Signore Gesù Cristo, al Padre.
A questo proposito, abbiamo ritenuto o riteniamo la penitenza come un atto complementare del sacramento. Dovrebbe essere un cammino di impegno e di conversione che viene concluso con l’assoluzione sacramentale.
Ho detto solo per accenni.
OM 389 Sacerdoti 71 – S.Teresa 17-3-71