Abbazia di Noci 5 agosto 1972 per Abate Mariano Magrassi tortonese
Mons. Magrassi durante la concelebrazione per l’ottantesimo compleanno del vescovo Ferrari – 1990 Fasano – Brindisi
Carissimi, quest’oggi io particolarmente non mi devo abbandonare ai ricordi e a tutto ciò che il cuore, la memoria e il sentimento potrebbero dettare, perché finirebbe di emergere la nostra povera persona, mentre la persona di ciascuno di noi è letteralmente coinvolta da qualche cosa di infinitamente più grande, come è la celebrazione nella quale ognuno di noi svolge la sua parte: la celebrazione della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia, nella quale si inserisce la benedizione del nuovo Abate di questa comunità benedettina. Anche la benedizione dell’Abate non sta al primo posto; al primo posto sta Dio con la sua Parola, col suo Amore; al primo posto sta Dio che compie il suo disegno di misericordia nelle persone più semplici e nei modi più impensati.
Perché noi dobbiamo prendere coscienza di essere nel vivo di un avvenimento di salvezza che ci viene incontro, di un avvenimento che viene incontro a chi presiede questa celebrazione, al nuovo Abate, a ciascuno di noi. Questo evento di salvezza si compie nella Chiesa concreta in cui noi ci troviamo, che ha come segno e strumento di unità il Vescovo che, molto umilmente, si è messo all’ultimo posto in questa celebrazione.
E’ in questa Chiesa, in questa Chiesa locale, che contiene il mistero di tutta la Chiesa, che questo accade. E’ un evento di vita della Chiesa, un’espressione di vita della Chiesa perché l’originalità di San Benedetto mi pare che stia proprio qui: nell’aver raccolto intorno a sè dei discepoli che prendessero alla lettera il Vangelo, che lo vivessero in tutte le esigenze e diventassero fermento in mezzo al popolo di Dio perché questo popolo di Dio potesse camminare più facilmente verso l’adempimento della propria vocazione.
La vita religiosa in genere e quella benedettina in specie non si pone fuori della comunità locale non si pone fuori del popolo di Dio in mezzo al quale essa vive, opera, svolge la sua attività e il suo compito. E’ proprio radicata, è proprio concretizzata in tutte le sue espressioni in mezzo al popolo santo di Dio, perché possa essere quasi una guida, un faro per permettergli di raggiungere il fine della propria vocazione.
Una intuizione evangelica – quella di San Benedetto – di esprimere attraverso la sua comunità il piano del Padre: costruire e unificare tutto e tutti in Cristo, fare della dispersa famiglia dei figli degli uomini l’unica famiglia dei figli di Dio. I monaci sono dei cristiani veri, autentici; sono dei nostri fratelli che vivono – ripeto – tutte le esigenze del Vangelo in un modo, se necessario, anche eroico. Quando nella Chiesa terminò il periodo del martirio cruento sorse un altro genere di martirio, quello incruento:< quello della professione di fede attraverso una vita che corrispondesse a tutte le esigenze della Parola di Cristo.
E in questa comunità di figli del Padre si pone la figura dell’Abate, la sua funzione, la sua presenza. Abate – per sè – vuole dire padre, ma non è lui il padre, il Padre è Dio. Mi pare che San Benedetto abbia sufficientemente rimarcato questo aspetto e precisato questa funzione quando – se la memoria non mi tradisce – ha detto che”l’Abate fa le veci di Cristo” Fa le veci di Cristo in mezzo aIla comunità, di Cristo il quale conduce al Padre, di Cristo che raccoglie intorno al Padre. Ecco, mi pare il compito dell’Abate, che è molto significativo non solo per la vita di questa comunità, ma anche per tutta la vita cristiana.
La comunità benedettina è la comunità tipo, < la comunità modello di tutte le nostre comunità, di qualsiasi genere, di qualsiasi formazione. Tutte debbono attuare questo unità intorno a coloro che rappresentano il Cristo e che ne fanno le veci per rivelare il Padre.
Come Cristo ha rivelato il Padre! Quanto Gesù ha parlato del Padre! Come Gesù ha parlato del Padre! Al punto che Filippo, a un certo momento, dice: “Maestro, mostraci il Padre, ed è finita, ed è tutto!’` E voi conoscete la risposta che Gesù ha dato a Filippo, la risposta che Gesù dà per tutti quelli che hanno il compito di rivelarlo in mezzo alla comunità, i quali debbono condurre al Padre rivelando il Padre.
Ma io non mi debbo abbandonare a tutto ciò che la vostra fede in questo momento mi richiamerebbe, per quanto importante sia questo compito in una comunità cristiana, in cui tutti debbono considerarsi e amarsi come fratelli; e tutte le comunità cristiane si debbono conformare a questo modello come é scritto da San Paolo nella lettera che noi abbiamo appena ascoltato. Rivelare la bontà del Padre, l’amore del Padre! Possiamo dire che ci siamo un po’ allontanati nella nostra predicazione, nella nostra catechesi da questa suprema rivelazione: Dio è amore, Dio è Padre, Dio è per noi, Dio è il nostro Padre che ci ha amato al punto da darci il suo Figlio.
Il nostro Dio non é un Dio degli uomini ma, é un Dio per gli uomini. Che c’è di più grande, di più importante, di più fondamentale per tutte le esigenze di queste povere creature umane? Esse hanno bisogno di sapere con certezza di essere amate al di sopra di tutto, non di un amore qualunque ma di un amore infinito.
Compito dell’Abate è di fare le veci di Cristo, é quello di condurre al Padre, con l’esempio di una fiducia e di un abbandono che è “in spe contra spem”, nonostante le difficoltà della vita, le tristezze dell’esistenza, tutti i richiami che ci possono condurre lontano. Condurre al Padre con questo esempio di una sicurezza e di una certezza che Dio è amore, che Dio è al disopra di tutto e di tutti. Se Dio è per noi, « chi potrà essere contro di noi?
Questo comporta un compito in mezzo a una comunità per animarla cristianamente. L’Abate che fa le veci di Cristo, come Cristo salda l’unione dei figli intorno al Padre, come segno e strumento di unità. Quante volte, noi vescovi, ce la sentiamo ripetere questa espressione del Concilio: che siamo segno e strumento di vera unità, in mezzo alla nostra popolazione, ai nostri sacerdoti! Questa è la caratteristica dell’abate: San Paolo ci dà delle indicazioni molto preziose per costruire questa comunità, con umiltà, mansuetudine, pazienza e sopportazione cercando l’unità che lo Spirito di unità costruisce dal di dentro diffondendo l’amore nei nostri cuori.
Questo figliolo che oggi riceve la Benedizione Abbaziale è appunto tale strumento: ma non è lo strumento che conta ma Chi maneggia questo strumento, cioè Dio nelle cui mani noi siamo per costruire l’unità in mezzo ai nostri fratelli, servendoci dei doni dello Spirito Santo che hanno, appunto,tale importante funzione come il nostro Marmion sottolinea così bene nell’impareggiabile suo libro “Cristo nei suoi misteri”.
Oggi, 5 agosto, si compiono tanti anni – mi pare 40- da che Lei, Abate Ceci, ha cominciato colla sua comunità la vita in questo Monastero. Noi ci raduniamo intorno a questa Abbazia che tanto promette per l’ambiente in cui si inserisce, per il bene e lo sviluppo di tutta la Chiesa santa di Dio.
Preghiamo la S. Madre di Dio, preghiamola in particolare per il nuovo Abate, per l’Abate Ceci, per il Vescovo, per tutto il mondo. PreghiamoLa ancora e, soprattutto, per il Papa con il quale tutti noi Vescovi, voi Abati, voi Sacerdoti, Religiosi e Religiose, vogliamo costruire l’unità nel vincolo della carità.
– dal registratore- scritta da un monaco della Abbazia di Noci e spedita al vescovo Ferrari
OM 556 Magrassi 72 – Noci, 5 Agosto 1972
Padre Mariano Magrassi Abate a Norci poi arcivescovo di Bari -veniva dal Seminario di Tortona quando don Carlo Ferrari era il direttore spirituale